martedì 29 novembre 2011

Un romanzo per la vita: D. H. Lawrence romanziere e critico letterario

Premessa: L’attività narrativa di D. H. Lawrence
La carriera letteraria di Lawrence cominciò nei primissimi anni del Novecento e fu incoraggiata da Ford Madox Ford, che ne pubblicò poesie e racconti sulla rivista da lui diretta, The English Review. Già in questi primi lavori Lawrence si concentrò sui temi che saranno approfonditi nei suoi romanzi: il racconto Odour of Chrysantemums per esempio, pubblicato da Ford nel 1911, mostra il complesso rapporto tra una donna e il marito minatore, basato sulla distanza, che viene colmata da un attaccamento alla terra da parte dell’uomo. Questo rapporto non ha via d’uscita se non con la tragica morte del marito, motivo di turbamento profondo per la moglie.[1] Sin da subito, quindi, la problematicità dell’amore, inserita in un contesto sociale ancora arcaico, lontano dalla disprezzata civiltà industriale, si rivela uno dei Leitmotiv della narrativa lawrenciana.
I romanzi riprendono il filo rosso che si manifesta già nei racconti: il contrasto tra una società ancora arcaica e comunitaria e la civiltà occidentale; il conflitto tra ragione e istinto; il desiderio di emanciparsi dalle convenzioni attraverso il contraddittorio rapporto tra uomo e donna, che si rivela complicato e doloroso. In The Rainbow (1915) l’autore narra le vicende di una famiglia nel corso di tre generazioni, sul modello di un altro grande Familienroman del Novecento, Die Buddenbrooks del tedesco Thomas Mann. The Rainbow è il “romanzo del matrimonio”[2]: Lawrence infatti analizza il cambiamento del rapporto tra uomo e donna attraverso le tre generazioni della famiglia Brangwen nel contesto di un’altra trasformazione, quella della società che da rurale e comunitaria diviene via via meccanizzata, individualizzante e alienante.
L’esperienza sessuale è quindi centrale in un mondo che si sta disgregando troppo velocemente; essa è percepita da Lawrence come uno strumento con cui l’uomo può mantenere un contatto con la propria natura. Si tratta di un legame che porta con sé qualcosa di mistico, che permette all’uomo e alla donna di esperire il mistero e il miracolo della vita che si rinnova in eterno, e che per questo è molto fragile: entrambi devono saper riconoscere e rispettare l’alterità dell’altro senza rinunciare alla propria individualità, cercando di raggiungere un non facile equilibrio che renda possibile e fortifichi il rapporto. Il coronamento dell’amore è la maternità, che però comporta nell’uomo una serie di reazioni contrastanti: da un lato infatti ne è affascinato, ma dall’altro ne è spaventato, perché vede nella donna un temibile nemico che ha la possibilità di creare e portare in grembo la vita, cosa a lui preclusa e che inevitabilmente acuirà l’estraneità della moglie.
La speranza di un rapporto migliore con l’altro sesso è coltivata da Ursula, figlia della seconda coppia presa in considerazione nel romanzo The Rainbow. Speranza che però si dissolve in Women in Love, scritto durante la guerra e accompagnato da una progressiva disillusione dell’autore di fronte agli orrori del conflitto mondiale. La fattoria dei Brangwen è stata abbandonata, Ursula prosegue l’insegnamento e la sorella inizialmente conduce un vita d’artista a Londra, città simbolo del “tramonto dell’Occidente”[3], del disgregamento dei valori tradizionali: il legame con la terra, l’unione matrimoniale, la famiglia. Le sorelle Brangwen cercano di fuggire da questi legami che considerano costrittivi attraverso l’amore con due giovani, Gerald Crich e Rupert Birkin, un amore vissuto con l’istinto, che è contemporaneamente lotta e appagamento, ma che non sarà suggellato, nel caso di Crich e Gudrun, da un anello nuziale, simbolo di un’istituzione tipicamente vittoriana. Al contrario, Crich considera Gudrun una sostituta della madre, intesa come fonte di vita in quanto donna, e si getta tra le sue braccia disperatamente dopo la morte del padre, prefigurando la propria distruzione.[4] Nella parte finale del romanzo, infatti, questo rapporto si farà talmente conflittuale che porterà Crich a tentare di uccidere la giovane. Proprio in questo tentativo, però, sarà lui a trovare la morte.[5]
Birkin, invece, corona l’amore con Ursula con il matrimonio, ma sente il forte bisogno di allearsi con l’amico per sfuggire a una realtà che gli sembra fortemente matriarcale. Necessita di un legame con un uomo, che però si rivela un’inconcludente utopia, a causa della presenza nemica di Gudrun, che distruggerà l’autonomia di Crich.

In questi primi romanzi, Lawrence continua a vedere l’amore come un legame irrinunciabile ma inevitabilmente accompagnato da una lotta, talvolta distruttiva, sia con l’altro membro della coppia sia con le convenzioni tradizionali, in cui i suoi personaggi non credono più perché ormai atrofizzate e portate avanti con inerzia. Esse rischiano di bloccare il vitalismo, l’energia, l’istinto umano, in amore come in ogni ambito della vita quotidiana. Un nuovo rapporto fra i sessi è invece al centro dell’ultimo romanzo, Lady Chatterley’s Lover (1928), pubblicato autonomamente a Firenze. I due protagonisti, Constance Chatterley e l’amante Mellors, vivono la loro relazione adultera senza falsi pudori, con una tenerezza che sta alla base del rapporto sessuale, e che mostra una concezione del sesso vissuto senza malizia, come esaltazione dell’amore, della vita, del contatto con la propria natura. Questa dimensione deve essere recuperata per superare la corruzione della civiltà industriale, che ha allontanato gli uomini dalla consapevolezza del proprio corpo a favore di una falsa spiritualità e ha provocato una concezione malata e corrotta del sesso. Proprio per questo il romanzo andò incontro alla reazione scandalizzata della critica, che portò nel 1929 alla condanna e al sequestro sul suolo inglese.

