martedì 23 ottobre 2012

Nobel a Mo Yan, lo scrittore che "non parla"



Il premio Nobel per la letteratura 2012 è stato assegnato al cinese Mo Yan. L’autore 57enne è il secondo cinese della storia, il primo residente in Cina, ad aggiudicarsi il Nobel nella categoria Letteratura (prima di lui, nel 2000, era stato Gao Xingjian, cittadino francese residente a Parigi).

Guan Moye, questo il vero nome dello scrittore e sceneggiatore conosciuto universalmente con lo pseudonimo scelto da lui stesso, nasce il 17 febbraio del 1955 nella provincia contadina dello Shandong. Lascia la scuola a 11 anni per lavorare in campagna e poi in una fabbrica di cotone. Nel 1976 decide di arruolarsi nell’Esercito di Liberazione Popolare della Repubblica popolare cinese, che per molti giovani provenienti dalle campagne rappresentava a quei tempi l’unica speranza di condurre una vita dignitosa e di farsi un’istruzione. Negli anni dell’esercito infatti il giovane Mo Yan legge moltissima letteratura occidentale, soprattutto russa e francese, e comincia a scrivere i primi racconti e romanzi. Dopo vent’anni di servizio militare, nel 1997 avverte la necessità di esprimere un pensiero più autonomo rispetto ai rigidi vincoli imposti dall’esercito, e comincia a lavorare presso un giornale di Pechino.


All’inizio della sua carriera letteraria, Guan Moye decide di assumere il nome d’arte Mo Yan, che in cinese significa “senza parole” o “colui che non parla”. Il nomignolo risale all’infanzia dell’autore quando, in piena epoca maoista, una parola di troppo poteva cacciare nei guai una persona e un’intera famiglia. I genitori dello scrittore gli ripetevano quindi sempre di non proferire parola quando usciva di casa. Yan ha sempre ricordato questo soprannome come monito a parlare poco e a scrivere molto, esprimendo attraverso la scrittura quello che aveva da dire.

L’Accademia di Svezia che gli ha assegnato il premio definisce il suo stile un “realismo allucinatorio che mescola racconti popolari, storia e contemporaneità”. Le opere dello scrittore sono perlopiù romanzi storici che attraversano con i toni epici di vere e proprie saghe popolari interi decenni della storia cinese, raccontando la vita dei contadini nelle zone rurali del paese. Un enorme influsso sulla sua scrittura lo ha esercitato però anche tutto quel corpus di miti e tradizioni popolari che fanno parte del folklore contadino delle campagne cinesi, che ha permeato l’infanzia dell’autore con le sue suggestioni fantastiche.

La sua opera più famosa è senza dubbio “Sorgo rosso”, romanzo dal quale lo stesso autore ha ricavato la sceneggiatura per il film omonimo di Zhang Yimou, premiato con l’Orso d’Oro a Berlino nel 1988. Il romanzo ripercorre la storia di una famiglia di contadini nelle zone in cui è cresciuto lo scrittore, dall’occupazione giapponese degli anni ’30 attraverso la nascita della Repubblica popolare e fino alle soglie della rivoluzione culturale. Oltre a Sorgo rosso, Einaudi ha pubblicato in Italia quasi tutta l’opera di Mo Yan. Tra i titoli principali ricordiamo “Grande seno, fianchi larghi”, “Il supplizio del legno di sandalo” e “Le sei reincarnazioni di Ximen Nao”.
Nel 2013 è prevista l’uscita del suo ultimo libro “Le rane” che affronta con toni critici il tema della politica del figlio unico e del controllo delle nascite attuata dal governo di Pechino.


La scelta di premiare Mo Yan ha suscitato molte proteste e polemiche da parte di alcuni rappresentanti del movimento degli intellettuali cinesi dissidenti, che ritengono lo scrittore un uomo “vicino al Partito”, amico del governo di Pechino. Lo scrittore attualmente lavora presso il Ministero della cultura cinese, dove è a capo di un discusso istituto per la letteratura. In realtà Yan ha sempre dimostrato una grande autonomia di pensiero, identificandosi come un intellettuale indipendente rispetto alle linee guida del Partito. D’altronde come lui stesso ha affermato, la distinzione da fare non è tra intellettuali allineati e non allineati, o intellettuali interni al sistema e esterni al sistema, bensì tra gli scrittori che sono veri intellettuali e quelli che non lo sono. E un vero intellettuale esprime sempre chiaramente e senza paura il proprio punto di vista su ogni tema di rilevanza politica e sociale. Esattamente quello che fa Mo Yan in tutti i suoi romanzi.


