venerdì 23 dicembre 2011

LA CULTURA COME CATEGORIA POLITICA (parte I)

Parlando della cultura come categoria politica, viene naturale porsi almeno tre domande: cosa intendiamo per cultura? E per categoria? Qual’è il significato del termine politica? Le domande risultano tanto spontanee, quanto complesse e articolate sono le risposte, che hanno impiegato numerosissimi ottimi studiosi nel tentare di essere chiarite.
Il termine “categorie” è usato dal politoligo Felix Oppenheim come sinonimo di concetti: nel campo filosofico-politico queste due parole diventano sinonimi anche se per il dizionario italiano indicano due cose differenti (categoria è una classe che raggruppa cose della medesima specie; concetto è ciò che la mente percepisce di una cosa). La teoria di Oppenheim segue una linea ricostruzionista, secondo la quale è necessaria un’analisi del linguaggio per liberare i concetti politici da quell’ambiguità, vaghezza e genericità tipiche del linguaggio comune: bisogna ricostruire il linguaggio politico per esplicare con precisione i concetti, affinché non possano essere fraintesi e chiunque possa accedervi, anche perché il linguaggio comune ci riconduce inevitabilmente alla sfera morale e non permette la separabilità tra fatti e valori che Oppenheim tanto auspica.
Differente è il pensiero di Freeden, fondatore del center of political ideology ad Oxford: il suo approccio storicistico lo porta a ricercare non il buon uso di un concetto, ma i differenti usi comuni di un determinato concetto nella storia. A partire da questa base, sviluppa la sua teoria sulle ideologie, definite come sistemi di concetti che si relazionano tra loro mediante le parole e con inevitabili referenti nella prassi concreta: alla base delle ideologie abbiamo quindi un rapporto triplice, parola, concetto, referente, ed ogni concetto è in relazione ad altri secondo un’adiacenza logica o culturale, dando così vita ad una varietà quasi infinita di concetti politici.
Opera fondamentale in questo campo è la “Storia dei concetti” di Brunner, Conze e Koselleck, studiosi tedeschi, che nel 1967 cercano con la loro opera di fornire una raccolta complessiva del vocabolario politico. Importantissima è la distinzione tra “parola” e “concetto”, infatti non tutte le parole hanno una dimensione concettuale, mentre alcune identificano più concetti: bisogna quindi prendere in considerazione sia gli aspetti semasiologici (il mutamento del significato dei concetti nel corso della storia), sia quelli onomasiologici (la condensazione dell’esperienza storica in un concetto determinato), oltre alle inevitabili trasformazioni storico-culturali, perché fondamentale per la formazione e la trasformazione del significato di un concetto è il peculiare contesto socio-culturale. L’indagine di Koselleck sulla storia dei concetti vede infatti indissolubilmente legate la dimensione diacronica (che tratta la continuità nei processi di formazione e trasformazione di un concetto) e quella sincronica o contestuale. In questo senso quindi la storia sociale e la storia dei concetti sono tra di loro irriducibili e si rinviano reciprocamente. La peculiarità del pensiero di Koselleck sta a mio avviso nella teoria dei tempi storici, secondo la quale il lessico europeo ha subito una trasformazione decisiva a causa dei processi di democratizzazione, ideologizzazione, temporalizzazione e politicizzazione del linguaggio tra il XVIII e il XIX sec. (quella che Koselleck chiama settelzeit, che la scuola padovana retrodata a Hobbes).
Nelle teorie degli studiosi presentati, il linguaggio ha un ruolo centrale, così come nell’elaborazione del concetto di cultura; la parola “cultura” viene in realtà usata per esprimere tre concetti differenti: quello gerarchico, quello differenziale e quello generico. Per concetto gerarchico, si intende una visione normativo-prescrittiva, alla cui base c’è un’ideale di formazione individuale: l’individuo acculturato è la realizzazione in atto di ciò che la natura è in potenza, psychè e tecnè coincidono in lui e ciò gli permette di separarsi dal volgo, per appartenere ad una società diversa, “la repubblica delle lettere”. In questa visione gerarchica la cultura, universale, si contrappone ai mores, particolari. Il concetto differenziale si sviluppa a partire dall’epoca delle scoperte: filosofi del calibro di Locke, Rousseau, Voltaire, parlano di culture al plurale, per indicare le differenti culture, tutte meritevoli della stessa considerazione, che popolano il mondo, studiate dalla nuova disciplina dell’antropologia culturale. In questo senso cultura e costume coincidono e la cultura non è mai universale, ma sempre particolare, inglobando tutte le peculiari caratteristiche e attività di una società. Infine per concetto generico intendiamo una dilatazione del concetto di cultura al limite dei confini umani: la cultura è ciò che differenzia l’uomo dagli animali, ovvero tutto quel sistema di comunicazione che permette il confronto con altro; e non si tratta solo della lingua parlata, ma anche di tutte quelle funzioni prelinguistiche (simboli) ed extralinguistiche (gesti), che permettono il contatto con l’altro: la cultura è quindi linguaggio, comunicazione.
Quando la cultura, dinamica, entra in contatto con la politica, statica, si creano i concetti di cultura politica o politica della cultura. Prima di addentrarci nella trattazione di essi è importante però definire cosa intendiamo per politica. Il primo che usò il termine politikon fu Platone, che cercò nella sua opera così intitolata di dare una definizione al politico, come colui che giudica e comanda in vista del bene e possiede la scienza politica, che lo pone al di sopra delle leggi stesse; il discepolo Aristotele nella “politica” parla della scienza politica come la scienza regia, che ha il potere di governare la polis per raggiungere la felicità comune attraverso il giusto mezzo ed evitando degenerazioni. Questi filosofi partono da una antropologia positiva, secondo la quale l’uomo è un animale politico per natura; differente è l’approccio di Karl Schmitt, il quale, da hobbesiano, considera il polemos, elemento essenziale del vivere civile: così la politica diventa l’ambito dell’amicizia o inimicizia o meglio, la politica sta all’amico o nemico come la morale sta al bene o al male. Hans Morgenthau si oppose a questa concezione sottolineando come l’ambito amicizia-inimicizia non è caratterizzante della politica; in più non si può cercare un concetto unitario del politico, perché l’elemento contingente è troppo decisivo e fondamentale: il politico non possiede un’essenza unitaria.

>>FEDE

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