domenica 30 ottobre 2011

Storia d'Italia in musica-Dall'unità alla prima guerra mondiale

Le canzoni popolari si possono dividere in diverse categorie: ci sono ad esempio le canzoni di lavoro cantate per alleviare le fatiche del lavoro; si tratta spesso di motivi che hanno versioni leggermente diverse a seconda delle zone oppure canzoni diverse con lo stesso motivo musicale. I canti sono derivati dalla tradizione per cui è molto difficile precisarne il periodo di origine. Tra i canti di lavoro i più famosi vi sono quelli delle mondine; proprio tra tali canti poi si trovano anche esempi di un altro genere, sviluppatosi nella seconda metà dell'Ottocento: si tratta dei canti anarchici e di protesta divulgatisi con lo sviluppo del socialismo e dei movimenti per i diritti dei lavoratori. In alcuni canti delle mondine troviamo la denuncia delle durissime condizioni di lavoro a cui erano sottoposte. Al terzo genere di cui mi voglio occupare appartengono le canzoni degli emigranti, sviluppatesi in particolare dopo il 1870 quando molti nostri connazionali partivano con la tradizionale valigia di cartone piena di stracci e di speranze. Passiamo ora ad analizzare nello specifico questi tipi di canti a cominciare con quelli delle mondine.
Il lavoro delle mondine era durissimo e il canto servira come passatempo per alleviare la fatica; i testi parlano tipicamente della vita nella risaia e spesso fanno riferimento anche ai sentimenti come l'amore.
Un esempio è dato da “Amore mio non piangere” che racconta il saluto al fidanzato di una giovane mondina che ha terminato i mesi di lavoro e torna al suo paese, dove l'aspettano i genitori( Amore mio non piangere/ se me ne vado via/io lascio la risaia/ ritorno a casa mia). La canzone denuncia la fatica del lavoro e i ritmi durissimi delle risaie( Non sarà più la capa/che sveglia a la mattina/ma là nella casetta/mi sveglia la mammina) in particolare nell'ultima strofa ( Mamma, papà, non piangere/se sono consumata/è stata la risaia/che mi ha rovinata). Un altro famoso canto proveniente dal repertorio delle mondine è “Sciur padrun da li belli braghi bianchi” col quale venivano fatte le richieste di salario al padrone; il testo parla di giovani mondine che per la prima volta hanno svolto il loro lavoro, durante il quale hanno anche fatto degli errori ( “A scusa sciur padrun sa l’em fa tribuler/i eran li premi volti, i eran li premi volti/ can savieum cuma fèr” ovvero scuscaci signor padrone se l'abbiamo fatta “tribolare” erano le prime volte non sapevamo come fare) e, arrivato il momento della partenza, chiedono il salario( “Sciur padrun da li beli braghi bianche föra li palanchi c'andum a cà” ovvero signor padrone dai bei calzoni bianchi, fuori i soldi che andiamo a casa). Un'osservazione sul padrone: il fatto che porta i calzoni bianchi è indice sia di ricchezza sia del fatto che non fa lavori faticosi.
Tra i canti delle mondine possiamo, come detto, trovare esempi di canti di protesta: questi vennero diffusi nella seconda metà dell'800 grazie alla nascita dei movimenti socialisti e anarchici e direi anche grazie alle esperienze della prima e soprattuto della seconda internazionale. Il repertorio di questi canti è vastissimo ma per rimanere nel campo delle mondine prenderò come esempio “Sebben che siamo donne” conosciuta anche con altri titoli come “La lega” o “Paura non abbiamo” e altri ancora. Il canto risale probabilmente agli inizi del '900 comunque non più tardi del 1914; ce ne sono varie versioni che differiscono tra loro per qualche parola ma il significato di fondo è lo stesso: le donne che per amore dei figli si mettono insieme chiedendo libertà e soldi (“... e noi altri socialisti(lavoratori in altre versioni) vogliam la libertà” e nell'ultima strofa “ E voialtri signoroni/che ci avete tanto orgoglio/abbassate la superbia/ e aprite il portafoglio). Nel testo vi è anche l'attacco violento ai crumiri ovvero quei lavoratori che non partecipavano agli scioperi, e per questo erano considerati alleati dei padroni e nemici dei proletari ( “ E la libertà non viene/ perchè non c'è l'unione/ Crumiri col padrone/son tutti d'ammazzar).
Uno dei canti di protesta più famosi è “Addio a Lugano” meglio conosciuta come "Addio Lugano bella" scritto dall'anarchico Pietro Gori nel 1895, quando fu condannato all'esilio dalla Svizzera, poichè era considerato l'ispiratore dell'omicidio del presidente francese Sadi Carnot. Durante una breve prigionia che precedette l'esilio scrisse il famoso testo nel quale troviamo dapprima la proclamazione della propria innocenza(“cacciati senza colpa/gli anarchici van via” il plurale è dato dal fatto che oltre a lui erano stati condannati all'esilio altri esuli), poi l'attacco al governo svizzero( “Ma tu che ci discacci/con una vil menzogna/repubblica borghese/un dì ne avrai vergogna” e più avanti “Elvezia, il tuo governo/schiavo d'altrui si rende/di un popolo gagliardo/le tradizioni offende/e insulta la leggenda/del tuo Guglielmo Tell”). Inoltre si possono trovare nel canto i valori di amore, e pace che gli anarchici dicevano di sostenere(“eppur la nostra idea/non è che idea d'amor” “Banditi senza tregua/andrem di terra in terra/a predicar la pace/ed a bandir la guerra). Il canto conobbe molta fortuna tra gli anarchici dell'inizio del secolo scorso e non solo: dopo la seconda guerra mondiale fu cantato anche da diversi cantanti e cantautori tra i quali Giorgio Gaber, Francesco De Gregori e Milva.
Di pochi anni posteriore è “Il feroce monarchico Bava”, testo anonimo scritto dopo i disordini scoppiati a Milano a causa dei rincari del prezzo del pane, repressi nel sangue dal gnerale Bava Beccaris. Il canto condanna la sanguinosa repressione unendo sdegno ed ironia( Alle grida/strazianti e dolenti/di una folla che pan domandava/il feroce monarchico Bava/gli affamati col piombo sfamò). Forte è la critica alla monarchia e ai monarchici( Deh non rider sabauda marmaglia/se il fucile ha domato i ribelli/se i fratelli hanno ucciso i fratelli/sul tuo capo quel sangue cadrà!) per questo è considerato un inno socialista, che però può essere anarchico e repubblicano. Di particolare carica emotiva è l'ultima strofa che evoca l'immagine di madri che, al calar della sera, piangono i loro figli ingiustamente( almeno nella visione dell'autore) arrestati o uccisi(Su piangete mestissime madri/quando oscura discende la sera/per i figli gettati in galera/per gli uccisi dal piombo fatal).
Cambiamo ora argomento e passiamo ad un altro importante, ma anche drammatico, capitolo della storia italiana: l'emigrazione; il cancro della disoccupazione attanagliava la nazione e molti cittadini poveri erano costretti a cercare la fortuna nel continente americano. Ricordiamoci di loro, della loro sofferenza ma anche della loro speranza; quegli uomini hanno dimostrato di avere forza e coraggio ben al si sopra di quanto ci si potesse aspettare da dei “pezzenti”. Per aiutarci a ricordare esistono molte canzoni che si rifanno a questo tema; una delle più famose, diffusa soprattutto nel Nord-Italia è “Mamma mia dammi cento lire”. Le versioni esistenti sono ovviamente diverse a seconda della zona ma il tema è comunque lo stesso cioè una figlia che chiede alla madre i soldi per andare in America. Ci si immaginerebbe quindi la tipica visione della famiglia vestita di stracci che viene accolta negli USA dalla Statua della Libertà... ma sarebbe un errore: l'America a cui si riferisce il testo è quella meridionale che era la meta preferita dei contadini settentrionali nella seconda metà del XIX secolo. Tornando alla canzone, la mamma non vuole che la figlia parta ma la ragione non è il costo del viaggio (Cento lire io te le do/ ma in America no no no) bensì la paura del viaggio. L'insistenza dei fratelli però convince la madre ad acconsentire alla partenza seppur a malavoglia (Vai, vai pure o figlia ingrata/che qualcosa succederà). La nave in effetti affonda provocando la morte della giovane, in alcune versioni questo fatto è esplicitato (il mio sangue è rosso e fino i pesci del mare beveran/la mia carne è bianca e pura la balena la mangerà) in altre è implicito; comune a molte versioni (se non tutte) è l'ultima strofa in cui la figlia rimpiange di non aver ascoltato la madre. Il naufragio della canzone è simbolico per indicare i pericoli dell'emigrazione e del mare. Purtroppo nella storia d'Italia i naufragi delle navi che trasportavano emigranti era una triste realtà: uno dei più drammatici fu quello del Sirio, nave che nell'Agosto 1906 affondò nello stretto di Gibilterra. Il vaporetto era in servizio da oltre venti anni e il 2 Agosto era partito da Genova alla volta dell'America del sud; a bordo vi erano numerosi passeggeri di prima e seconda classe e circa 1200 emigranti. Il 4 Agosto il transatlantico urtò uno scoglio, l'urto fece cadere in acqua numerosi passeggeri che morirono annegati. La nave però non affondò subito ma ci mise ben 16 giorni, purtroppo i soccorsi furono caotici e quindi molti passeggeri perirono; il numero preciso è discusso: per le fonti ufficiali è di 293 ma la stampa, mai smentita, parla di oltre 500 vittime. La tragedia fu un duro colpo per la marina italiana e presto si diffuse una canzone popolare che parlava della vicenda, “Il tragico naufragio della nave Sirio”. Il testo è breve conta quattro strofe da due versi e una quinta di quattro versi. È evidente il contrasto tra la strofe 2 e le strofe 3 e 4: si passa dall'allegria dei passeggeri all'ultimo abbraccio dei genitori ai figli durante l'annegamento(Ed a bordo cantar si sentivano/tutti allegri del suo, del suo destin. / Urtò il Sirio un orribile scoglio/di tanta gente la mise, la misera fin / Padri e madri bracciava i suoi figli/che si sparivano tra le onde, tra le onde del mar). Nell'ultima strofa si fa riferimento a un vescovo, questi era il vescovo di San Paolo in Brasile, anche lui risultò fra le vittime. L'affondamento del Sirio rimane una delle pagine più drammatiche della marina italiana e non a caso è stato più volte definito come “Il Titanic degli italiani”. Tanti uomini che in un occhio avevano una lacrima di nostalgia per il paese che lasciavano e nell'altro la luce della speranza: un maledetto scoglio le ha portate via entrambe!