/Fabio/




mercoledì 10 ottobre 2012

Narciso e la sua superficie- Parte V

5. Narciso dipinto

Finora si sono presi in esame essenzialmente gli sviluppi del mito dal punto di vista degli sviluppi letterari e filosofici. Ma come si è più volte accennato, Narciso è considerato il mito di riferimento circa la nascita della pittura così come la si conosce nella civiltà occidentale, un po’ come il mito di Pigmalione ha dato numerosi spunti di riflessione a chi si occupa di scultura. È evidente che parlare di Narciso non significa far risalire a esso la nascita cronologica della pittura, la quale non ha certo dovuto attendere l’età augustea per proporre la sua novità. Il mito di Narciso ha dato però spunti di riflessione nuovi che hanno contribuito alla rielaborazione teorica, pratica, estetica di considerare il dipingere.

 Figura 1, Narciso, Pompei, I d.C.


Non è un caso se già a Pompei sono rimaste conservate numerose raffigurazioni parietali da riferirsi proprio al giovane cacciatore, e questo è indice anche del successo che il testo soprattutto di Ovidio ha avuto quantomeno negli ambienti colti e delle aristocrazie di città come quella campana che erano all’avanguardia quanto al loro processo di ellenizzazione. Addirittura sono una quarantina le testimonianze rinvenute dagli scavi pompeiani, segno che il tema della visualità, così esplicito nel racconto di Ovidio, ha fin da subito interessato committenti e artisti. Nel caso della figura 1, così come nella maggioranza degli affreschi pompeiani, l’accento è posto sull’atto di guardarsi da parte di un Narciso comodamente seduto sulla roccia. La trama narrativa è ridotta all’elemento fondamentale del guardarsi e del rapporto tra immagine e oggetto riflesso.


Figura 2, B. Cellini, Narciso, 1549, marmo, Firenze, Museo nazionale del Bargello

Si è visto sopra che Filostrato ha provato a riprendere in parole un dipinto pompeiano che raffigurava questa volta un Narciso in piedi circondato da un paesaggio naturale. Particolarmente interessante è che Filostrato sottolinei il naturalismo o realismo del dipinto, tale addirittura per cui lo spettatore non è in grado di capire se un’ape su di esso dipinta sia reale o appunto un’illusione. È la ripresa di un modo di considerare la pittura come capace di ingannare, di giocare tra realtà e finzione. Il moderno trompe l’oeil trae la sua origine da riflessioni dello stesso tipo che erano in verità diffuse già in epoca più antica presso i pittori greci. Narciso stimola l’interpretazione di una pittura in grado di riprodurre in modo talmente fedele da ingannare l’occhio. Una pittura che quindi non ha a che fare con questioni di carattere strettamente morale ma che gioca in primo luogo sul ruolo che la vista ricopre nella visione. Peraltro parlare d’inganno neanche sarebbe corretto, perché chi si pone di fronte a un quadro seppure iperrealistico già si mette a disposizione di un contesto finzionale che magari non sa immediatamente distinguere in tutte le sue parti ma che gli è presente. Proprio nel massimo del realismo si mostra la natura altra del dipinto, non nel senso che rimandi a una dimensione di significato ulteriore, ma nel senso che proprio mentre sembra rimandare a un semplice copiare una realtà che non le appartiene, riesce a essere qualcosa di diverso, imparagonabile alla stessa realtà di cui si fa copia.


Un’accentuazione del tema dell’innamoramento si ha nei narcisi che portano le braccia intorno al capo, ponendosi in una sorta di autoabbraccio plastico nei confronti del proprio corpo. Un esempio lo si può mostrare con la statua del Cellini in Figura 2.

In ambito soprattutto medievale è inevitabile un’accentuazione dell’aspetto moraleggiante, in modo parallelo a quanto si è visto sopra col Boccaccio. Perciò alcune incisioni o miniature mostrano soprattutto le conseguenze della superbia e dell’orgoglio mostrate dal giovane cacciatore. L’aspetto della visualità viene così trascinato in secondo piano a vantaggio di una interpretazione morale e didascalica. Evidentemente anche le figura di un Narciso dai tratti femminei e quasi androgini restano esclusive, fino alla modernità almeno postrinascimentale, dell’antichità soprattutto pagana.