Dalla pratica alla teoria: Lawrence critico del romanzo
Recentemente mi è capitato di imbattermi in sei saggi in cui Lawrence illustra la propria poetica narrativa. L’esigenza di una riflessione teorica nasce nel 1923, quando Lawrence scrive “The Future of the Novel”, “Il futuro del romanzo”. Innanzitutto opera una distinzione tra il romanzo di prim’ordine, come l’Ulisse di Joyce e À la recherche du temps perdu, Alla ricerca del tempo perduto, di Proust, e il romanzo popolare, come Babbitt di Sinclair Lewis. Dopodiché si concentra soprattutto sulla prima tipologia, riconoscendone il valore letterario e la forte intensità conoscitiva. Ma ne rimprovera la minuta analisi introspettiva, poiché distoglie l’attenzione dalla vera realtà e dalla vera vita, che si trovano al di fuori di sé, nelle relazioni instaurate con gli altri. Soltanto recuperando questa dimensione il romanzo sarà davvero in grado di dare un contributo significativo per la conoscenza della realtà in tutti i suoi aspetti.
Nei successivi saggi, risalenti tutti al 1925, Lawrence continua a delineare il suo pensiero riguardo al ruolo del romanzo nella società, dando per prima cosa un’interpretazione antirealistica e antinaturalistica dell’arte in genere. Nel saggio “Art and Morality”, “Arte e moralità”, egli si occupa infatti di pittura, disciplina per cui nutre un profondo interesse e che considera la più adeguata premessa al discorso sul romanzo degli altri saggi.
Egli sceglie come modello di questa concezione artistica il noto pittore Cézanne, fautore di un recupero della corporeità attraverso la pienezza delle forme e la ricchezza del colore, con cui si proponeva di riprodurre sulla tela l’emozione suscitata dall’osservazione degli oggetti nella realtà. Con l’essenzialità della sua pittura egli riuscì a superare la tendenza tipica dell’arte occidentale a rappresentare la realtà con precisione fotografica, fermandosi alla superficie visibile senza riuscire a penetrarla e cogliere nella rappresentazione la vita che anima tutti gli elementi del cosmo e il divenire delle loro relazioni, non visibile a uno sguardo superficiale poiché appartenente a una dimensione ignota che prende corpo proprio nel dipinto.
Lo stesso vale per il romanzo: nel saggio “Morality and the Novel”, “Moralità e romanzo”, Lawrence sviluppa una riflessione di tipo etico, introducendo il concetto di romanzo “morale”. Si tratta di un’opera in cui la vita viene rappresentata con sincerità, in tutti i suoi aspetti, senza dover necessariamente rispettare convenzioni di tipo tematico, strutturale e sociale che Lawrence considera obsolete e che renderebbero la narrazione parziale e quindi falsa. Per chiarire la sua posizione, egli fornisce un esempio di romanzo che considera non morale nel saggio “The Novel”, “Il romanzo”: si tratta di Anna Karenina di Tolstoj, in cui l’interpretazione morale dell’autore tenta di minare quello che Lawrence ritiene il vero messaggio veicolato dal testo. La sincera passione tra i due protagonisti, Anna e l’ufficiale Vronskij, seppur raccontata magistralmente, soccombe sotto il peso schiacciante delle convenzioni sociali: Anna è un’adultera che non potrà mai più reintegrarsi nella società russa, dominata dal conformismo borghese. Condannando questa relazione con la morte della protagonista, Tolstoj trasmette un messaggio che Lawrence non condivide, poiché invita a sacrificare la propria natura in nome di convenzioni e valori morali imposti dalla società.
In “Why the Novel Matters”, “Perché il romanzo conta”, egli vuole al contrario dimostrare che, in un’epoca come il primo Novecento, in cui l’uomo è stato privato di valori certi, l’unica moralità consiste proprio nel non imporne una, lasciando che la vita fluisca naturalmente, senza forzarne l’andamento con il romanzo, genere a cui Lawrence attribuisce il primato conoscitivo poiché può mostrare all’uomo come vivere veramente. Perché ciò sia possibile, come si legge nell’ultimo saggio, “The Novel and the Feelings”, “Il romanzo e i sentimenti”, è necessaria una rappresentazione della vita nella totalità dei suoi aspetti, che ripristini l’originario equilibrio tra razionalità e istinto messo in discussione dalla civiltà occidentale. L’uomo si è infatti illuso con la cultura e la civilizzazione di aver raggiunto un livello di conoscenza molto elevato, sempre perfettibile, che secondo Lawrence manca però di una componente fondamentale: la conoscenza dell’aspetto più irrazionale e istintivo della natura umana. Esso prende vita nella nostra interiorità, che paragona a una foresta abitata da creature indomabili, i “feelings”, i sentimenti. Reprimendoli, la civilizzazione ha provocato un livello di degenerazione che solo il romanzo, e non certo la psicanalisi, guardata con diffidenza, può curare.
Forte è dunque la sua fiducia nei confronti del romanzo per risollevare le sorti della società contemporanea, che si aggrappa disperatamente a una tradizione e a una serie di valori ormai in dissolvimento, e che necessitano di un rinnovamento. In base a queste considerazioni è dunque opportuno inserire la riflessione di Lawrence all’interno del Modernismo, desideroso di affrancarsi dalla tradizione ereditata dal secolo precedente per dare spazio a una nuova idea di arte, che rispecchi le esigenze rinnovate di un’umanità sempre più priva di certezze come era quella della prima metà del Novecento, e come forse è tuttora.

[1] Cfr. S. Albertazzi, Introduzione a Lawrence, Editori Laterza, Roma-Bari 1988, p. 5
[2] Ibid., p. 39
[3] O.Spengler, Der Untergang des Abendlandes (1918), trad. it., Il tramonto dell’Occidente: lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Longanesi & C., Milano 1981
[4] Cfr. Albertazzi, op. cit., p. 55
[5] “Eros e Thanatos” è l’espressione utilizzata dalle storie letterarie per fare riferimento a questa compresenza di amore e morte, soprattutto durante il Decadentismo. L’amore e le morte sono per esempio protagonisti di un romanzo del grande Gabriele D’Annunzio: si tratta de Il trionfo della morte (1894), in cui il protagonista Giorgio Aurispa muore gettandosi da una rupe insieme all’amata-odiata Ippolita Sanzio, donna dotata di una potente carica sensuale, nella quale Giorgio vede una minaccia per il proprio tentativo di rinascita da una condizione di inettitudine,debolezza, inferiorità. Come Giorgio, anche Crich dunque non riesce a svincolarsi dalla potente figura femminile di Gudrun se non tramite la morte.



Roby <^>

domenica 27 novembre 2011

VisioniAlternative: Garage (2007)




Questa nuova puntata di VisioniAlternative è dedicata all’Irlanda: l’isola di smeraldo può vantare alcuni registi di fama internazionale come il premio Oscar Neil Jordan e Jim Sheridan. Oggi però voglio parlarvi di un piccolo film che porta una firma semisconosciuta ascrivibile a una nuova generazione di cineasti irlandesi.

GARAGE di Lenny Abrahamson. Questa pellicola, presentata a Cannes nel 2007, ha ricevuto lo stesso anno il premio per il Miglior Film alla 25. ema edizione del Torino Film Festival (a proposito, l’edizione 2011 della manifestazione ha preso il via nel capoluogo piemontese venerdì e continuerà fino al 3 dicembre). Stiamo parlando di un film che fa della  semplicità e dei toni lievi e dimessi il suo punto di forza.

Il protagonista Josie, un uomo grande e grosso e “buono come il pane”, conduce una vita solitaria alla periferia di una cittadina immersa nella verde campagna irlandese, gestendo quotidianamente una piccola stazione di servizio con annessa pompa di benzina. Josie è orgoglioso del proprio umile lavoro e ostenta una moderata soddisfazione anche riguardo a una quotidianità che riserva ben poche emozioni, fatta di passeggiate solitarie per le stradine dei dintorni, che tanto bene fanno alla sua anca malandata, e poche parole scambiate con gli sporadici clienti della sua pompa di benzina. Purtroppo però la sua testa non ragiona alla stessa velocità delle altre persone: Josie infatti è mentalmente ritardato e le sue difficoltà nel rapportarsi con gli altri sono evidenti. Un disagio questo che lo porta ad assecondare sempre il suo interlocutore e gli impedisce di esprimere compiutamente i propri sentimenti, condannandolo a relazioni sporadiche e superficiali e a una condizione di generale isolamento. Le cose per lui cambiano quando alla sua rimessa arriva David, un quindicenne figlio dell’attuale compagna di Gallagher, il proprietario della stazione di servizio e capo di Josie, per aiutarlo nel lavoro durante i week-end. Josie prende molto sul serio la situazione e incomincia a insegnare il mestiere al suo aiutante il quale a poco poco ,dall’iniziale diffidenza nei suoi confronti, instaurerà con Josie una timida amicizia. Questo nuovo rapporto sconvolgerà la vita ripetitiva e abitudinaria del benzinaio, con conseguenze drastiche, e non solo positive.

“Garage” è un film molto triste, velato di un costante senso di malinconia. A colpire è la crudeltà della vicenda, che si svela solo nel finale e sembra dirci che non esiste possibilità di riscatto per chi porta su di sé l’etichetta di “diverso” e per questo è emarginato dalla comunità. Josie incarna il prototipo dello “stupido” del villaggio, che tutti trattano con condiscendenza  e compassione ostentando gentilezza e buone maniere, ma che in realtà è irrimediabilmente escluso dalla vita del paese. Se tutti si comportano  bene con il buon Josie e si mostrano suoi amici è più per una questione di “etichetta” e di un ipocrita senso di pietà verso i più deboli che appartiene alla morale comune, che non per reale interesse e disponibilità nei suoi confronti. Tutto ciò si rivela chiaramente nel momento in cui il “diverso”, tollerato finché riveste un ruolo “utile” alla collettività e non invade la vita altrui, si macchia di una colpa, seppur lieve, e subito viene additato e condannato proprio in virtù del suo essere diverso, anormale, e quindi meritevole di biasimo e rifiuto da parte della gente “normale”.

In realtà nel rappresentare una realtà dei fatti dura e senza appello, il regista sembra volerci comunicare qualcos’altro. La diversità di Josie infatti non consiste tanto nel suo ritardo mentale. Questa convinzione si fa largo man mano che il film procede osservando i personaggi che ruotano attorno al protagonista. Josie, con la sua ingenuità e bontà tipicamente infantile, quasi primigenia (molto significative sono ad esempio le scene in cui il protagonista va a trovare un cavallo legato nelle vicinanze del luogo dove lavora e si intrattiene con lui accarezzandolo e dandogli da mangiare) dimostra, anche se talvolta in modo maldestro, molta più umanità, altruismo e apertura al prossimo della maggior parte delle persone con le quali entra in contatto. Ognuna di esse porta infatti con sé le proprie  meschinità e perversioni (dagli uomini del paese alcolizzati e violenti alla giovane e “arrabbiata” ragazza madre della quale Josie è segretamente innamorato, agli adolescenti del luogo costretti a crescere in un contesto di generale degrado e anaffettività). Josie sembra quindi pagare e rivestire il ruolo di vittima per la sua condizione di “diverso”, ovvero migliore degli altri piuttosto che inferiore. Migliore perché capace di trovare una sua serenità e pace interiore nello stile di vita semplice che conduce, la stessa vita che per gli altri è solo squallida e fonte di frustrazione e che a lui invece ispira una “ingenua” felicità.