venerdì 28 ottobre 2011

IL CINEMA DI ANDREW NICCOL

Forse il suo nome non vi dirà niente, perché non ha raggiunto certo la fama di altri colleghi suoi coetanei, forse non andrete mai al cinema appositamente per vedere una sua opera, forse non lo vedrete mai subissato di statuette alla cerimonia degli Oscar, ma Andrew Niccol è uno dei più grandi geni della storia del cinema.

Nato nel 1964 in Nuova Zelanda, ha iniziato a lavorare negli spot pubblicitari giovanissimo a Londra, prima di passare al grande schermo.

Nel 1997 scrive e dirige lo stupendo Gattaca, una meravigliosa opera che parla dell’uomo, e di come i nostri stessi geni, che in fin dei conti rappresentano la base di ciò che siamo, finiscano per diventare una limitazione. Nei geni di Vincent, il protagonista, sembra scritto il suo destino: non valido, ovvero non adatto a svolgere incarichi di una certa importanza, come l’astronauta, il suo sogno fin da bambino, a causa di una malformazione cardiaca. Un’idea piuttosto semplice, quella del mondo diviso nelle classi sociali dei sani e dei non-sani, ma trasportata in un misterioso futuro prossimo (tecnologie all’avanguardia, ma architettura e moda che ricordano gli Anni Sessanta) dove la perfezione è tutto. Cosa non molto lontana dalla realtà odierna, e Niccol lo sa bene.

Ma Vincent riuscirà nel suo sogno, riuscirà a dimostrare di essere come gli altri, superando le sue debolezze fisiche tramite l’astuzia, l’applicazione e la perseveranza. Non per niente, il suo cognome è Freeman, “uomo libero”, solo uno dei tanti tocchi di stile coi quali l’autore neozelandese delinea i suoi personaggi.

Ci vogliono cinque anni, però, prima di vederlo tornare dietro la macchina da presa, durante i quali si impegna nella realizzazione della sceneggiatura di The Truman Show, film diretto poi dal veterano australiano Peter Weir nel 1998, progetto che gli varrà diversi premi e una nomination agli Oscar come miglior sceneggiatura originale.

Un film che rappresenta un’epoca, un vero e proprio cult, nel quale Niccol si getta ancora una volta contro la cultura dell’apparenza, lanciando l’ignaro Truman Burbank (altro nome accuratamente scelto, in quanto l’unico “vero uomo” della città, mentre Burbank viene dall’omonima cittadina della California, sede di molti studios) in un reality show che occupa l’intera sua vita. Riferendosi abbastanza esplicitamente alla religione, Andrew Niccol parla sempre del suo tema preferito: la libertà dell’uomo.

La libertà di scegliere e, in definitiva, di vivere, quella negata prima a Vincent e ora a Truman, prigioniero fin dalla nascita (altro parallelo con Vincent) di qualcosa che non dipende da lui, ovvero un sadico show nel quale un individuo viene privato della sua umanità per diventare una cavia da laboratorio, sotto gli occhi attenti di un regista-dio e di un pubblico ipnotizzato, tutti colpevoli di una presupposta superiorità nei confronti del loro stesso strumento di divertimento.

A Niccol il pubblico piace davvero poco, vuoi per la sua assuefazione passiva, vuoi per quella sua malsana tendenza a glorificare ogni cosa entri in casa sua da quello schermo del salotto.

Non a caso, nel 2002 scrive e dirige S1m0ne, film arricchito dalla superba interpretazione di Al Pacino, regista in crisi che decide di creare al computer la sua nuova attrice perfetta, che finisce col diventare un’icona.

Ancora un regista-creatore, un regista-dio, a testimonianza di una critica che non manca di colpire il suo stesso mestiere; ancora una volta un’illusione, un inganno, quello della stupenda Simone (ovviamente un nome non a caso, ma frutto dell’unione delle prime lettere delle parole “simulation” e “one”), scambiata per un essere umano tanto che, quando il regista Viktor (come il professor Frankenstein) decide di porre fine alla sua esistenza, viene accusato di averla ucciso e per questo incarcerato.

Sebbene i temi siano puramente niccoliani, il finale ci presenta qualcosa di diverso: un finto lieto fine (mentre veri e propri happy ending erano quelli dei due precedenti film), dove Viktor viene scagionato, Simone ritorna in vita, ma, per mantenere l’illusione (illusione che frutta al regista e alla sua ex-moglie, nonché sua produttrice, un sacco di soldi), essa spiega la sua assenza con il parto di un figlio (anch’esso artificiale), avuto proprio da Viktor. Il protagonista, quindi, non ottiene alcun libertà nel finale, ma anzi si ritrova prigioniero ancor più di prima: rinchiuso dentro una menzogna che lui stesso ha creato e dalla quale non può più sfuggire.

Infondo, è una sorta di menzogna anche l’aeroporto nel quale resta rinchiuso il protagonista di The Terminal, scritto da Niccol e diretto nel 2004 da Steven Spielberg, un altro Viktor che si arriva negli Usa proprio mentre nel suo paese scoppia un colpo di stato, che toglie validità al suo passaporto e gli rende impossibile ottenere il visto d’entrata negli Usa. Una menzogna perché l’aeroporto è fisicamente un luogo, ma di fatto non lo è: è un non-luogo, attraversato da molti, ma abitato e vissuto da nessuno, Eccetto lui.

Lord of War, del 2005, è un’altra feroce critica alla società occidentale, che passa dagli occhi e dalle parole di un trafficante d’armi internazionale che, nonostante sia disposto ad ammettere le proprie colpe, le trova infinitamente insignificanti di fronte a quelle dei grandi trafficanti d’armi, ovvero le potenze mondiali come gli Stati Uniti, che in un anno solo trattano dieci volte tanto quello che lui riesce a fare.

Un’altra menzogna, quella di cui ci rende partecipi Andrew Niccol, la menzogna della democrazia che vende armi in tutto il mondo, ma si lamenta per le guerre e criminalizza il singolo trafficante.

E anche stavolta, il regista non risparmia di accusare noi, il pubblico, rivolgendoci direttamente la parola tramite il suo protagonista: noi che chiudiamo gli occhi e ci rifiutiamo di credere che il nostro (o i nostri) paese faccia parte di quel male che dice di combattere. Noi, infondo, siamo lo stesso pubblico che guarda che disprezza l’imperfezione, che guarda i reality show e che prega gli dèi dello spettacolo.

Valerio Moggia

mercoledì 26 ottobre 2011

è nato prima l'uovo o la gallina?!