 Figura 3, N. Poussin, Impero di Flora, olio su tela, 1661,  Dresda Gemaldgalerie



Appartiene a Poussin la volontà di recuperare il mito nelle sue declinazioni complesse, tenendo in conto anche personaggi che raramente fino ad allora avevano svolto un ruolo di primo piano. Nell’Impero di Flora del 1661 (figura 3), la scena (alla sinistra dell’osservatore) con Narciso vede la presenza anche di una donna che tiene la brocca con l’acqua, con maggiore probabilità Eco piuttosto che Lirìope; inoltre un uomo si trafigge con una lancia, non si può forse vedere in lui l’Aminia di Conone, ma più verosimilmente Aiace che in seguito alla sua morte si tramuterà in garofano1. Peraltro in Eco e la morte di Narciso Poussin riprende il tema della morte di Narciso, aspetto non per forza comune.


   Figura 4, H. Daumier, Le beau Narcisse, litografia, 1842


Il mito riscoperto permette in seguito lo sviluppo di devianze e accentuazioni particolari che segnano un ulteriore step metamorfico. Il pittore e caricaturista marsigliano Daumier col suo bel Narciso fa valere le valenze morali ricavabili dal racconto, mostrando uno scheletrico essere che in una posa arcuata e innaturale ghigna soddisfatto alla propria vista nella pozza antistante. Una corona di fiori cinge la testa del giovane, forse riferimento alla corona di spine che si stringe attorno al capo di Cristo. Peraltro bisogna considerare che il mezzo tecnico della caricatura ha sempre avuto la capacità di deformare i tratti dei soggetti ritratti creando un momento di straniamento che è senz’altro legabile ad una volontà di critica, nel presente caso dello stare attaccati alla propria immagine quasi il resto dell’esistenza non contasse. Ma la caricatura è anche strumento ironico, che provoca distacco, distanza rispetto a tematiche che non devono sconfinare dal loro campo, quali quelle morali. Il disegno anche curato di Daumier, il ghigno verrebbe da dire consapevole del proprio stato del giovane, mostrano quanto decisivo sia il rapporto tra distanza e vicinanza, interesse per sé e disinteresse ironico, tra sensazione e arte.


Figura 5, J. Gumpp, Autoritratto, olio su tela, 1646, Firenze, Galleria degli Uffizi






Ovidio ha saputo creare con il suo racconto un insieme di riflessioni che si innesta con forza in un filone che vede nel rapporto tra realtà e finzione mimetica il nodo fondamentale. Considerare la pittura come specchio fedele del reale, senza limitarla alla sola copia ma permettendo una riformulazione dello stesso, è idea presente persino in Platone, idea che il modo di pensare platonista ha in parte tradito esaltando il solo rapporto di doppia lontananza (ontologica e gnoseologica) della pittura dalla realtà e dal mondo delle idee2. Ma sarebbe poco fruttuoso sostenere che i pittori di ogni tempo non avessero ben presente il contesto finzionale, specifico e altro rispetto alla realtà3, che la tela porta con sé. Che il problema sia ben più articolato, che investa il rapporto di sé con sé, che in gioco vi sia il proprio sentire che è un porre a distanza cose che sono sentite grazie ai propri sensi, che in gioco vi è inoltre l’unicità e incomparabilità dell’artista che permette alla sua opera di sussistere di per sé, un piccolo sunto di ciò lo si mostra con gli autoritratti. Smascherato è il gioco di riflessi e ritratti messi in scena da Gumpp (figura 5), per cui il pittore si dipinge nell’atto di dipingere se stesso che si guarda a uno specchio. La medesima figura rientra in una molteplicità di livelli ognuno dei quali potrebbe essere ed è autosufficiente, ma intersecato con gli altri, un rapportarsi di elementi che a sua volta conclude interno dell’opera il suo essere. Il guardare del soggetto sulla tela verso lo spettatore è ulteriore direzionarsi del rapporto tra immagini e realtà, il che esalta e mette ancor più in crisi il contesto finzionale in cui si muove il pittore di Innsbruck.