“Garage è un film molto particolare per lo stile di regia minimalista, le inquadrature fisse e i tempi dilatati, i dialoghi semplici e ridotti all’osso e i lunghi silenzi che però non annoiano e sono sempre funzionali alla rappresentazione del personaggio e dell’ambientazione. I luoghi in cui è ambientata la vicenda rendono onore alla fama della “verde” Irlanda, e impreziosiscono ulteriormente la pellicola, così come l’interpretazione degli attori. Ottima la prova offerta dal protagonista, il semisconosciuto Pat Shortt, che dà vita a un personaggio memorabile nella sua goffaggine e insicurezza, che nella sua semplicità e umiltà arriva ad essere una presenza scomoda per chi gli sta attorno.


La frase da ricordare:

(Josie a chi gli chiede a che cosa sta pensando):

 A niente … Pensavo a quello che ho nella testa: niente.


/Fabio/ 



Trailer italiano di "Garage": http://www.youtube.com/watch?v=d-JrX31li_Q

venerdì 25 novembre 2011

SISTEMA DI CRISI (Parte I)

Premessa: sono da sempre convinto che il lettore vada stimolato a cercare notizie, ad informarsi. Ecco perché ogni link che ho inserito a questo articolo non è una semplice nota in fondo alla pagina, una fonte di cui fa bene conoscere l’esistenza e basta. Tutti i link contengono informazioni aggiuntive agli argomenti trattati, leggerli ed approfondire è vostro diritto e vostro dovere.


Mario Monti è il nuovo Presidente del Consiglio, chiamato a risolvere la difficile situazione dell’Italia e a traghettare il Paese fuori dalla crisi. Economista, già Commissario europeo per il Mercato dal 1995 al 1999, e successivamente Commissario europeo per la Concorrenza, presidente della Bocconi ed ex-presidente dell’Istituto Bruegel.
Oltre ad aver lavorato per diverse aziende, è (poco) noto per essere stato international advisor per Goldman Sachs dal 2005.[1]
Ma che cos’è Goldman Sachs? Una delle più importanti banche d’affari del mondo, con affari e proprietà in ogni parte del globo (dal colosso immobiliare tedesco Karstadt alla Associated British Ports, dalla Fondazione Cariplo alle assicurazioni come Bas, Toro e Unim), ma ricoperta di diverse ombre: nel 2010 la Security and Exchange Commission, l’ente del governo americano che vigila sulla borsa, ha messo sotto inchiesta la società per aver truffato i propri clienti, tra i quali c’erano anche grandi istituzioni finanziarie internazionali.[2]
Goldman Sachs è anche accusata di aver causato la crisi in Italia, innescando la vendita dei Btp[3], e pure di essere all’origine della crisi greca, avendo aiutato il governo di Atene a truccare i conti pubblici, arricchendosi parallelamente.[4]
Ma andiamo con ordine: il debito pubblico italiano (la causa principale della fuga degli investitori stranieri dal nostro Paese) nasce durante la cosiddetta Prima Repubblica, ma non se ne parlò con preoccupazione fino agli Anni Ottanta. All’epoca, nonostante la generale diffidenza dell’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi a privatizzare aziende dello Stato per incamerare qualche lira, il governo decise di cedere parte delle proprietà statali italiane a privati. Ad occuparsi di queste cessioni fu l’Iri, gestita nel periodo 1982-1989 da Romano Prodi, ex Ministro dell’Industria del governo Andreotti nel 1978. La sua gestione dell’Iri viene ricordata come una delle più disastrose, emblematica è la vicenda Sme[5]: Prodi tentò di vendere l’azienda energetica alla Buitoni di Carlo De Benedetti (editore di La Repubblica) ad un prezzo notevolmente inferiore a quello effettivo dell’azienda (1.107 lire per azione, invece che 1.275), nonostante ci fossero altre offerte più vantaggiose, causando lo stop delle trattative da parte del governo.
Ombre si erano già paventate al momento della nomina di Prodi all’Iri, nel momento in cui aveva deciso di non abbandonare il suo ruolo dirigenziale per Nomisma, società con la quale, successivamente, firmò diversi contratti di consulenza.[6]
Nel 1992, in piena crisi economica, nelle acque italiane transitava il panfilo della corona inglese Britannia, con a bordo importanti personaggi della finanza internazionale, nonché i dirigenti di banche, tra le quali Goldman Sachs. Furono invitati anche italiani, come l’attuale governatore della Bce Mario Draghi.[7] È risaputo che sul Britannia si sia discusso del futuro dell’Italia, delle privatizzazioni e dell’ingresso nella nuova Unione Europea.[8]
Fatto sta che, poco dopo quella riunione, il grande oppositore delle privatizzazioni Bettino Craxi fu spazzato via insieme a tutto il suo partito dallo scandalo Tangentopoli, lasciando il posto ad un governo tecnico presieduto dall’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi.
Ripartirono, stavolta in pompa magna, le privatizzazioni, a cominciare da quella della Sme, dopo il ritorno di Romano Prodi all’Iri, seguita da quella di Italgel, GS, Autogrill e Cirio-Bertolli-De Rica. Lo smantellamento dell’Iri finì presto sotto gli occhi della magistratura, in particolare per i casi Italgel e, soprattutto, Cirio-Bertolli-De Rica, valore 1.350 miliardi di lire, venduta alla finanziaria FISVI di Francesco Lamiranda, che dovette rivendere pezzi del’azienda per pagarne lo stesso acquisto. La magistratura scoprì, successivamente, che dietro alla FISVI c’era la multinazionale olandese Unilever, per la quale Prodi aveva lavorato come consulente dal 1990 al 1993.[9] Per Prodi si configurò, così, l’accusa di abuso d’ufficio, dalla quale riuscì a salvarsi grazie alla modifica della legge del 1996, ad opera del suo stesso governo.
Poco dopo emerse anche un’inchiesta riguardante delle consulenze che Romano Prodi aveva svolto per General Eletric e Goldman Sachs durante il suo mandato all’Iri, che erano state prontamente ricambiate: a Goldman Sachs, l’Iri affidò la supervisione della privatizzazione di Credit (il valore delle azioni fu fissato a 2.075 ciascuna, contro il valore in borsa di 2.230).
Durante una perquisizione negli uffici milanesi di Goldman Sachs, avvenuta nel 2007 su richiesta della Procura di Bolzano, furono rinvenuti un dossier recante i nomi “Prodi” e “Tononi”, e una lettera inviata nel 1993 dalla sede di Goldman Sachs a Francoforte alla Siemens, a proposito di un buon affare riguardante l’Italtel.[10] Si tratta della cessione, tramite Iri, dell’Italtel alla Siemens, che batté la concorrenza della francese Alcatel, in un giro di tangenti e fondi neri che ha coinvolto le varie aziende protagoniste, tra cui Goldman Sachs. Massimo Tononi, invece, era un altro dipendente Goldman Sachs, poi divenuto sottosegretario all’Economia con Prodi.
Con le privatizzazioni, ad ogni modo, lo Stato italiano incassò i soldi necessari per far rientrare i conti pubblici entro i confini stabiliti dal Trattato di Maastricht, condizione necessaria per entrare nella nascente Unione Europea. Fu una mossa necessaria, si ricorda oggi, o l’Italia sarebbe finita in bancarotta.
Non la pensa così il giornalista del Daily Telegraph Ambrose Evans-Pritchard, che in un suo recente articolo ha evidenziato come la situazione economica italiana pre-Ue fosse più che stabile[11]: considerando anche il debito privato (ovvero il debito detenuto dalle famiglie italiane), l’Italia si sarebbe trovata sul tetto d’Europa, accanto alla Germania.