Ciao a tutti, sono Rossana.
E’ la prima volta che scrivo su questo sito e visto che mi occuperò della parte scientifica ho pensato di iniziare con un grande quesito che da sempre l’uomo si pone: è nato prima l’uovo o prima la gallina?!
E’ un gran bella domanda, peccato che per il mondo scientifico sembra già essersi risolta tempo fa.
Facciamo un po’ di passi indietro nella storia fino ad arrivare al periodo del Cambriano, quando si ebbe una comparsa repentina di piante, funghi e animali che colonizzarono poi le terre emerse con la conseguente evoluzione delle forme a noi più note di questi organismi.
All’inizio si pensava che gli organismi nascessero per generazione spontanea, vale a dire che le forme di vita avessero origine dalla materia inorganica; questa ipotesi però fu poi confutata da Luis Pasteur. Cosi alla teoria della generazione spontanea si sostituisce quella della biogenesi (ogni specie deriva da un’altra specie).
Ma è proprio qui che nasce il paradosso: se oggi tutto il vivente si origina da altro vivente come sono apparsi i primi organismi (che non possono essere apparsi per biogenesi) ?
La soluzione sta nel fatto che la comparsa della vita sulla Terra si realizzò su una Terra molto diversa dalla nostra.
Con l’ esperimento di S. Miller e H. Urey, basato sulle ipotesi di A.I. Oparin e J.B.S. Haldane, si ricrearono le condizioni della Terra primordiale tali da favorire le reazioni chimiche di sintesi dei composti organici a partire da precursori inorganici.
Nel modello utilizzato l’atmosfera era costituita di H20, H2, CH4(metano) e NH3(Ammoniaca) che, con l’energia fornita dai fulmini e dalle radiazioni UV che attraversavano l’atmosfera primordiale, erano in grado di dare origine a numerosi composti organici compresi alcunisi degli amminoacidi.
Quindi la vita sulla Terra sarebbe comparsa in 4 stadi:
-Sintesi abiotica di piccole molecole organiche, o monomeri (nucleotidi e amminoacidi)
-Unione dei monomeri a formare polimeri (acidi nucleici e proteine)
-Origine di molecole in grado di auto replicarsi
-Inclusione di queste molecole in entità denominate PROTOBIONTI, delimitati da una membrana in grado di separare l’ambiente interno da quello esterno.
Il passaggio chiave è quello della comparsa di REPLICATORI, molecole in grado di auto replicarsi. Oggi si crede che la prima molecola di questo tipo non fosse il DNA ma l’RNA. Questa è l’idea che permetterebbe di superare il paradosso tra chi sia nato prima: l’uovo o la gallina, gli enzimi o i geni?
Nel mondo a RNA, prima di geni ed enzimi, era l’RNA a svolgere entrambe le funzioni!
Spiego meglio: il DNA (che porta tutte le informazioni necessarie per la vita) per replicarsi ha bisogno di proteine, ma le proteine per formarsi necessitano dell’informazione data dal DNA. Come tutti sanno il mediatore tra DNA e proteine è l’RNA: il DNA viene trascritto in RNA e quest’ultimo viene poi tradotto in proteine.
All’origine della vita si sarebbe quindi formata una molecola di RNA che era in grado di portare l’informazione per dare origine a proteine e che era anche in grado di replicarsi.
Il DNA si sarebbe formato solo successivamente in quanto molecola più stabile.

lunedì 24 ottobre 2011

Un amore a tutta birra



Un amore a tutta birra
Chuck e Blair de no’antri

Starring: Carlino Altoviti as Chuck Bass, Contessa Pisana as Blair Waldorf

VOCE FUORI CAMPO: “E subito si levò un mormorio di dissenso tra il pubblico in sala”.

Che cosa c’entra un telefilm americano del 2007 molto popolare tra i giovani con un romanzo italiano del 1857?! Apparentemente niente; non potrebbero appartenere a due mondi più diversi.

Il primo fa parte di quella che potremmo definire, proprio a voler essere gentili, cultura di serie b, fatta di sitcoms, telefilms ,soap operas, telenovelas, , e tutte le –s che volete.
C’è chi storcerà il naso nel leggere la parola “cultura” per riferirsi a cose simili. E soprattutto nel vederle accostate a un’opera vera, un bel mattone di 1000 pagine che fa spavento soltanto a vederlo perché non si riesce neanche a tenere in mano. Questa sì che è vera cultura, un vero romanzo storico barra d’avventura barra di formazione barra d’amore scritto nientepopodimenocheda Ippolito Nievo, patriota nato a Padova il 30 novembre 1831 da un magistrato mantovano e da una nobile veneziana e morto a soli 29 anni poiché imbarcatosi su un piroscafo colto da una tempesta e affondato il 4 marzo 1861, appena 13 giorni prima della proclamazione del Regno d’Italia, tanto desiderato dal nostro.

Senza accorgermene sono caduta nel resoconto biografico di un autore che in realtà amo molto, poiché con questo libro ahimè poco conosciuto mi ha aperto un mondo che non pensavo potesse riguardarmi: quello della fede nella vita, che spesso ho tralasciato per rincorrere falsi miti senza capire che invece la forza più grande sta proprio nel difenderla sempre e comunque, a prescindere da qualsiasi altra cosa.

Chiudo questa parentesi poetica e filosofeggiante per tornare al punto della situazione, perché tra i vari e interessantissimi aspetti di questo romanzo ne voglio approfondire uno solo , il più banale e scontato forse, ma che mi permette di riallacciarmi a Gossip Girl. È proprio questo il telefilm a cui mi riferisco nel titolo, come forse qualche ragazza aveva già capito.

Perché accostare due cose così diverse? …E perché invece non farlo? Questo atteggiamento di rifiuto nei confronti della paracultura purtroppo è stato il prevalente nel secolo appena trascorso, ed è stato particolarmente nocivo soprattutto nel campo della letteratura: pensiamo ai romanzi gialli, o agli harmony, o ancora ai fumetti e ai fotoromanzi, tutte forme d’arte snobbate dai letterati accademici, che piuttosto che informarsi e aggiornare i loro studi hanno preferito rinchiudersi nella loro comoda e fatiscente torre d’avorio, aggrappandosi a una tradizione che invece necessitava e necessita tuttora di un rinnovamento per attirare ancora l’interesse del pubblico, sempre più schiavo dei mass media.
Lungi dal volerli imitare, ho quindi deciso di fare una provocazione perché non ho potuto fare a meno di notare una somiglianza evidente tra l’amore di Chuck Bass, sfrontato e viziato figlio di un potente industriale di New York, e Blair Waldorf, la regina dell’Upper East Side, tutta feste e ragazzi, ma anche diligente studentessa impegnata nelle più numerose attività per essere sempre la numero uno, e quello tra Carlino Altoviti, il protagonista delle Confessioni d’un italiano di Nievo, e la contessa Pisana, la civettuola figlia del padrone di casa, o meglio , di castello.

Al di là dell’omonimia tra i due uomini (Chuck e Carlino sono in fondo diminutivi di Carlo), pura coincidenza, il parallelismo sta proprio nel tipo di relazione che i due intrattengono con le rispettive fanciulle: come gli appassionati già sanno, tra Chuck e Blair c’ è un rapporto di amore e odio, perché Blair è inizialmente fidanzata col migliore amico di lui, il bel Nate, ma perderà la verginità proprio con Chuck nel settimo episodio della prima stagione, e da quel momento il loro rapporto si farà più intricato che mai.
I due si frequenteranno di nascosto, per poi lasciarsi e di nuovo ritrovarsi, ma quando sarà il momento per Chuck di mostrarsi pronto a una relazione seria, se la fa sotto come un coniglio e lascia la “povera” Blair a spassarsela con uno sconosciuto. Chuck ne è geloso, ma Blair vorrebbe una vera prova d’amore, che il giovane fallisce clamorosamente non pronunciando quelle famose cinque letterine magiche.
Inizia una serie di ripicche reciproche, di giochi a chi cede per primo nel dire “ti amo” , di tira e molla, di relazioni con altre persone (la più clamorosa è la notte di fuoco tra Chuck e Jenny Humphrey, sorella dell’ex ragazzo di Serena, la migliore amica di Blair) per tenere vivo il loro rapporto, tutte cose che però non permettono di coronare questo sogno d’amore.

Il culmine si raggiunge nella quarta stagione, quando Chuck e Blair si dichiarano esplicitamente guerra, per poi riappacificarsi di nuovo e farsi travolgere dalla passione. Poi Chuck va con Raina Thorpe e Blair si “suicida socialmente” baciando Dan Humphrey, ma capisce di essere ancora legata al suo Chuck, anche se quando il principe conosciuto a Parigi l’estate precedente viene a cercarla a New York lei non se lo fa ripetere due volte e accetta la sua proposta di matrimonio.

Torniamo indietro di 150 anni, e vediamo che anche tra Carlino e Pisana le cose non vanno molto meglio: il nostro eroe la ama praticamente dalla prima volta che l’ha vista nel castello, dove vive la propria infanzia relegato in cucina con l’amico Martino e i gatti che la popolano; ma lei, non appena ne ha la possibilità, sgattaiola in giardino per pavoneggiarsi con gli altri bambini del circondario, per poi tornare da Carlino ogniqualvolta ne abbia voglia, sapendo di trovare terreno fertile per darsi arie e sentirsi apprezzata.
Una volta cresciuta, Pisana perde il pelo ma non il vizio: comincia a flirtare con altri giovani nobili pretendenti, e al povero Carlino non resta che buttarsi in politica, cercando di dimenticarla e dedicandosi agli alti valori della patria e dell’onore.