La riflessione sullo specchio ha incontrato un’escalation nel secolo scorso. L’indagine degli artisti si è focalizzata con sempre maggiore attenzione sul rapporto mimetico. Basti citare le numerose opere di Pistoletto che propongono specchi, sui quali spesso è posta una figura che entra in contraddizione con lo spettatore che a sua muovendosi di fronte alla superficie entra a far parte della superficie specchiante. Anche la video arte di Bill Viola si è cimentata con tale tematica, uno degli esempi più celebri è Reflecting pool4, dove un uomo si pone a bordo di una sorta di piscina e la situazione si modifica progressivamente tra momenti di presenza del corpo dell’uomo insieme al riflesso, senza riflesso, o del riflesso di per sé, in un’acqua che si muove a diverse velocità. Il tutto è complicato dalla presenza di un forte rumore di fondo, che introduce una dimensione sinestesica, e dal fatto che si tratta di un video, il quale per sua natura introduce una dimensione temporale o quanto meno di durata. Un tempo che essendo dimensione di trascendenza e di rapporti tra i suoi diversi momenti pone in ulteriore malleabilità il rapporto tra vicinanza e distanza, tra uomo e immagine.

Ed è proprio la dimensione temporale che pare messa in discussione da Giulio Paolini, artista che utilizza calchi in gesso per le proprie opere, opere che solo ad un’occhiata fugace sembrano essere di marmo, e che riprendono una monumentalità classica smascherata fin da subito. In Mimesi (figura 6) due calchi sono posti l’uno di fronte all’altro, in un rapporto che viene continuamente negato. Il biancore tutto particolare delle opere di Paolini, affatto identico a quello delle statue in marmo classiche, crea degli oggetti scultorei che sembrano sottrarsi a ogni esame di natura temporale. Le due teste stanno in colloquio spaziale, però è uno spazio unico, che si sottrae a ogni comparazione, conflitto, amore, con il resto degli oggetti che li circondano. Paolini pone in essere nella sua opera un modo di intendere lo spazio che si distacca completamente da quello quotidiano, anche nelle opere che invadono lo spazio del museo o del sito di collocazione. La potenza di tali opere consiste nel far proprio lo spazio, di renderlo altro, senza con ciò riferirsi ad una dimensione a loro trascendente. Lo spazio che si viene a creare è loro proprio, intoccabile, intoccato, invade e trasforma lo spazio reale, che spazio reale più non è, essendo quello spazio, quello, unico, incomparabile. Sembra di sentire riecheggiare lo sdegno di Narciso nel momento in cui viene abbracciato da Eco, uno sdegno che però si rende qui incurante, non curante di niente e di nessuno, tantomeno di chi osserva, tantomeno di chi lo ha creato.

 
    Figura 6, G. Paolini, Mimesi, calco in gesso, 1975





Conclusione
Il rapporto tra Narciso e la superficie d’acqua specchiante mostra un duplice interesse in capo all’estetica: prima da un punto di vista del sentire, delle sensazioni, dei sentimenti, poi da quello della costituzione di un piano di finzione che è l’arte a rielaborare. Quanto al primo punto, si è cercato di mostrare come non sia possibile ridurre il sentire ad un semplice modo del conoscere, sia esso rigorosamente razionale oppure simbolico. Se è vero che lo sguardo di Narciso si lega alle tematiche del riconoscimento visivo e all’innesco di passioni amorose, esso è in grado di avere un propria specificità e autonomia. Che il vedere sia utilizzato anche dal conoscere, che sia sfruttato anche dal sentire amoroso, che si ponga in rapporto con il complessivo essere di una persona, questo è innegabile. Ma se si vuole rendere conto di cosa sia il guardare, non si può fare unico riferimento ai rapporti del guardare con le altre facoltà umane, in quanto in tal caso si parlerebbe dei rapporti, con la ovvia perdita del guardare. Narciso può dare uno spunto di riflessione che va ulteriormente approfondito in questa direzione. Nonostante prima si innamori della propria immagine, poi si riconosca, poi capisca l’errore dell’autoinnamoramento, ebbene Narciso continua, nella sua dannazione eterna a- guardare. Segno che non è questione di peccati, di incapacità di cogliere i rapporti, di immoralità o moralità. Sentire è un fare e un essere che nella propria autonomia va inteso. E va inteso nel senso di un riferimento a sé, Narciso guarda se stesso. Il sentire è qualcosa di proprio, il rapporto e l’oggetto sono questioni secondarie. Questo può aprire una considerazione sulla natura dell’arte. Non è sufficiente considerarla come solo simbolica, aprente mondi possibili, diversi, o catene di rimandi. Narciso guarda quella superficie. Gli si fa osservare che dovrebbe guardare qualcosa di più profondo, di legato all’amore, alla morale, ad altro? Lui guarda quella superficie. Che forse l’arte non debba essere continuamente ridotta o ricondotta a simbolismi che le sono estranei, che forse quando ci si pone davanti a un quadro non si deve capire, ma guardare, solo guardare, forse è questo che Narciso nel suo essere intoccato e intoccabile ha visto nel suo- vedersi.