 Valerio Moggia


mercoledì 23 novembre 2011

Recensione di "La scomparsa di Majorana"

“Dove la Verità possa condurre, è forse cosa che turba lo scienziato?”
Due Siciliani sono gli uomini di questa documentazione saggistica: l’uno, Majorana, perché ne è il protagonista, l’altro, Sciascia, perché ne è l’autore che, da sempre affascinato dai romanzi polizieschi, colora di giallo l’enigmatica, misteriosa scomparsa del fisico. Il 26 marzo 1938 Majorana decide di mettere in atto il suo piano di “rinuncia alla vita” o, come vuole far credere la polizia del fascismo, tramite il suicidio, oppure, come ipotizza Sciascia, attraverso una fuga silenziosa in un convento campano. Ciò che però è importante in questa vicenda, non è solo la fine della turbata vita di un geniale fisico, ma soprattutto le ragioni che si nascondono dietro un semplice gesto. Probabilmente esse vanno ricercate nella provocatoria domanda che si dovrebbe porre ciascun uomo di scienza: “dove la Verità possa condurre, è forse cosa che turba lo scienziato?”. Majorana, sempre più insofferente della fama costruita dalla sua stessa intelligenza, intravede prima di chiunque altro l’orrendo traguardo e la potenza distruttrice della bomba atomica e per questo si sente intrappolato in uno spaventoso destino. Rivendicando la sua libertà di uomo in un ultimo e unico atto di coraggio e di rifiuto, egli riesce contemporaneamente a fuggire dalla sua stessa normalità e dalla “pericolosa e micidiale” meccanismo della ricerca. Sciascia, mostrandoci quanto il costruttore della gabbia della scienza ne possa rimanere prigioniero tanto da dover “rinunciare come uomo per tacere come scienziato”, descrive il tragico dilemma di un individuo che si sente sottratto della propria identità per opera di una realtà egoista, minacciosa, volta a un progresso, che non è solo fittizio ma anche pericoloso. E se oggi l’umanità si trova a vivere davanti a un muro, è proprio a causa di una scienza cieca che pretende di comandare la natura senza obbedirle. Grazie ai due Siciliani per avercelo mostrato.

20/01/2008 Vera Matarese
Originale: https://sites.google.com/site/phiperfilosofia/recensione-la-scomparsa-di-majorana-di-sciascia

lunedì 21 novembre 2011

Storia della Neuroetica

La nascita della Neuroetica
La crescente comprensione del funzionamento del sistema nervoso centrale ha prodotto una capacità di intervenire sul cervello che oltrepassa la semplice cura di disturbi organici. La possibilità, che è venuta sviluppandosi con il progresso delle tecniche neuroscientifiche, di intervenire su un cervello considerato sano per modificarne il comportamento ha aperto scenari inattesi che hanno contribuito alla nascita della Neuroetica.
Alcuni interventi risalenti ai primi del Novecento hanno dato credito a questo timore. Ne è un esempio l’invenzione del neurochirurgo portoghese Antonio Egas Moniz che nel 1936 aveva messo a punto una tecnica, detta leucotomia prefrontale, per la cura di debilitanti malattie psichiatriche. La leucotomia prevedeva la trapanazione in vari punti del cranio e la distruzione della sostanza bianca dei lobi frontali mediante iniezioni di alcol all'interno di essi. Questa pratica consentiva una riduzione dei sintomi a prezzo, però, di apatia e mutamenti nella personalità del paziente. Tuttavia, all’epoca, effetti del genere erano considerati mali minori, tanto che a Moniz fu assegnato il Nobel per la Medicina nel 1949. La fortuna di questa nuova procedura non si arrestò e venne esportata negli Stati Uniti dal neurochirurgo americano Walter Freeman che modificò il nome da leucotomia in lobotomia. Freeman sviluppò una nuova procedura per attuare la lobotomia ambulatorialmente: perforava lo strato osseo appena sopra la palpebra utilizzando un punteruolo rompighiaccio che, poi, muoveva energicamente al fine di danneggiare il lobo frontale. Questa pratica molto in voga e famosa a quei tempi si rivelò essere estremamente dannosa per i pazienti che pretendeva di curare.
Il ripetersi di casi simili condusse, negli anni Settanta, alla nascita della Bioetica, “un sapere pratico che riflette sui limiti di liceità e illiceità degli interventi dell’uomo sulla vita, resi possibili dal progressivo sviluppo delle scienze e della tecnologia in biologia e medicina” (D’Agostino e Palazzini 2007, 9). Fu, appunto, per affrontare le difficoltà nel prendere decisioni su questioni etiche molto complicate nell’ambito della pratica clinica e della ricerca nel contesto ospedaliero che vennero istituiti i Comitati Etici Ospedalieri. L’atto di nascita di questi comitati è riconosciuto nella sentenza emessa, nel 1976, dalla Corte Suprema del New Jersey sul caso Karen Quinlan, una ragazza in coma profondo i cui genitori domandarono il distacco dal respiratore artificiale.
Per arrivare alla prima astrazione del termine “neuroeticista”, però, occorre aspettare il 1989, anno in cui i neurologi entrarono, per la prima volta, a far parte dei Comitati Etici Ospedalieri.
Il termine Neuroetica fu , invece, coniato all’interno della conferenza ‘Neuroethics: Mapping the Field’, tenutasi a San Francisco nel maggio del 2002, per indicare l’esame di ciò che è giusto o di ciò che è sbagliato , di che cosa è bene e di che cosa è male nel trattamento, nel perfezionamento, nelle intrusioni indesiderate e nelle preoccupanti manipolazioni del cervello umano.
La filosofa e neuroscienziata Adina Roskies ha proposto una partizione all’interno di questa nuova scienza:
L’etica delle neuroscienze riguarda la riflessione sulle applicazioni controverse delle neuroscienze stesse e potrebbe rientrare all’interno della Bioetica: una decisione medica, infatti, non differisce se riguarda un qualsiasi organo o il cervello così come le questioni riguardanti la privacy genetica non sono diverse da quelle riguardanti la privacy cerebrale;
Le neuroscienze dell’etica s'incentrano sulla riflessione metaetica, ovvero quella riflessione che si concentra sul ragionamento morale a partire dalle sue basi materiali. In questo caso si tocca l’essenza dell’essere umano, la sua identità personale, cosa che sembra possa avvenire solo con la manipolazione diretta del cervello.
Nel caso dell’etica delle neuroscienze si può intervenire per libero consenso del paziente oppure normativamente, cosa che non è possibile, invece, nel caso delle neuroscienze. Nel campo neuroscientifico le conoscenze, una volta rese disponibili, rivelano automaticamente i loro effetti di auto comprensione dell’essere umano, con le relative conseguenze sociali, politiche e giuridiche.
Due dei temi più importanti all’interno del dibattito neuroetico sono quelli concernenti la privacy cerebrale e il potenziamento cerebrale, ovvero il potenziamento chimico o tecnologico che non mira al ripristino di una situazione di normalità (cura) ma ha come obbiettivo l’innalzamento delle risposte emotive e cognitive.
A questo proposito si potrebbe ricadere in temi filosofici quale il libero arbitrio, lo statuto della coscienza e la concezione stessa della persona e della natura umana. Rientra appieno in dilemmi di questo genere la questione riguardante l’autonomia. Secondo la definizione classica, “ l’autonomia individuale è l’idea che si riferisce alla capacità di essere la propria persona, di vivere la propria vita secondo ragioni e motivi che sono considerati come propri e non il prodotto di forze esterne che manipolano o distorcono”. (Christman 2003)
Autonomo è, allora, chi è in grado di governare il proprio Sé senza essere influenzato da interferenze esterne, chi è in grado di decidere in che cosa credere soppesando le diverse ragioni pro e contro una determinata azione. Fondamentali nel caso dell’autonomia risultano, quindi, la consapevolezza circa le regole che ci s’impone di seguire e la riflessione razionale, ossia la capacità di valutare le norme di condotta esistenti e di scegliere con il necessario distacco quali di esse seguire.
Il nostro discorso, d’ora in avanti, si concentrerà proprio sulla difficoltà di prendere autonomamente decisioni importanti nell’eterna lotta tra emozioni e razionalità che caratterizza l’essere umano

Corinna Maria Traversa e Mariangela Lentini

sabato 19 novembre 2011

La Repubblica di Platone lezione del 19/11/2011



Scuola di Atene di Raffaello (1509/10)
dimensioni: 770x500
Platone viene rappresentato mentre
indica il mondo delle idee

Platone
Breve introduzione:






• Nasce nel 428/427 a.C.
•Diventa discepolo di Socrate
•Dopo la morte del maestro (399 a.C.) viaggia molto soprattutto a Siracusa, dove vuole educare Dionisio II per instaurare il governo ideale
•Tornato ad Atene, fonda l’Accademia (365/364 a.C.)
•Muore nel 348/347 a.C.