Lo smacco arriva quando Pisana sposa il vecchio conte Navagero per salvare le sorti della sua famiglia, che rischia il fallimento a causa del vizio del gioco della madre. Ma Carlino resta sempre nei suoi pensieri: stanca della vita matrimoniale, fugge di casa per implorarlo di accoglierla e vivere insieme. Il sogno di una vita sembra realizzarsi per il nostro eroe, sennonché subito si frantuma per ridare spazio alla realtà: Carlino deve lasciare Pisana a Venezia e partire per Milano perché inseguito dalla polizia.

Nel frattempo però una donna si inserisce nella love story: si tratta di Aglaura, figlia di un amico del padre di Carlino, che fugge insieme a lui per cercare a Milano l’amato Spiro. Pisana si convince che i due abbiano una relazione, per cui convive con un uomo, Ettore Carafa, per vendicarsi di Carlino. Non vi sembra di ritrovarvi di fronte agli stessi giochetti di Chuck e Blair?

Chiarito il malinteso, i due convivono come “fratelli” e vivono la loro storia tra mille difficoltà, soprattutto dovute alle guerre che imperversano nella penisola italiana tra Sette e Ottocento. Pisana, per esempio, aiuterà Carlino, che ha perso la vista in battaglia, a uscire di prigione, nonostante l’amico si sia sposato anni prima con una giovane timida e ben educata, Aquilina, proprio per volere di Pisana, che rinuncia ai suoi sentimenti per il vincolo di ospitalità che la lega alla ragazza.

Tutto ciò ricorda il sacrificio di Chuck in una delle ultime puntate della quarta stagione: egli sa di amare Blair ma si rende conto che il principe Louis è per lei un ottimo partito poiché la rende felice come lui non ha mai saputo fare.
“O mio Dio, Chuck Bass che matura!” afferma, più o meno con queste parole, l’amico Nate, incredulo di questo gesto d’amore con cui Chuck capisce che la cosa migliore per garantire a Blair tutto il bene possibile è proprio lasciarla andare. Anche a Pisana questa decisione costa cara, ma dentro di sé capisce che è la cosa giusta.

Il suo amore per Carlino, in fondo, lo dimostrerà tutto durante l’esilio a Londra: la donna si consuma letteralmente per lui, chiedendo l’elemosina per strada e patendo il freddo e la fame per garantire la sopravvivenza al povero Carlino, che non si accorge di nulla per via della sua cecità, ma pian piano riacquista la vista, e appena scopre la verità non vuole accettare il fatto che la donna morirà di stenti e fatiche per causa sua.

Fermo restando che non intendo affatto ridurre la grandezza del romanzo nieviano a semplice e ciarliero gossip, o sminuirlo (non mi permetterei mai, credo sia il mio romanzo preferito quasi in assoluto), certo è dunque che, nonostante le differenze di ambientazione geografica e storica, di status, di esito e di genere tra i due prodotti culturali appena analizzati, la concezione molto particolare e antitradizionale dell’amore regna sovrana in entrambi.
“La carestia delle parole fa dire amore in vece di quell’altro qualunque vocabolo che si dovrebbe adoperare; perché una passione tanto varia, che abbraccia le sommità più pure dell’anima e i più bassi movimenti corporali, e che sa inchinar quelle a questi, o sollevar questi a quelle, e confonder tutto talvolta in un’estasi quasi divina e tal altra in una convulsione affatto bestiale, meriterebbe venti nomi proprii (…). L’amore è una legge universale che ha tanti diversi corollari, quante sono le anime che soggiacciono a lui. (…) Molti entrano nell’amore con un buon sistema preconcetto, e vogliono secondo esso, non secondo la forza dei sentimenti, spiegare le proprie azioni. (…) Credono che l’amore eterno e fedele sia il migliore. Ma per radicarsi stabilmente nel petto un gran sentimento, non basta saperlo e crederlo ottimo, bisogna sentirsene capaci.” Non pensate che queste parole si sposino perfettamente anche con la storia tormentata ma vera e appassionata dei due giovani newyorkesi?

È vero che sulla quinta stagione di Gossip Girl, che non è ancora stata trasmessa in Italia, si mormora molto ma ancora non si hanno notizie certe. Non sappiamo quindi come finirà il complicatissimo rapporto tra Chuck Bass e Blair Waldorf. Chissà però che il maturo Chuck non ci stupisca ancora, magari dedicando alla Regina B versi d’amore come quelli pronunciati da Carlino nell’explicit del romanzo:
"O primo ed unico amore della mia vita, o mia Pisana, tu pensi ancora, tu palpiti, tu respiri in me e intorno a me! Io ti veggo quando tramonta il sole, vestita del tuo purpureo manto d'eroina, scomparir fra le fiamme dell'occidente, e una folgore di luce della tua fronte purificata lascia un lungo solco per l'aria, quasi a disegnarmi il cammino.
Ti intravedo azzurrina e compassionevole al raggio morente della luna, ti parlo come a donna viva e spirante nelle ore meridiane del giorno. Oh tu sei ancora con me, tu sarai sempre con me (…).
Sperammo ed amammo insieme; insieme dovremo trovarci là dove si raccolgono gli amori dell'umanità passata, e le speranze della futura. Senza di te, che sarei mai io?... Per te, per te sola, o divina, il cuore dimentica ogni suo affanno, e una dolce malinconia, suscitata dalla speranza, lo occupa soavemente".










The End







Roby<^>

venerdì 21 ottobre 2011

20 motivi per cui credere nella politica

Gli amministratori di questo blog hanno scelto democraticamente di
evitare riferimenti diretti a partiti politici e ai loro maggiori
rappresentanti. Per questo motivo l’articolo seguente è stato
lievemente modificato nei punti 8 e 9. Per l’originale rimandiamo a
http://sites.google.com/site/phiperfilosofia/elenco-dei-motivi-per-cui-bisogna-credere-nella-politica
Detto questo ci sembrava opportuno, data la situazione politica attuale in
Italia, esprimere da una parte il nostro sdegno, dall’altra la
speranza, perché siamo giovani e siamo il futuro. Ma il futuro
dobbiamo costruircelo a partire da oggi, solo così la nostra
speranza potrà essere soddisfatta.
Il pezzo di Pietro Giuliani esprime perfettamente tutto ciò e molto di
più.


Elenco dei motivi per cui bisogna credere ancora nella politica:

1. Perché in Italia, in questo periodo, non c’è politica.
2. Perché di conseguenza possiamo dedurre che quanto è presente adesso
NON è politica.
3. Perché fare politica significa impegnarsi effettivamente per
migliorare la propria società civile. E questo non corrisponde alla
partitocrazia corrotta e mafiosa attualmente presente in Italia.
4. Bisogna credere nella politica perché più studi cosa essa sia, più
comprendi quanto sia indispensabile.
5. Perché è proprio dal tuo studiare che devi iniziare a far politica.
6. Perché se non ci interessassimo più di politica, apriremmo la
strada a un regime liberticida.
7. Perché leggendo la Costituzione italiana non si può non provare
ammirazione per i valori che essa esprime.
8. Perché, dopo aver letto la Costituzione italiana, non si può che
soffrire vedendo i politici dei nostri giorni.
9. Perché attualmente gran parte dei politici può vincere solo in due
campi: quello dell’illegalità e quello della mafiosità; dal punto
di vista politico è evidentemente perdente.
10. Bisogna credere nella politica per accorgersi dell’evidenza del
punto precedente.
11. Perché per la politica alcune persone hanno dato la vita: le loro
idee devono camminare sulle nostre gambe.
12. Bisogna credere nella politica perché, anche se a prima vista
sembrerebbe che gli uomini siano lupi gli uni per gli altri, essi
sono in realtà animali politici.
13. Perché solo tramite la politica possiamo essere sicuri di essere
tutti realmente uguali, altrimenti varrà sempre la legge del più
forte: non più fisicamente quanto economicamente.
14. In questo periodo non c’è politica e il paese va a puttane,
bisogna credere in essa per poter cambiare la situazione.
15. Se ci fosse una Politica nel paese, per solidarizzare con la nazione
i politici si abbasserebbero lo stipendio e non andrebbero a puttane
anche loro.
16. Bisogna credere in una politica dove non faccia scalpore il fatto che
un politico vada con una diciottenne; questo non per separare la vita
privata da quella politica, ma perché bisogna credere nei giovani
politici.
17. Perché se siamo onesti con noi stessi, abbiamo tutti “a
dream”.
18. Perché quando si sogna da soli è un sogno, quando si sogna in due
comincia la realtà.
19. Perché senza politica non possiamo essere realmente liberi.
20. Perché la politica è la nostra più grande libertà.