1 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp.137-40.

2 Sullo sviluppo del tema mimetico a partire da Platone e Aristotele, si veda il completo e dettagliato testo di S. Halliwell, L’estetica della mimesis. Testi antichi e problemi moderni, Aesthetica, Palermo 2009.

3 Peraltro il continuare a usare il termine “realtà” è evidentemente una forzatura, non essendo essa un che di definibile in modo ultimo. Realtà viene nel presente testo assunto nel suo significato ingenuo, nella consapevolezza che si tratta di un termine che ha avuto pesanti discussioni e ha pesanti conseguenze a seconda delle accezioni in cui lo si prende.

4 Il video è rintracciabile in modo semplice e rapido con una ricerca su youtube.


Andrea Togni

mercoledì 3 ottobre 2012

Ogni sostanza è come un mondo a parte- Parte III


    1. L'individualità

A partire da questa concezione di possibilità e incompossibilità, si può dedurre una definizione della sostanza individuale, tramite il principio dell'identità degli individui indiscernibili: nell'universo non esistono due individui perfettamente uguali, perché «ogni sostanza è come un mondo intero e come uno specchio di Dio, oppure di tutto l'universo, che ciascuna esprime a suo modo»1.

Prendiamo ad esempio Giulio Cesare: nella sua natura è già compreso e determinato una volta per tutte tutto ciò che gli è capitato, sta avvenendo e gli potrà accadere in ogni tempo; tutto ciò era perfettamente razionale e quindi era sicuro che avrebbe deciso di attraversare il Rubicone, perché è nell'estensione della nozione di soggetto di comprendere tutto2.

Ogni sostanza è quindi ricca e mostra la varietà del mondo dal suo punto di vista, uno degli infiniti punti di vista possibili, che si riuniscono in mente dei: solo Dio infatti ha una conoscenza intuitiva di tutto, secondo gli infiniti punti di vista e con un velocissimo “colpo d'occhio”; le sostanze individuali possono avere una conoscenza chiara e intuitiva solo sotto certi determinati aspetti e in questo senso esprimono la totalità e la varietà del mondo oscuramente, un punto di vista o una particolarità chiaramente.

L'individuo è l'attuazione di singolarità pre-individuali: la minima differenza fa si che le cose differiscano per il principio degli indiscernibili, che è quindi “il negativo” del principio di individuazione, ma che giunge per esclusione allo stesso risultato; tra individui c'è quindi una differenza interna e irriduttibile, basata sulla specificazione e sull'esaltazione del minimo particolare3: infatti è «necessario che ogni monade sia differente da ogni altra. Poiché nella natura non esistono due esseri che siano perfettamente uguali, e in cui non sia possibile scoprire una differenza interna»4. In più ogni sostanza individuale è riflesso confuso dell'intero universo: «a causa della moltitudine infinita delle sostanze semplici, vi sono come altrettanti universi diversi, i quali tuttavia non sono che le prospettive di un unico universo secondo il diverso punto di vista di ogni monade»5. La funzione delle sostanze è quella di esprimere Dio e il mondo: bisogna quindi che vi sia tra gli esseri possibili la persona di Pietro o Giovanni la cui idea contiene tutta la sequenza di grazie, eventi e circostanze che Dio ha scelto per esistere attualmente6.

Ciò ci porta ad un problema (barocco): in un'esasperazione di dettagli determinati, di giustificazione precisa dell'azione razionale di Dio, di concatenarsi stabilito di ragioni sufficienti, c'è ancora spazio per la libertà dell'azione individuale?