Produzione:





• 36 opere di cui 34 dialoghi, un monologo (Apologia di Socrate) e una raccolte di lettere, di cui la paternità è dubbia
• I dialoghi si dividono in:
1. Opere della giovinezza (es. Apologia e Libro I Repubblica): dialoghi socratici dal carattere confutatorio;
2. Opere della maturità (es. Simposio e libri II-X Repubblica): parziale distacco dal maestro
3. Opere della vecchiaia (es. Politico, Leggi): distacco da Socrate è totale
• Scopo suoi dialoghi: risanare la vita privata e pubblica della città tramite metodo socratico=distruzione falsi saperi (doxa) e costruzione di una nuova episteme (conoscenza scientifica); critica a saperi tradizionali e vita politica (esperienze negative sia con governo 30 tiranni, sia con democrazia, che ha ucciso Socrate)

La Repubblica
Nodi centrali:







A. GIUSTIZIA: Che cos’è la giustizia? Il giusto è felice?(libri I e X)
B. ANIMA: Come è composta l’anima? Quali sono le differenze tra le anime, che portano i filosofi ad essere i migliori governanti possibili?
(libri III e IV)
C. IDEE: Qual è la “gerarchia” delle idee? Che cosa illustra il Mito della Caverna? (libri VI e VII)
D. STATO IDEALE: Che cos’è la Repubblica? E la libertà?(Problemi di Interpretazione dell’opera platonica e del suo rapporto con il Politico e le Leggi)

A. LA GIUSTIZA: LIBRO I

• Problema della giustizia sotto forma di dialogo aporetico (confuta convinzioni interlocutore) prima con Cefalo, poi Polemarco, infine Trasimaco
• 3 punti di vista sulla Giustizia (NOMOS):
I. Cefalo+Polemarco=moralità tradizionale: giustizia è fare bene agli amici, restituire ciò che si è avuto in prestito, obbedire agli dei confutazione Socrate: allora bisogna fare male ai nemici?Rendere una persona peggiore non può essere giusto!
II. Trasimaco= moralità spregiudicata, NATURALISMO o CONVENZIONALISMO ETICO: la giustizia è l’utile del più forte (es. governanti), chi fa bene per gli altri è infelice, il tiranno è la persona più felice del mondo! (pag. 309)
III. Socrate=giustizia è un bene da perseguire di per se stesso, è virtù, sapienza, svolgere la propria funzione (pag. 329). Ma non riesce a confutare Trasimaco, per questo deve passare ad un livello superiore tramite postulato metodico, analogia con la lente di ingrandimento, vedi problema anima

Collegamento a LIBRO X
MITO Escatologico DI ER:

• giustizia porta a felicità, gli dei amano i giusti!
• Er è un soldato defunto che resuscita per raccontare la sua visione
dell’aldilà: premi per i giusti, pene per gli ingiusti
• Descrizione dell’Universo, della Necessità e dell’Armonia del Cosmo
• Dopo aver visto l’Universo e la sua Armonia, le anime devono scegliere la loro vita futura: l’anima migliore, educata alla virtù, sceglierà la vita migliore; infine si passa per la pianura di Lete, dove si beve l’acqua che fa dimenticare la vita passata
• La prima anima vista da Er, sceglie la vita del tiranno: la sua scelta stolta ed irreversibile, lo porterà alla dannazione. Importanza consapevolezza nella scelta!!!
• Il mito rappresenta un’esortazione alla virtù rivolta a chi non ha potuto comprendere gli argomenti filosofici

B. L’ANIMA: LIBRO III

• Problema della giustizia a livello superiore, della città (pag. 379) tramite metafora della grammata (postulato metodico): la città è giusta se ognuno svolge proprio compito, cioè esercita sua virtù
• Per esercitare virtù necessario lungo processo di educazione: no ricchezze, no beni personali, migliori al governo
• Giustificazione governo=nobile menzogna, mito dei nati dalla terra: menzogna da usare come farmaco in dosi non esagerate
• MITO NATI DALLA TERRA(pag 529): anime d’oro=filosofi-governanti;
anime d’argento=“cani da guardia”, guardiani; anime di ferro o bronzo=artigiani+contadini
• Primi due gruppi necessitano di educazione a virtù e coraggio, abitazioni comuni, no patrimoni propri (origine dei mali) critica a modello oikos, casa-azienda
• La terza classe può avere proprietà privata e patrimonio. Deve fornire cibo alle prime due classi, che la governano e proteggono.

IMPORTANTE:
 Le “classi” di cui si parla nella Repubblica non vanno intese nel
senso moderno del termine, cioè come ceti, perché ciò implicherebbe anche una valutazione in senso economico, che è completamente assente in Platone;
 Molti commentatori hanno parlato di coercizione volendo intendere il governo della prima e della seconda classe sulla terza come costrittivo, secondo rigidi parametri da rispettare per avere una Kallipolis; in realtà sarebbe più opportuno parlare di PATERNALISMO, tramite il quale la classe più dotata di sophia e che ha ricevuto una rigida educazione, governa “bonariamente” sul terzo ceto, come un padre con il figlio, volendo unicamente il suo bene e quello dell’intera comunità

B. L’ANIMA: LIBRO IV






• Tripartizione anima:
I. Si passa da “lettere grandi” (comunità) a “lettere piccole” (individuo)
II. L’anima dell’individuo e divisa in 3 parti (pag 593):
a) Razionale
b) Collerica
c) Concupiscibile

Gli individui in cui domina l’anima razionale sono i sapienti: costoro devono essere a capo del governo e della gestione della comunità; lo spirito collerico è l’elemento dominante nei guardiani, i cosiddetti “cani da guardia” che hanno il compito di proteggere la Kallipolis; tutti coloro che si lasciano guidare dai desideri hanno il dovere di farsi guidare dagli altri e fornire loro in cambio il sostentamento.

•Se ognuno svolgerà la propria funzione, uomo sarà giusto e anche la città sarà giusta (pag 613) nuova definizione di giustizia: armonia 3 parti dell’anima (pag 621) e l’ingiustizia come conflitto interno contro natura tra le 3 parti (pag 623)
Riunificazione psichica dell’individuo e politica della città: fine individuale e politico coincidono=felicità della Kallipolis tramite una divisione armonica e laicizzata del lavoro sociale (la religione è affidata ad esterni, il sacerdote di Delfi);
• Novità platonica: non c’è netta scissione anima-corpo: il desiderio non proviene solo dal corpo, ma anche da una delle 3 parti dell’anima.

C. LE IDEE: LIBRO VI

• Idea del buono=massima conoscenza (pag 813), luce, sole
• Buono : idee(sfera noetica) = sole : oggetti(sfera visibile) parallelismo bene-sole: buono conduce colui che si fissa su di esso a vedere episteme(vera conoscenza), e gli oggetti traggono da esso l’essere e la loro essenza
• Idea del Bene Supremo sovrasta le altre idee perché ha una valenza normativa (regolativa) ovvero dà valore alle altre idee, presentandole come
buone, cioè desiderabili dal punto di vista conoscitivo
• Per raggiungere alla vera conoscenza è necessario un percorso lungo e dinamico che porterà il filosofo a studiare discipline quali la matematica, l’astronomia, la geometria, prima di approdare alla scienza pura, la dialettica: unica scienza intuitiva, non ipotetica

• La linea della conoscenza si sviluppa dalla più bassa delle sue forme (l’immaginazione) al pensiero puro (noesis):è un processo dinamico di emancipazione del filosofo lenta e graduale. Il filosofo è l’unico che può fare riferimento al principio supremo di verità, perché educato alla dialettica, la scienza regia.
• Per dianoia si intende il pensiero discorsivo, ipotetico
• Per noesis si intende conoscenza dialettica, pura, intuitiva

Collegamento a LIBRO VII:

• MITO DELLA CAVERNA (pag 841-849):
I. Uomini fin da bambini sono posti in una caverna, incatenati, possono guardare solo davanti; alle spalle hanno un fuoco, che costituisce l’unica fonte di luce; su un muro sovrastante vengono proiettate le uniche immagini, come delle marionette
II. Per questi uomini la verità è la proiezione degli oggetti, ovvero le ombre
III. Se uno di loro è liberato dalle catene e ha la possibilità di vedere fuori dalla caverna, dapprima proverà un forte dolore agli occhi, poi riuscirà a vedere solo ombre ed immagini riflesse; solo successivamente arriverà a guardare le cose stesse, ed infine i corpi celesti ed il sole, punto finale della “conversione al vero”