Pietro Giuliani http://www.youblisher.com/p/130456-Elenco-dei-motivi-per-cui-bisogna-credere-nella-politica/

mercoledì 19 ottobre 2011

VisioniAlternative: Vuoti a rendere (2007)



Inauguro con questa recensione un piccolo spazio personale dove intendo recensire film. Come suggerisce il nome che ho scelto per la rubrica, verrà dato spazio principalmente a film poco conosciuti, perché generalmente snobbati dalle reti di distribuzione italiana, in particolare pellicole straniere di provenienza non hollywoodiana (mi riferisco al cinema europeo, asiatico, latinoamericano, africano, ecc.) e/o film che in qualche modo vanno oltre i canoni del cinema rivolto al grande pubblico. Chi mi conosce, sa dei miei gusti un po’ “particolari” in ambito cinematografico,comunque cercherò di variare il più possibile la scelta dei titoli per venire incontro ai gusti più diversi. Lascerò spazio anche ad alcune incursioni nel cinema americano e italiano, per film particolarmente meritevoli.
VisioniAlternative è naturalmente aperta a consigli, suggerimenti, apprezzamenti, insulti :-) e a chiunque voglia collaborare in qualche modo.

Ero abbastanza indeciso su quale film scegliere per inaugurare la rubrica, ma alla fine ho scelto questo per due motivi: è uno degli ultimi che ho visto ed è  anche abbastanza rappresentativo di quello che vorrei essere lo spirito di VisioniAlternative: un film originale ma senza pretese, molto carino e ingiustamente poco conosciuto.

VUOTI A RENDERE (titolo originale: Vratné lahve) di Jan Sverak, deliziosa commedia proveniente dalla Repubblica Ceca. Innanzitutto due parole d’obbligo su questa coppia protagonista indiscussa del panorama cinematografico ceco odierno: Zdenek e Jan Sverak, padre e figlio, attore, umorista e sceneggiatore il primo, regista il secondo. Non so chi di voi li conosca, ma non sono certo degli sconosciuti: insieme hanno firmato film pluripremiati come “La scuola elementare” (nomination agli Oscar nel 1992) e “Kolya”, vincitore dell’Oscar al film straniero nel 1997. Qui danno vita a una commedia agrodolce che affronta in tono disincantato il tema della terza età e della “pensione”, intesa come quel periodo della vita che segue anni e anni di duro lavoro e in cui ci si scopre improvvisamente avanti con l’età e con la giornata completamente vuota davanti a sè.

Zdenek Sverak interpreta Josef Tkaloun, un anziano professore di letteratura che decide di dare le dimissioni, sentendosi ormai fuori posto nel rapporto con i ragazzi del liceo dove insegna. Se non che capisce presto che la vita a casa con la moglie, donna buona e generosa ma severa e compita, non fa per lui. Decide quindi di trovare un nuovo lavoro, prima come corriere in bicicletta e poi, in seguito a un infortunio, in un supermercato come addetto al ritiro delle bottiglie di vetro usate (i vuoti del titolo). Ed è grazie a questo lavoro che lo mette  a contatto con i clienti, insieme al suo carattere gioviale e incline alla fantasticheria, che Josef incomincerà “involontariamente” a intromettersi nelle vite di chi gli sta accanto, portando una ventata di allegria e ottimismo anche nella propria. Dall’anziana signora che vive sola, all’arcigno e taciturno collega di lavoro, al giovane e impacciato vicepreside della sua scuola, tutti ritroveranno fiducia in sé stessi e anche l’amore grazie al provvidenziale aiuto del buon Josef…

Sullo sfondo di una Praga frenetica ma pur sempre romantica, il protagonista si muove come un novello “Amelie Poulain” con l’entusiasmo di chi non si rassegna di fronte al passare del tempo e crede ancora che la vita possa riservare sorprese e emozioni anche a sessant’anni. Sono evidenti le affinità di questa pellicola con il più famoso film francese,in parte nella trama di fondo e in parte nello stile, con quel mix di humor e malinconia trasognati che hanno decretato il successo di “Amelie”.Qui però l’atmosfera e  i personaggi sono più “umani”, ragion per cui credo che il film possa risultare godibile anche per chi non si è lasciato entusiasmare dalle atmosfere sognanti del film di Jeunet.

In ogni caso questo film è per me un buon esempio di quello che in Italia ultimamente non si riesce a fare: una commedia semplice, intelligente,ironica, persino irriverente nell’affrontare temi come la vecchiaia e la fedeltà coniugale, senza però scadere mai nel volgare, e che non si riduca alla serie di storielle e personaggi stereotipati che imperversano nel cinema nostrano degli ultimi anni. Sicuramente in questo aiutato dall’interpretazione degli attori, tutti molto ben calati nei loro ruoli, su tutti il protagonista, un simpatico e giocondo “Sean Connery ceco” (è abbastanza incredibile la somiglianza con il divo scozzese).

Per chi vuole gustarsi qualcosa di diverso dalle solite commedie, un film che riesce a essere divertente e toccante al tempo stesso.




La frase da tenere a mente:


(Josef alla moglie): Non capisco come una donna colta e raffinata come te possa guardare certe porcherie in tv ...


(La moglie): Si vede che non hai mai stirato ... 



/Fabio/

P.s. Mi piacerebbe postare in fondo ai post di VisioniAlternative i trailer dei film che recensisco. Per cui eccolo qua, anche se in questo caso devo dire che il trailer italiano è veramente orribile e fa venire voglia di fare tutto tranne che vedere il film. Ma voi fidatevi di me, guardatelo!


martedì 18 ottobre 2011

TIAMOFORTE

Con questo post ci addentriamo in un argomento nuovo: la narrativa e più in particolare i racconti brevi!


TIAMOFORTE

Bella è bella. Ed è con me. La più bella qui in mezzo. Giro lo sguardo ovunque, ma non ne trovo una migliore. Certo che no.

"Sai l'ora?" mi chiede qualcuno, interrompendo il mio flusso di pensieri, che monotono torna a lei e ai suoi capelli-occhi-labbra-tette-gambe-sedere-piedi. Non solo. Fa freddo. E' dicembre. Devo pensare anche al suo cappello-cappotto-stivale(due)-borsa.

In effetti non so che ora sia e nemmeno rispondo. Sto bene così, se interrompo i miei pensieri per cercare dove ho messo il telefono e leggere l'ora, poi mi ci vuole qualche secondo per tornare a pensare a lei. E in quei secondi che faccio? Cosa sarei in quei secondi?

La pianista sta suonando il secondo movimento del Concerto numero 1 in E minor per piano. Fryderyk Chopin. Il cui cuore è conservato a Varsavia, separato dal corpo, che invece giace a Pere-Lachaise.

Come a dire, il cuore fa sempre come vuole lui e va dove gli pare.

L'orecchio si gode le note, amplificate alla perfezione dalla maestosità delle forme della Galleria e l'occhio, l'occhio torna da lei.

Da quant'è che stai con me? Onestamente non me lo ricordo...Secondi, minuti, ore e giorni contano poco da quando ci siamo scelti. Da quando ho deciso che per me al mondo ci sarebbe stata solo lei. E viceversa? Mi piace pensare di sì.

La pianista si ferma, come da copione diverse decine di mani esplodono in un applauso. Un applauso che odora di aperitivi, di dischi appena comprati, di inverno, di quasi Natale, di sogni, di tram e di freddo. Di milanesi aspettative.

Mi guardi e sorridi. Mi sei accanto. E prosegui, superi un terzetto che discute di viaggi fatti o inutilmente sperati.

Ti seguo fino alla piazza. Chissà dove vai, dove abiti? Continuo a seguirti? Provo a parlarti? Quel che è certo, è che la pianista ha smesso di suonare.