2.3 La libertà

La conclusione del precedente paragrafo porta ad interrogarsi sull'importante questione del libero arbitrio, problema che Leibniz affronta approfonditamente e riesce a risolvere in modo geniale, considerata la cornice del predeterminismo all'interno della quale sviluppa la sua filosofia. Libertà e predeterminazione sono infatti due aspetti molto difficili da conciliare e a maggior ragione se partiamo dalla base barocca del filosofo tedesco, in cui ogni più piccolo dettaglio non è accidentale.

Per poter trattare del “labirinto della libertà”, come è stato soprannominato dagli studiosi di Leibniz, è fondamentale porre in primo luogo la distinzione tra verità contingenti e verità necessarie: le verità contingenti sono virtualmente incluse nella nozione di sostanza individuale, come i cosiddetti futuri contingenti, che sono sicuri, in quanto Dio li prevede, ma non necessari, perché il loro contrario non implica contraddizione; le verità necessarie, come quelle della matematica, sono assolute perché il loro contrario è impossibile7.

Lo spazio per la libertà si crea nell'ambito delle verità contingenti: esse si fondano sul primo decreto libero di Dio, decreto libero ma razionale e sempre basato sulla maggior perfezione possibile come criterio di scelta. Dio ha posto inoltre un secondo decreto, sulla natura umana, per il quale l'uomo farà sempre ciò che gli apparirà meglio, in una sorta di intellettualismo etico di matrice socratiana8: in questo modo è preservata sia la libertà di Dio, sia quella dell'individuo pur mantenendosi un universo un cui vi è predeterminazione.

Dobbiamo quindi formulare una concezione di libero arbitrio completamente diversa da quella cattolica, per quanto riguarda la libertà umana, e diametralmente opposta a quella hobbesiana per ciò che concerne la libertà divina. Hobbes sosteneva una concezione assolutistica di Dio: Dio è infinitamente potente e sfrutta questa sua potenza facendo ciò che vuole e senza interessarsi del bene dell'individuo singolo perché buono è solo ciò che piace a Dio, per rispondere ad una vecchia domanda lanciata da Socrate nell'Eutifrone. Leibniz parla invece di un Dio razionale e giusto che sceglie secondo una ragion sufficiente, secondo il bene, che è quindi tale prima di essere scelto da Dio: per Leibniz libertà divina non significa che Dio possa fare arbitrariamente ciò che vuole! Ciò porterebbe unicamente al caos più completo e cozzerebbe con l'assoluta bontà e giustizia di Dio, gettando l'uomo nel caos più totale.

Per quanto riguarda la questione del libero arbitrio umano, dobbiamo sgomberare il campo dalla concezione cattolica, secondo la quale ogni individuo è padrone delle sue azioni e può scegliere se fare il bene o il male. Per Leibniz un concetto così forte di libertà, porta l'uomo ad essere imprevedibile agli occhi di Dio e quindi forma una contrapposizione con la nozione di onniscenza divina: se in un qualsiasi momento io sono libero di fare una qualsiasi cosa, Dio non può prevedere ciò che farò e sarà perciò all'oscuro delle mie scelte; quindi, riprendendo l'esempio di Giulio Cesare fatto in precedenza,9 Giulio Cesare è libero di varcare il Rubicone perché lui vuole varcare il Rubicone, indipendentemente dal fatto che è sicuro che lo varcherà perché Dio ha già predeterminato tutto: libertà per Leibniz vuole dire voler fare ciò che si fa e ciò accade sempre, perché in qualunque momento noi facciamo ciò che vogliamo. E' quindi insensato porsi la domanda sul “voler voler fare una cosa”, domanda su cui si basa la nozione cattolica di libero arbitrio, in quanto ciò genererebbe un regresso all'infinito.
 
>>FID
 
 
1G.W. Leibniz, Discorso..., cit., p. 269

2Cfr. Ivi, p. 273

3Cfr. G. Deleuze, op. cit., pp. 98-99

4G.W. Leibniz, Monadologia, cit., p.13

5Ivi, p. 29

6Cfr. G. W. Leibniz, Discorso..., cit., p. 295

7Cfr. Ivi, pp. 272-273

8Cfr. Ivi p. 274

9Cfr. paragrafo 2.2 L'individualità di questo elaborato