I. A questo punto chi ha avuto modo di vedere la verità, compiangerà gli altri
nella caverna e vorrà ridiscendere per raccontare loro ciò che sa
II. Ma tornato nella caverna verrebbe preso in giro dagli altri, che non hanno
avuto modo di conoscere
III. Il riferimento è al maestro Socrate, mai realmente apprezzato e capito dai
concittadini, anzi criticato ed accusato di empietà
IV. Filosofo ha compito di accettare l’impegno politico, per ripagare la città dell’educazione ricevuta: il suo è un dovere inevitabile, una funzione EIDEPICA, cioè una garanzia di governare la kallipolis secondo giustizia e l’idea di buono la città e la filosofia si salvano insieme o insieme periscono

D. LO STATO IDEALE: Interpretazioni

Il pensiero di Platone è stato spesso strumentalizzato anacronisticamente: al di là delle diverse interpretazioni secondo le quali “La Repubblica” sarebbe un trattato ontologico (‘900) o un trattato di educazione (Rousseau), coloro che propongono l’opera di Platone come trattato politico, considerano il filosofo di volta in volta precursore della loro ideologia:
 I comunisti ne sottolineano l’abolizione della proprietà privata
 Si narra che i nazisti camminassero con “La Repubblica” sottobraccio evidenziandone l’aspetto dell’eugenetica (controllo delle nascite) e dell’elitarismo dei re-filosofi (una sorta di classe (ariana) perfetta)

Queste 2 interpretazioni sono illegittime ed anacronistiche!

D. LO STATO IDEALE:Utopia (ir)realizzabile?

• Aristotele legge l’opera di Platone come un’utopia negativa, un modello a cui tendere ma comunque irrealizzabile; la stessa lettura è fatta nel ‘900 da Gadamer e Leo Strauss, secondo i quali il trattato sarebbe da leggere in modo ironico…
• …Eppure il libro VII si conclude sottolineando la desiderabilità e la possibilità del disegno platonico, che non vuole quindi essere utopico
• Nel libro V Socrate sottolinea come nel dialogo si è ricercato un modello perfettamente integro di giustizia, anche se è consapevole che la messa in atto nella pratica è difficile (ma non impossibile)

Verità sta nel mezzo: Platone presenta un modello, che con la giusta educazione ed un tempo lungo sarà un giorno possibile come massimo di approssimazione all’ideale. Necessaria sarà la formazione di filosofi-re o la trasformazione di re in filosofi: alleanza SAPERE-POTERE, scienza-politica è fondamentale! Tema fortemente attuale (non è che forse la politica dei giorni nostri manca di episteme?)

Collegamento a LIBRO VIII: “Classifica” delle
costituzioni che più si avvicinano al modello


1) ARISTOCRAZIA: governo dei migliori; si corrompe perché non vengono rispettate le regole sulle nascite e viene trascurata l’educazione;
2) TIMOCRAZIA: governo dei forti mantiene alcuni aspetti dell’aristocrazia (no proprietà privata) ma diffida da sapienti e ha ambizione individuale di onori e ricchezze (pag. 943); ciò porta a…
3) …OLIGARCHIA: governo dei pochi si venerano le ricchezze e la città è divisa in 2, ricchi da una parte, poveri dall’altra (pag. 953). Il desiderio di sempre maggiori ricchezze fa trascurare la massa; i poveri covano il desiderio di rivolta, che porta alla stasis, la guerra civile.
4) DEMOCRAZIA: governo dei molti; uccisi ed esiliati gli avversari, i poveri redistribuiscono le ricchezze, le cariche vengono date per sorteggio= non obblighi politici necessari; regna la libertà o meglio l’ANARCHIA (pag. 975) ci si abbandona ai piaceri non necessari. Di questa totale mancanza di leggi approfittano i “cattivi coppieri”: da eccessiva libertà si passa ad eccessiva schiavitù (pag 999)
5) TIRANNIDE: governo scellerato di uno il “cattivo coppiere” diventa capo poi tiranno ed esercita solo i suoi interessi: impegna il popolo in guerra e lo impoverisce=PARRICIDIO del tiranno nei confronti del popolo che lo ha generato

IMPORTANTE:
 Gli antichi, come apprendiamo dal testo del filosofo Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, (1819) non hanno la nostra stessa concezione di libertà: se oggi per libertà facciamo riferimento alla sfera dei diritti individuali, per i greci la libertà era la possibilità di gestire la polis tramite la vita politica attiva, si riferiva cioè all’ambito collettivo. Parafrasando Giorgio Gaber libertà è partecipazione!
 Platone ha una visione molto negativa della tirannide e della figura del tiranno: oltre al nono libro de “La Repubblica”, interamente dedicato a dimostrare l’infelicità del tiranno, vi sono un sacco di riferimenti lungo tutta l’opera alla mancanza di educazione del despota fino a culminare, come abbiamo visto, al mito di Er. Questa visione negativa del tiranno è probabilmente data dalle cattive esperienze che Platone ebbe con il regime
dei 30 tiranni e con il tentativo di “istruzione” di Dioniso II a Siracusa.

Gli altri due testi politici:le LEGGI e il POLITICO

• Entrambi “dialoghi della vecchiaia”, in cui distacco dal maestro è totale: le “Leggi” sono l’ultimo dialogo platonico, rimasto incompiuto per la morte del filosofo
• Il Politico risponde alla domanda “cosa fare per evitare la degenerazione?” Bisogna delineare una scienza politica del Kairos, del momento opportuno per le riproduzioni, per l’educazione ecc…): le figure del filosofo e del tiranno devono coincidere, per avere perfetta armonia tra scienza e politica
• Le Leggi La strada più facile per raggiungere la migliore costituzione è l’affiancamento di un legislatore-filosofo al tiranno

Se “La Repubblica” si occupa dell’aspetto più teorico della formazione di un governo giusto, “Il Politico” e “Le Leggi” cercano di individuare una strada più pratica

giovedì 17 novembre 2011

Quello che NON ti vogliono far sapere

Qui di seguito presenterò un "elenco" di cose che forse in pochi sanno: quando mi sono informata settimane fa sono rimasta allibita dal risultato della mia ricerca, tanto che ho voluto condividere queste mie conoscenze acquisite con voi.
Tutti sicuramente saranno a conoscenza della lotta che gli animalisti fanno per la salvaguardia degli animali, per evitare il loro sfruttamento nei test cosmetici, o per evitare(peggio ancora) la produzione di pellicce. Non tutti però sono a conoscenza che se Tu, cittadino, vuoi favorire questa lotta non acquistando prodotti testati su animali o pellicce vere, la cosa diventa abbastanza difficile se non impossibile nel nostro Paese.
Partiamo dai cosmetici (trucchi, creme, shampoo, etc…) cose che tutti noi, non solo le donne, usiamo. Ci insegnano che i prodotti dove è scritto “Prodotto finito non testato su animali”, non lo sono effettivamente, ma...ecco qui servito l’inganno! Questa scritta non significa che il prodotto non è stato completamente testato sugli animali, ma solo quello FINITO non è stato testato: ciò significa che i suoi componenti singolarmente presi possono essere stati testati sugli animali.
L’inganno non viene dato solo dalle scritte messe sui prodotti, ma anche dai marchi stessi! Infatti molti grandi marchi che indicano che il prodotto è fatto con componenti naturali e non di origine animale, fanno illudere che il prodotto non sia testato sugli animali, invece se provate a cercare marche di prodotti non testati su animali, vi posso assicurare che verranno fuori pochissimi nomi, e saranno nomi di prodotti non conosciuti, difficilissimi da trovare!
Il problema non è solo sui prodotti di igiene e cosmetica, ma anche sugli alimenti: molti grandi marchi di alimenti testano i loro prodotti sugli animali: volete un nome? Giusto uno dei più famosi, la Nestlè! Non voglio incriminare nessuno in questa sede, però voglio far capire a chi volesse aiutare il non maltrattamento degli animali, che questa è una battaglia persa in partenza. Anche perché, supponendo che una persona riuscisse ad acquistare tutti i prodotti alimentari e cosmetici che non testano sugli animali, rimane un settore, dove il testare prodotti sugli animali è addirittura imposto da una legge dello Stato Italiano! Il settore di cui sto parlando è quello dei medicinali. Per chi di voi non ne fosse già a conoscenza, i medicinali prima di essere immessi nel mercato e, resi commerciabili, devono obbligatoriamente essere testati sugli animali! Fanno eccezione i prodotti omeopatici, che però vengono utilizzati in modo molto limitato, perché hanno un'efficacia relativa.
Perciò, come potete constatare, portare avanti una battaglia contro il maltrattamento(perché solo così si può chiamare)degli animali, è una battaglia persa in partenza. Cosa servirebbe per poter cambiare questa situazione? Innanzitutto l’abrogazione della legge che impone il testare i medicinali sugli animali; in secondo luogo leggi più rigide sull'etichettatura.
Un discorso diverso e con esito positivo si può fare sulle pellicce: con il passare degli anni, sul mercato è più facile trovare pellicce ecologiche e non vere. Dico “è più facile” non “si trovano solo quelle”. Purtroppo ci sono ancora grandi marchi che si ostinano a produrre capi solo con pellicce vere, faccio solo un nome Pinko, ma potrei elencarne molti altri. In questo caso però bisogna incriminare anche le persone che si ostinano ad acquistare le pellicce, perché se tutte (parlo al femminile) imparassimo ad acquistare pellicce ecologiche(e con pellicce intendo anche il bordo dei cappucci dei giubbini), anche i grandi marchi si adeguerebbero alle nostre scelte.
Oltre alle leggi, la responsabilità è anche nostra. Partecipiamo attivamente alla tutela degli animali!