2010 Francesco Messina

sabato 15 ottobre 2011

Tu sei tutto quello che...Storia di un capitano

E’ di Javier Adelmar Zanetti il record di presenze con la maglia nerazzurra dell’ F.C. Internazionale di Milano tra campionato italiano, Coppa Italia, Supercoppa Italiana, Champions League, Coppa Uefa e le recenti apparizioni in Supercoppa Europea e Mondiale per Club (2010). Il precedente record di 756 apparteneva a Giuseppe Bergomi “lo zio”, grande capitano nerazzurro dal 1992 al 1999.
Chi nel 1995, anno di approdo di Zanetti all’Inter , avrebbe mai detto che questo giocatore dai capelli mai spettinati e dal forte accento latino-americano sarebbe rimasto alla Beneamata fino all’età di 38 anni, indossando dal 1999 la fascia da capitano e vincendo 16 trofei in 16 anni, diventando così il capitano nerazzurro più vincente della storia?
Eppure “Il Trattore”, così soprannominato per la sua capacità di effettuare coast to coast dalla propria difesa all’area avversaria palla al piede, dribblando ogni avversario che si presenti di fronte a lui, si inserisce perfettamente, come il pezzo mancante di un puzzle, nel ricchissimo elenco di figure centrali per la storia del mondo interista e più in generale per il calcio nazionale ed internazionale: pensiamo al primo storico capitano nerazzurro Virgilio Fossati o a Giuseppe Meazza primo grande “divo” del calcio italiano, o ancora a Benito “veleno” Lorenzi, fino a giungere all’epoca della “Grande Inter” capitanata da Armando Picchi, uomo di correttezza inestimabile in campo e fuori, per non parlare di Giacinto Facchetti, grande campione eletto a simbolo di eleganza calcistica e costante punto di riferimento per la sua onestà senza bandiera. A questo invidiabile elenco si aggiungono i nomi di Walter Zenga, portierone sempre nei cuori e nei cori dei tifosi nerazzurri, Beppe Bergomi, simbolo di fedeltà per la sua carriera trascorsa tutta con la maglia di un solo colore, e appunto Javier Zanetti, una vita con il numero 4 cucito sulla casacca nerazzurra e la fascia da capitano sul braccio sinistro.
La carriera di Zanetti ha inizio nel 1992/93 nel Tallares, la stagione successiva passa al Banfield, dove rimarrà fino al 1995, per poi arrivare all’età di 22 anni a giocare con la sua compagna di una vita, l’F.C. Internazionale, con cui esordisce il 28 agosto contro il Vicenza: il suo score ci dice 760 presenze e 21 gol.
Anche con la nazionale argentina, di cui è stato il capitano fino al 2008, vanta il maggior numero di presenze: ben 145 e 5 gol dal 16 novembre 1994, giorno del suo esordio in un’amichevole contro il Cile, fino alla recentissima Copa America (giugno 2011). All’elenco “vittorie con la nazionale” vanno inserite la medaglia d’oro alla XII edizione dei Giochi Panamericani e la medaglia d’argento alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996.
Grandissimo calciatore, uomo eccezionale, “il capitano” ha istituito nel 2006 la Fondazione Pupi , con lo scopo di raccogliere fondi per aiutare ed istruire i bambini socialmente più svantaggiati e diversamente abili in una zona estremamente povera della Repubblica Argentina. Questo il suo discorso a Pistoia il 12/12/2006: «Ho avuto un'infanzia difficile, e anche se oggi non vivo nel mio paese, conosco profondamente la situazione che sta attraversando e l'effetto che questo ha sui bambini più poveri. […] Da questa convinzione è nata l'idea di costituire una Fondazione che, raccogliendo aiuti, potesse mirare principalmente a soddisfare bisogni fondamentali come l'alimentazione, l'educazione, l'igiene e la cura dei bambini». Dal 2006 è anche ambasciatore di SOS Villaggi dei bambini, un’associazione ONLUS per i diritti dell’infanzia.
Sempre stimato da tutti i suoi compagni, che considerano “Pupi” un punto di riferimento essenziale in mezzo al campo; uomo-spogliatoio ed educatore eccezionale per i più giovani, esempio di impegno costante in partita così come in allenamento: mai una palla sprecata, giocate sempre intelligenti, sacrificio per la squadra, lotta su ogni centimetro quadrato dal campo; idolo indiscusso dei tifosi nerazzurri: è tutto questo il calciatore Javier. Di lui si ricorda solo uno screzio con gli allenatori: era il 1997, finale di coppa Uefa contro lo Shalke 04 poi persa ai rigori dalla squadra di Milano. L’allora allenatore dell’Inter, Roy Hodgson, sostituì “il Trattore”, scatenando la grande amarezza di Zanetti, che mai avrebbe voluto chiudere anticipatamente un match così importante. Tutti gli allenatori avuti con la maglia nerazzurra lo ricordano sempre disponibile a sacrificarsi per il bene della squadra, mai stanco di successi, simbolo di impegno straordinario in campo e nel sociale, praticamente perfetto, tanto che l’unica cosa che ha voluto dirgli Josè Mourinho il giorno del raggiungimento del suo record con l’Inter è stata: «Grazie per avermi permesso di avere una piccolissima parte nella tua fantastica storia».
Javier Zanetti ha prolungato il contratto con la squadra milanese fino al 2013: finche lui ci sarà, le bandiere nel calcio non cesseranno di esistere.
>>FEDE

http://www.youtube.com/watch?v=HdkVsp9t-9s&feature=related: Zanetti conquista il record di presenze(2011)
http://www.youtube.com/watch?v=ISU0ySqp-mk&NR=1: l'arrivo di Javier all'Inter (1995)

venerdì 14 ottobre 2011

I nostri amici alieni

Quando l’uomo, nel 1902, arrivò sulla Luna, trovò ad attenderlo i Seleniti, dai quali dovette fuggire per poter fare ritorno sulla Terra sano e salvo.
Non storcete il naso, stiamo ovviamente parlando del capolavoro di Georges Méliès Viaggio nella Luna (1902), il capostipite del filone cinematografico di fantascienza, dove avviene il primo incontro con una razza aliena.
Tema sicuramente poco interessante in un’epoca di pochi effetti speciali, gli alieni ritornano nel secondo dopoguerra, più cattivi e bellicosi che mai, tentando più volte l’invasione del nostro pianeta: Ultimatum alla Terra di Robert Wise (1951), La cosa venuta da un altro mondo di Howard Hawks (1951), La guerra dei mondi di Byron Haskin (1953), L’invasione degli Ultracorpi di Don Siegel (1956), Plan 9 from outer space di Ed Wood (1959), e poi tutta una sfilza di capolavori di Jack Arnold, ci mostrano extraterrestri mostruosi, subdoli (alcuni si fingono esseri umani e si mescolano tra noi) e tecnologicamente più avanzati di noi, che hanno tutta l’intenzione di colonizzare la Terra.
Se la narrativa di fantascienza era già molto ben sviluppata all’epoca, e il tema dello spazio aperto, dell’ignoto e di chi lo abita, avesse solleticato la fantasia di molti, in un parallelo ultra-moderno con i racconti sui mostri marini, in questi film era ben evidente la fobia di massa che aveva contagiato l’America riguardo ad una possibile invasione sovietica. La paura di uno straniero che si potesse mescolare tra noi (una spia) per mettere le basi per un attacco da parte di una potenza superiore era comune negli Anni Cinquanta. La ricetta per venirne fuori era, però, sempre lo spirito di gruppo, la solidarietà e l’eroismo che gli americani propagandavano fin da prima della guerra.
È dal decennio successivo che, grazie all’influsso di cinematografie europee, la figura dell’alieno inizia a mutare. Sebbene Terrore nello spazio di Mario Bava (1965) sia passato piuttosto in sordina, esso ribalta in parte la condizione dell’invasore: gli alieni restano subdoli, cattivi e strapotenti, ma non sono loro a invadere noi, ma è bensì un’astronave terrestre a capitare sul loro pianeta, stratagemma che sarà recuperato da Ridley Scott per il suo Alien (1979).
Divertenti e satireggianti, invece, i molteplici alieni di Barbarella di Roger Vadim (1968); assenti quasi del tutto nel meraviglioso 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968). Quasi del tutto, perché è difficile non riconoscere una qualche presenza in quello spazio profondo, monotono e completamente insondabile nel quale si muove il protagonista. Aliena è forse la condizione dell’uomo, forse il tempo, alieno è forse Kubrick, il più grande dono e il più grande mistero che il cinema ha fatto all’uomo.
Straordinaria, però, la direzione che prende Il pianeta delle scimmie di Franklin J. Schaffner (1968), che mantiene inalterata la figura dell’alieno, ma la ritorce contro di noi: il pianeta sul quale sono arrivati i protagonisti è la Terra, non hanno viaggiato nello spazio ma nel tempo, e gli alieni sono scimmie che hanno soppiantato gli umani, dopo che essi hanno distrutto il pianeta. Resta da capire chi sono le vere scimmie, chi i veri esseri intelligenti.
Mentre Andrej Tarkovskij va nello spazio alla ricerca di Dio, l‘alieno primigenio, in Solaris (1972), alcuni visitatori giungono sulla Terra, chi preferisce il capitalismo alla classica invasione militare del passato per salvare il proprio pianeta (L’uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg, 1976) e chi cresce qua assieme a noi e decide di proteggerci (Superman di Richard Donner, 1978).
Infondo, gli extraterrestri non sono diversi da noi, ce ne sono di buoni e di cattivi, di amici e di nemici, e un giorno chissà che non faremo tutti parte di una grande società intergalattica, come quella di Guerre Stellari (di George Lucas, 1977) o di Star Trek (di Robert Wise, 1979).
È, però, Steven Spielberg, già autore di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), che strizza l’occhio ai classici del genere, ad innovare la cinematografia sugli omini verdi, con il sorprendente E.T. (1982), col quale ribalta completamente la concezione dell’alieno: non più potente e subdolo conquistatore, ma cosmonauta sperduto ed impaurito che vuole solo tornare a casa. I cattivi diventiamo noi terrestri, proprio quegli eroi che ci avevano difeso dalle invasioni di trent’anni prima, che ora vogliono catturare la creatura per studiarla.
Sulla stessa linea si colloca Alien Nation di Graham Baker (1988), dove gli alieni sono riconosciuti e presenti sulla Terra, ma vittime di razzismo, emarginazione e povertà, finendo spesso nel tunnel della tossicodipendenza o ad avere rapporti con la criminalità organizzata. Extraterrestri come immigrati qualsiasi, accettati e poi masticati dall’America, perché essere alieni vuol dire, prima di tutto, essere diversi e emarginati dalla società.
Poi arrivano gli Anni Novanta, e le idee iniziano a venir meno. Così, meglio tornare a quelle belle invasioni aliene degli Anni Cinquanta, ma con tonnellate di effetti speciali in più, come in Indipendence Day di Roland Emmerich (1996), oppure facendone delle parodie, come il sottile Mars Attacks! di Tim Burton (1996). E per i complottisti convinti che il governo sappia di questi extraterrestri e li tenga nascosti alla popolazione, ecco il divertente Men in Black di Barry Sonnenfeld (1997).
Sempre controcorrente, il maestro Paul Verhoeven gira l’interessantissimo Starship Troopers (1997), recuperando i soliti super-alieni che vogliono distruggerci per pura cattiveria. Sennonché, ad attaccarli per primi siamo noi. Satira sottile della politica americana, veicolata attraverso tutti i media, cinema compreso.
E oggi? Oggi le idee sembrano essere ancora meno, con un’ondata di remake (Il pianeta delle scimmie, Solaris, La guerra dei mondi, Ultimatum alla Terra, District9, e in parte anche Super8) e l’ulteriore ritorno in pompa magna delle invasioni della Terra, nuova metafora del terrore del nemico arabo alle porte degli Usa (pensate a Signs, Cloverfield, World Invasion, Skyline) .