Serena Testa

martedì 15 novembre 2011

Bertrand Russell: sulla religione e l'atei(eri)smo

BERTRAND RUSSELL

SU DIO E LA RELIGIONE
Tratte da un’intervista televisiva concessa nel 1959, Bertrand Russell rispose a diversi interrogativi che gli vennero posti dall’intervistatrice: da essi possiamo quindi ben comprendere la sua visione del mondo. Alla domanda sul perché egli non sia cristiano, il filosofo-matematico replicò con la logica affermando che non esiste prova alcuna circa i dogmi cristiani, come non esistono argomenti logicamente validi che dovrebbero provare l’esistenza di dio. Sul fatto se esista o meno una religione pratica adatta ad ogni persona (o meglio, gruppo di persone), anche qui il gallese fu categorico: infatti, dichiarò impossibile l’esistenza di una religione pratica, poiché ogni religione – in quanto tale – crede nel falso.
La logica ovviamente impone di credere solo nel vero e di ritenere inconfutabile ciò su cui si nutrono dei dubbi: se qualcosa difatti non è possibile ritenere né vera né falsa su di essa il giudizio rimarrà in sospeso. Chiuse tale risposta ribadendo che è assai scorretto decidere di mantenere un credo per il fatto che esso si riveli più utile che vero. Per quanto riguarda l’esistenza di un codice religioso ideale per vivere, Russell si espresse chiarendo sul possibile insorgere di fraintendimenti quando si parla appunto di religione, aggiungendo che: la razionalità non è un elemento che si trova nella morale tipica di epoche che egli stesso definì barbariche. A proposito del quesito se sia più facile affidarsi ad un’imposizione esterna anziché alla propria etica personale (tipica delle persone forti, come aggiunse l’intervistatrice), lo scrittore definì
tale imposizione priva di valore.
Alla domanda se fu cristiano, egli rispose dicendo che: sebbene tra i 15 ed i 18 anni s’impegnò a cercare di capire il motivo per credere ai dogmi cristiani, alla fine realizzò di non averne trovato alcuno. Se ciò gli abbia conferito forza o debolezza, Bertrand Russell semplicemente replicò di non aver ricevuto né l’una ne l’altra, bensì di essersi solo impegnato costantemente per conseguire il suo percorso di conoscenza. La vita dopo una morte la ritenne meramente una sciocchezza, negandola con schiettezza. Nell’ultima domanda, gli si chiese se un ateo od un agnostico si potessero mai convertire in punto di morte, egli rispose dicendo che ciò poteva accadere davvero raramente, come all’opposto si crede. Concluse affermando che molti religiosi ritengono virtuoso che gli agnostici mentano sul letto di morte, anche se ciò è assai raro.


L’ANALOGIA DELLA TEIERA
Concludendo, il matematico Richard Dawkins, in un suo recente monologo, riprende l’analogia della teiera che rese famoso Russell al fine di testimoniare l’esistenza dell’ateismo (seppur scientifico: a-teierismo) dell’essere umano: la teiera cinese in questione, sebbene girasse attorno al sole sospesa nello spazio, è da ritenersi confutabile poiché non individuabile nemmeno con l’uso del più potente dei microscopi… figuriamoci dall’occhio umano! È di fatto ovvio per ognuno di noi ritenere lunatico colui che crede nel confutabile, ma è qui che viene il bello…
Cosa accadrebbe se la teiera divenisse una religione e se su di essa venissero scritti libri sacri o se venisse insegnata nelle scuole o dagli anziani della tribù? Diverrebbe lunatico colui che giustamente e razionalmente rifiuterebbe e si opporrebbe attivamente a tale dogma poiché irrazionale. Sebbene alcune persone credano o abbiano creduto in fate, unicorni, hobgoblin, Thor ‘dio del tuono’, Amon- Ra o Afrodite – ovvero in esseri caduti nell’oblio – non è detto che chi creda in uno o più déi “attuali” venga ritenuto un credente comunque superiore a chi crede tutt’oggi (o abbia creduto in epoche remote) in queste entità: pertanto non esistono figli di dei minori, ma solo persone che si appellano ad un dio più in là… come dice appunto Dawkins, ed avrebbe detto Russell.

Andrea Danile

domenica 13 novembre 2011

Risposta a Fede: TV educativa e TV d'intrattenimento

La scorsa settimana, la nostra coamministratrice ha pubblicato uno "sfogo" sulla scarsa presenza di cultura in televisione. Qui la Risposta di Davide Colombini nel suo blog "Il polemista" http://bimunada.wordpress.com/2011/11/08/risposta-a-fede-tv-educativa-e-tv-dintrattenimento/

In un post intitolato “Perdonate lo sfogo…”, Fede, collaboratrice del blog “L’uomo mediocre” (http://fbmcssblogblogger.blogspot.com/2011/11/perdonate-lo-sfogo.html), apre un’interessante discussione sul ruolo dei mass media, in particolare della TV, rispetto ai fatti di cronaca. Si chiede come mai i programmi siano costruiti ad hoc per cavalcare questi fatti di cronaca, come sia possibile che schiere di opinionisti tuttologhi (che è come dire nullologhi) affollino questi programmi, improvvisandosi crimilologi, psicologi, filosofi, eccetera eccetera. Da buona filosofa, l’autrice del pezzo si chiede dove sia, in tutto ciò, la kultur (la cultura e la civiltà).

Credo che per rispondere a questo quesito si debba analizzare lo sviluppo storico della televisione italiana, e il profondo mutamento di ruolo che essa ha avuto dagli anni ’50 ad oggi. Alla sua nascita, la televisione italiana aveva principalmente due ruoli: quello di propaganda elettorale e quello educativo.

L’importanza del controllo della TV per fini elettorali è evidente dall’ostinazione con cui il PCI cercò per tutto il dopoguerra di conquistare spazi televisivi e dall’altrettanto ostinata resistenza della DC a non concederglieli. Questo ruolo politico della televisione è rimasto inalterato durante gli anni ’70 e ’80, con la lottizzazione, e vale più che mai oggi (fra l’altro, sarebbe utile far notare a quelli che ancora dicono che “la TV non sposta voti”, che sia la DC, che ha governato per tutto il dopoguerra, sia i socialisti, che si sono fatti una manciata di anni, sia Berlusconi che ha sul groppone quattro governi, hanno avuto il controllo della stragrande maggioranza delle reti).

L’altro ruolo, quello educativo, è evidente dal contributo fondamentale che la televisione, insieme ai giornali, dette all’unificazione linguistica del paese. La televisione della prima Rai era formale, composta e un po’ noiosa, proprio come una maestra o una professoressa. L’italiano parlato su quella televisione era di un livello molto superiore a quello parlato dalla gente comune, la corretta dizione era un requisito fondamentale per ogni giornalista televisivo e per ogni presentatore, con la significativa eccezione di Mike Buongiorno, che fin da subito spiccò per il suo essere “popolare”, più simile ai suoi concorrenti che ai colleghi (caratteristica che gli garantì il successo).