Valerio Moggia

giovedì 13 ottobre 2011

Storia d'Italia in musica-risorgimento

Quello che mi prefiggo è un obiettivo ambizioso che obiettivamente non credo di poter raggiungere senza suscitare obiezioni: vorrei stilare una storia dell'Italia considerando le canzoni “popolari”. Evito ai miei(spero più di) 25 lettori la noia di definire il termine canzone popolare, anche perchè ci sono troppi significati e troppe sfumatore che certamente tralascerei qualcosa di importante; parto quindi subito con la narrazione e prenderò in esame alcune canzoni provenienti dal risorgimento. Una canzone molto bella di allora è “L'addio del volontario” non so se questo nome vi dice qualcosa, ma se aggiungo che è conosciuta anche con il nome di “Addio mia bella addio” dovreste capire di quale canzone sto parlando. Il testo fu composto nel 1848 ed era nato come una poesia di Carlo Alberto Bosi riferita alla partenza di un contingente fiorentino verso la Lombardia poco dopo lo scoppio della prima guerra d'indipendenza. Non si sa chi scrisse la musica, ma si tratta probabilmente di motivi popolariin voga allora.
Volevo soffermarmi per un attimo sulla melodia: a differenza di altre canzoni risorgimentali è lenta e malinconica e ben si accompagna al testo; questo rappresenta il saluto di un soldato alla sua sposa(o comunque alla ragazza che ama) ed è un saluto che evoca insieme paura, speranza e determinatezza. Il giovane non nasconde i pericoli della guerra, sa che potrebbe morire(ma se in battaglia io moro/ in ciel ti rivedrò/[...] Tra quanti moriranno forse anch'io sarò... ecc.) tuttavia non ha paura della morte perchè l'ideale per cui combatte vale più della sua vita (Si mora: è un bel morire/ morir per la libertà; Alla mia tomba appresso/la Gloria siederà). Il giovane è volontario ma proprio per questi ideali di libertà e di gloria si sente quasi in obbligo di partecipare alla spedizione, tanto è forte il suo amor di Patria( Addio, mia bella addio/L'armata se ne va/ e se non partissi anch'io/ sarebbe una viltà e forse ancora più emblematico è Sono uomo e son soldato/viva la libertà ). Probabilmente l'uomo capisce lo struggimento che colpisce la sua amata nel sentire queste parole e si premura di ricordarle il figlio che dovrà esserle di consolazione se lui non dovesse tornare. Il figlio rappresenta anche un altro motivo implicito per combattere: il volontario si sente in dovere di assicurargli un futuro migliore, un futuro di libertà.
Pensiamo come doveva sentirsi chi allora la cantava: magari un giovane sui vent'anni che aveva lasciato tutto quello che aveva per imbarcarsi in una guerra in cui credeva, di cui forse sapeva poco; sapeva che c'era uno straniero da qualche parte che opprimeva il suo popolo. Avrebbe potuto restarne fuori, continuare la sua vita di sempre, nei campi o in qualche bottega artigianale; poteva lasciare che altri combattessero, soffrissero e infine morissero al posto suo e invece decise di partire di combattere il nemico per un'idea di libertà che per lui valeva più di tutto compresa la sua vita. Immaginiamolo pure nel campo notturno, insieme ad altri giovani e vecchi che come lui avevano deciso di rischiare tutto, e non sapendo se avrebbe rivisto i suoi cari cantava così:

Addio, mia bella addio
l'armata se ne va
e se non partissi anch'io
sarebbe una viltà...

Lasciamo questa canzone dai tratti romantici e facciamo un salto avanti nel tempo di una decina d'anni siamo nel 1858, più precisamente il 31 dicembre. Quella sera al teatro Carcano di Milano veniva suonata una canzonetta musicata dal milanese Paolo Giorza, su un testo anonimo che riprende filastrocche lombarde, venete e piemontesi: si tratta de “La bella Gigogin”. Il testo non parla apertamente di guerra o liberazione( ad eccezione della prima strofa) ma il pubblico del Carcano interpretò alcuni passi come allusioni partriottiche: ad esempio il ritornello Daghela avanti un passo venne interpretato come l'esortazione al Piemonte a farsi avanti; il non mangiar polenta era un rifiuto del domino austriaco(il giallo della polenta poteva far pensare al giallo contenuto nella bandiera austriaca insieme al nero). Sta di fatto che la canzonetta fu subito un successo e alle quattro della mattina seguente diecimila persone si presentarono sotto il palazzo del governatore cantando Daghela avanti un passo. Musicalmente parlando abbiamo di fronte una polka, molto orecchiabile e allegra; pare che la canzone sia stata cantata durante la battaglia di Magenta il 4 Giugno 1859; a questo proposito è divertente ricordare che i primi a suonarla furono gli austriaci che la utilizzarono come segnale d'attacco, a quel punto i loro avversari risposero con il ritornello Daghela avanti un passo. Il motivo fu cantato anche dai Garibaldini durante l'impresa dei mille e rimase poi nei cuori degli italiani. Perfino nelle trincee della prima guerra mondiale i soldati cantavano quelle stesse note che già i loro padri e i loro nonni avevano cantato.
Naturalmente di canzoni risorgimentali ce ne sono molte altre, ma mi soffermerò soltanto su un'altra ancora, una canzone che tutti conoscete, ma forse non come canzone popolare. Sto parlando del “Canto degli italiani”; il nostro inno ha le parole composte da Goffredo Mameli nel 1848 e musicato da Michele Novaro e ben presto viene cantata dai soldati risorgimentali divenendo una delle canzoni simbolo del nostro risorgimento. fu inserito da Verdi ne “L'inno delle nazioni” nel 1862; nelle strofe che normalmente non si cantano si fa riferimento con forza al sentimento di unione. In particolare la terza strofa rappresenta il connubio tra unione e amore ricordando che se si è uniti non si verrà mai sconfitti; la quarta strofa, quella che io definisco “storica” fa riferimento a quattro elementi in ordine non cronologico che hanno segnato momenti di ribellione: si ha Legnano in ricordo della battaglia del 1176; c'è poi Ferruccio in ricordo di Francesco Ferrucci che difese Firenze dall'assedio delle truppe di Carlo V nel 1530; terzo il Balilla che era il nomignolo dato a Giovan Battista Perasso, ritenuto il giovane che scagliò una pietra contro l'esercito austro-piemontese porvocando una rivolta a Genova nel 1746; infine i Vespri con riferimento alla sollevazione avvenuta in Sicila nel 1282.
L'ultima strofa dell'inno è quella che prevede la disfatta austriaca e vi è anche un riferimento alla sollevazione polacca contro la Russia nel 1830/31; in quel caso l'Austria benchè non partecipò direttamente alle azioni militari era alleata della Russia e chiuse le frontiere alla Polonia, impedendo l'arrivo di rifornimenti. Mi sembra bello concludere con il testo completo dell'inno:

Fratelli d'Italia
L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò

martedì 11 ottobre 2011

Introduzione alla Bohème, un modo di vivere e concepire l'arte

«La Bohème non è una razza nata oggi ; è esistita sempre e può rivendicare illustri origini» , afferma Henri Murger in Scènes de la vie de Bohème.
La vita di Bohème , unendo fascinose seduzioni a terribili condizioni di miseria , ha infatti attratto numerosi artisti (e presunti tali) sin dalla notte dei tempi : dai rapsodi greci ai menestrelli medievali , anime girovaghe per amore dell’arte , fino alle più recenti correnti beat e punk.
Eppure proprio nel XIX secolo si diffonde il mito dell’artista bohémien , che vive di Arte e nobili ideali ma non ha che pochi spiccioli nelle tasche bucate del suo unico paio di calzoni , che sperpera nei caffè parigini in bevande alcoliche. Nella società del Secondo Ottocento , dominata dal perbenismo borghese e dal Positivismo , infatti , l’artista con la A maiuscola, quello davvero chiamato dall’Arte , non può che diventare un emarginato. Egli si oppone con tenacia e provoca la classe dominante , quella borghesia da cui spesso proviene , che gli sembra falsa , ipocrita e banale, e spera che i suoi ideali , le “ali da gigante” dell’albatros di Baudelaire, possano un giorno o l’altro essere restaurati.
Dunque non si tratta solo di artisti dilettanti attratti da una vita errabonda dedita ai vizi, che diventa più un capriccio che una necessità; i veri Bohèmes sono una “razza di sognatori , gente entusiasta cui la vista di un capolavoro basta a infondere la febbre” e che fonde il coraggio, che è la “virtù dei giovani” , alla speranza, che è il “ milione dei poveri ”.
Forse quello dei Bohèmes è un eroismo insensato , che spesso ha portato a morti precoci per consunzione ( basti pensare a Baudelaire , morto a 46 anni, o Emilio Praga, morto addirittura 36 anni ). Ma nessuno più di loro ha saputo unire Arte e Vita , scalpore e idealismo, maledizione e genialità. E’ infatti Baudelaire l’autore di quel “libro atroce”, “I fiori del Male”,che ha segnato la nascita della poesia moderna. E Henri de Toulouse-Lautrec ha permesso la diffusione di una nuova forma d’arte, il manifesto. La fama,dunque, è arrivata per quasi tutti i Bohèmes più talentuosi. Rigorosamente postuma

Vi invito tutti ad approfondire le creazioni artistiche di questi poeti e pittori, che incarnano un ideale di vita secondo me molto attuale, non certo perché sia giustificato il ricorso ai paradisi artificiali, ma perché tuttora chi crede veramente nell'arte si trova di fronte a una società che spesso mette da parte la qualità e il vero talento per adottare soluzioi di comodo. Pensateci su e ditemi se condividete o meno. Roby<^>

lunedì 10 ottobre 2011

La traduzione letteraria tra etica e arte

Diverse sono le difficoltà che si possono incontrare quando si traduce un’opera letteraria. Il passaggio dalla teoria della traduzione alla pratica, infatti, non è mai automatico; proprio per questo motivo è ormai assodato che non esiste un’unica traduzione per ciascuna opera letteraria ma, al contrario, tante diverse modalità e risultati del processo traduttivo. Ogni traduzione, dunque, è un prodotto, frutto di un’elaborazione e di una serie di scelte operate dal soggetto traducente. A dispetto dei pregiudizi che da sempre hanno accompagnato le figura del traduttore, infatti, egli esercita un ruolo fondamentale nel superare le difficoltà che il processo produttivo presenta. L’esperienza traduttiva della fiaba “Il Gigante egoista” di Oscar Wilde mi ha permesso di individuarle e di cercare delle soluzioni, laddove fosse possibile, lavorando sull’intero testo in virtù della sua brevità.
Uno dei principali problemi riscontrati è quello della fedeltà, questione etica dibattuta sin dall’antichità dai teorici della traduzione. Se da un lato è importante rispettare gli intenti e le scelte dell’autore, dall’altro è altrettanto importante comprendere che ogni lingua ha una struttura e delle caratteristiche proprie e che tradurre parola per parola potrebbe impoverire o appesantire il testo tradotto. Un esempio significativo ne “Il Gigante Egoista” riguarda il momento in cui il Gigante si accorge che i bambini sono tornati nel suo giardino: “He saw a most wonderful sight. Througha little hole in the wall the children had crept in and they were sitting in the branches of the trees”. La prima difficoltà consiste nel tradurre l’aggettivo “wonderful” che indica meraviglia e ammirazione. Per questo motivo ho preferito l’italiano “stupendo” al letterale “meraviglioso”, poiché l’aggettivo rende perfettamente il suddetto significato. Inoltre nella frase troviamo l’aggettivo “little”, mentre in italiano è molto più frequente l’uso di suffissi diminutivi o di parole che intrinsecamente esprimono in determinato significato. Dunque, piuttosto che “Attraverso un piccolo buco”, ho scelto il sostantivo “pertugio”, che indica un’apertura estremamente piccola. Queste scelte, a mio avviso, rispettano il significato che l’autore vuole trasmettere senza dover tradurre il testo in modo pedissequo, cosa che renderebbe il traduttore un mero allievo imitatore.
D’altro canto, però, come afferma il teorico Berman, la modalità traduttiva prevalente dalla seconda metà del xx secolo rischia di privilegiare il senso “disincarnandolo”, cioè privandolo della suggestione ritmica e metrica della lettera. Ho sperimentato questa difficoltà nel tradurre la frase” In every tree that he could see there was a little child”. Evidente è l’effetto ritmico creato dall’omeoteleuto “tree” – “see”, rafforzato dall’uso di “trees” anche nella frase precedente. In italiano, ciò non può essere reso dalla traduzione letterale “Su ogni albero che vedeva c’era un bambino”, che tra l’altro è poco scorrevole; perciò, ho scelto di privilegiare il senso a discapito della musicalità, traducendo “Su ogni albero vedeva un bambino”. Si tratta della cosiddetta, “defectivité”, che si accompagna ad ogni traduzione dato che ogni lingua ha la sua componente di intraducibilità.
Un altro problema, strettamente connesso a quello della fedeltà, è quello della poeticità, cioè della capacità di evocare idee ed emozioni tramite particolari scelte lessicali e immagini metaforiche. Un passo della fiaba mi ha permesso di operare una scelta poetica, senza peraltro discostarmi dall’originale ma anzi sfruttando una possibilità tra le tante offerte dal testo: “The poor tree was still covered with frost and snow and the North Wind was blowing and roaming above it”, che ho tradotto “Il triste albero era ancora vestito di ghiaccio e neve e il Vento del Nord lo sovrastava coi suoi soffi e i suoi ruggiti”.
Due altre problematiche sono la coesione, ossia il corretto utilizzo dei nessi sintattico- grammaticali, e la coerenza, che riguarda lo stile scelto per la traduzione. Non è affatto semplice costruire un testo coeso e coerente, poiché ogni traduzione è un prodotto editoriale che deve possedere requisiti adatti al contenitore, e quindi al pubblico, cui è destinata. Si sceglierà dunque uno stile più semplice e immediato, caratterizzato anche dalle tipiche formule fiabesche (c’era una volta, in capo a sette anni, fare capolino, occhieggiare,…) se ci rivolgiamo a un pubblico di bambini, mentre si potrà utilizzare un linguaggio più aulico nel caso di un pubblico adulto. Per quanto riguarda invece la coesione, molto spesso nella fiaba di Wilde si trovano frasi al past simple, che in inglese descrive un’azione compiuta e che non ha più legami col passato. Nella frase “Every day for three hours he rattled on the roof of the castle till he broke mosto f the slates”, il primo verbo può essere reso con l’imperfetto italiano, poiché è preceduto da due sintagmi temporali che indicano la frequenza e la durata dell’azione, mentre il secondo dovrà essere necessariamente tradotto con il passato remoto italiano, poiché l’azione di rompere tutte le tegole non è abitudinaria ma avviene in un preciso momento.
L’ultima difficoltà, alla quale ho appena accennato, è la cosiddetta corrispondenza, cioè il mantenimento di quelle parti del testo che l’autore ha voluto distinguere per particolare drammaticità, tragicità, formalità, eccetera. Ne “Il Gigante Egoista”, per esempio, la parte finale deve essere distinta anche nella traduzione per la presenza di un registro più formale, vicino a quello biblico (“Who hath dared to wound thee?”, “Who art thou?”), che ha una precisa funzione: collegare la fiaba alla leggenda sacra e produrre un ribaltamento della situazione iniziale, poiché ora è il Gigante a essere stupito e timorato di un bambino molto piccolo, non più viceversa.
In conclusione, il traduttore ha una certa libertà quando si accinge a tradurre un’opera letteraria (gli esponenti dei Translation Studies parlano di manipolazione e riscrittura), ma deve anche tenere conto che il suo testo è destinato a diventare un prodotto dotato di valore intellettuale, economico, estetico, emotivo, e che si tratta comunque della traduzione di un’opera già esistente, cui è indissolubilmente legato.
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