A differenza del ruolo elettorale, che si è conservato fino ad oggi, e anzi, si è forse rafforzato visto l’aumento esponenziale degli apparecchi televisivi nelle case degli italiani rispetto agli anni ’50, il ruolo educativo della televisione si è perso del tutto. Questo non significa che gli individui non apprendano mode e costumi dalla televisione, tutt’altro; ciò che è venuta meno è l’intento educatore della televisione. La funzione che ha sostituito la didattica è quella dell’intrattenimento. Con l’avvento della TV commerciale anche il programma televisivo è diventato un prodotto da consumare. In quest’ottica è evidente che tutto si ribalta. Se prima avevamo una televisione culturalmente più elevata rispetto alla popolazione italiana (che, di conseguenza, tendeva ad innalzare il livello culturale dei telespettatori), ora abbiamo una televisione che cerca di appiattirsi sul livello culturale più basso. Ciò significa, nella prassi, che il prodotto dovrà cercare di assecondare gli istinti più viscerali della natura umana, come l’attrazione morbosa verso la morte (quindi tutti i tg mettono fra i primi titoli la cronaca nera e si fanno interi programmi incentrati solo su un delitto) e l’attrazione sessuale (quindi tutti i programmi si riempiono di veline e letterine). Questo tipo di televisione non parla alla mente, ma alla pancia. Chiedere allo spettatore di ascoltare una dissertazione filosofica di un intellettuale, cioè parlare con il linguaggio della razionalità, comporta uno sforzo da parte dello spettatore stesso; e la fatica, si sa, è sempre mal sopportata. Quindi si cambia canale. Ecco che quindi si decide di puntare sempre alla pancia, piuttosto che alla testa: le parole fanno audience non se sono messe in fila correttamente, ma se sono gridate. E’ ovvio che questo tipo di televisione non alzi il livello culturale dello spettatore, al contrario, assecondando le sue bassezze, lo rende peggiore. Un circolo vizioso. Per meglio capire gli effetti devastanti di questo abbassamento, basta pensare alla lingua: su Youtube si trovano filmati tratti da vecchie trasmissioni della Rai, basta ascoltarli per rendersi conto dell’abissale differenza che c’è fra quella dizione perfetta e il romanesco di Amendola o Taricone. Basti pensare alla differenza fra il linguaggio di giornalisti d’altri tempi, come Piero Angela e Corrado Augias, e giornalisti attuali come Michele Santoro (con i suoi “va be’”) ed Enrico Mentana (con i suoi “Eeeeeh” fra una frase e l’altra).

La televisione attuale, che con l’unico scopo di fare ascolti, viene ritagliata perfettamente sulle caratteristiche peggiori dell’italiano medio. Fede si chiede come mai si fanno talk show in cui personaggi dalla dubbia autorità in materia di psicologia si improvvisano psicologi ecc ecc. Che domande, quelli siamo noi. Le chiacchiere a vanvera degli opinionisti sono come le nostre chiacchiere da bar con gli amici. I discorsi di quei personaggi sono come i pettegolezzi di paese proiettati su scala nazionale. E’ questo il motivo del successo di quei programmi. Se al posto loro mettessero dei professoroni, immediatamente il discorso si alzerebbe di livello, diventerebbe noioso per tutti coloro che ne sanno meno nel professore (cioè la maggior parte dei telespettatori), e gli ascolti calerebbero. Questo gli autori lo sanno bene, e agiscono di conseguenza.

La soluzione più indicata per uscire da questa situazione sarebbe, credo, quella di reinventare la TV educativa cercando di renderla meno noiosa, così da ottenere un programma di alto livello con numerosi ascolti.

Davide Colombini

venerdì 11 novembre 2011

Semplicemente Gilles

Gilles Vileneuve è uno di quegli sportivi che non sei mai sicuro se siano esistiti davvero o siano il frutto meraviglioso di una qualche mitologia. Il pilota canadese è forse l'ultimo esempio della formula 1 “eroica”, che regalava spettacolo pur (o forse proprio per questo) senza avere un giro d'affari grande quanto quello odierno. Ad alimentare il mito di questo pilota contribuisce il fatto che la sua vita sembra un film scritto dal più abile degli sceneggiatori. Villeneuve nasce in Canada il 18 gennaio 1950 a Saint Jean sur Richelieu e visse l'infanzia nella vicina città di Chambly. Durante l'adolescenza si possono ricordare due episodi che danno la giusta idea di chi era veramente Gilles Villeneuve: a quindici anni rubò la Pontiac del padre e la spinse a 170 Km/h sotto la pioggia, risultato: uscì di strada e andò a sbattere contro un palo distruggendo la macchina ma rimanendo incolume. L'anno dopo, munito di regolare patente, si stava recando in un paese vicino a trovare una ragazza che le piaceva; stava per superare un'auto quando questa accellerò in segno di sfida: per Gilles era un invito a nozze e subito si lanciò all'inseguimento. La sfortuna volle che una mandria di mucche attraversasse la strada e costrinse le due auto a una brusca frenata. Villeneuve finì in un fossato e si prese otto punti di sutura sulla testa. L'incoscienza dimostrata in queste ed altre occasioni saranno l'ingrediente vincente della sua carriera in formula 1 ma prima di arrivare a quei livelli la strada era ancora lunga. Il primo assaggio di agonismo lo ebbe a diciassette anni, non in una corsa di macchine, bensì in una di motoslitte. Infatti dato il rigido inverno e le copiose nevicate le motoslitte erano ll'unico mezzo per muoversi e i produttori organizzavano gare aperte a dilettanti e team professionisti. Villeneuve partecipò ad alcune gare della sua zona mettendosi in mostra tanto da venire ingaggiato da un team professionista la skiroule , tra il 1969 e il 1970. Nel 1971 passò ad unaltro team col quale divenne campione del Quebec e campione del mondo per la categoria 440 cc.
Nel 1973 il suo talento per le motoslitte passò al servizio delle macchine. Frequentò la scuola per piloti di Jim Russel, ottenendo in breve tempo la licenza di pilota. Nello stesso anno partecipò al campionato del Quebec di formula ford con una macchina vecchia di due anni; ciononostante vinse sette gare su dieci, conquistando il titolo. Nel 1974 approdò alla formula atlantic, la categoria più importante del Canada ma alla quarta gara fece un grave incidente che gli causò la frattura ad una gamba in due punti. Alcuni mesi dopo tentò di riprendere le corse ma il dolore gli impedì di portarle a termine. Il bilancio della sua prima stagione di formula Atlantic fu dunque disastroso con l'unico dato positivo il terzo posto ottenuto all'esordio. Nel 1975 rischiò di non poter correre a causa di una crisi finanziaria, ma lo salvò la skiroule che lo reingaggiò per correre con loro, Villeneuve accettò a patto che questi lo avessero sponsorizzato nell'imminente stagione di formula Atlantic. In quella stagione vinse la sua prima gara in quella categoria e concluse il campionato in quinta posizione.
La stagione 1976 la corse nella Ecurie Canada ed ebbe come tecnico Ray Wardell che in precedenza aveva lavorato per gente come Niki Lauda e Ronnie Peterson. La stagione fu trionfale dal punto di vista agonistico in quanto Gil vinse sia il campionato canadese che quello nordamericano, nonostante le difficoltà economiche del team che dovette appoggiarsi a Gaston Parent per non fallire. Lo stesso anno a Trois-Rivieres si svolse una gara alla quale parteciparono oltre ai migliori piloti di formula Atlantic alcuni grandi nomi della formula 1 come Hunt ( che di li a poco sarebbe diventato campione del mondo), Alan Jones e altri ancora. La vittoria andò al giovane canadese che impressionò i suoi più esperti rivali e questo fu il vero trampolino di lancio che gli permise di debuttare in Formula 1 l'anno successivo!
Nel 1977 Gil prese parte ad alcune gare del campionato sudafricano di formula Atlantic e poi si cimentò in una nuova categoria: la canadian-american Challenge cup. Ma entrambe le esperienze non diedero risultati positivi; poco importa dato che la gara più importante di quell'anno fu quella del suo debutto in formula 1 il 16 Luglio 1977 a Silverstone. Villeneuve correva con la McLaren numero 40 e partì al nono posto. Durante la gare dovette fermarsi ai box per il malfunzionamento della spia dell'acqua ciononostante rientrò in pista e concluse all'undicesimo posto. Una prova tutto sommato positiva, ma purtroppo non gli vale la conferma in McLaren. Purtroppo per lui, ma per fortuna di altri, e questi altri non sono proprio i primi venuti...
Poco tempo dopo infatti ricevette una telefonata che veniva da lontano, qualcuno che parlava inglese con accento straniero che gli chiedeva se gli sarebbe interessato correre per la Ferrari. Gil pensò a uno scherzo, ma era invece la meravigliosa realtà. Il contratto fu firmato poco dopo il GP di Monza e il pilota canadese avrebbe corso per la scuderia del cavallino le ultime due corse della stagione 1977 e tutta la stagione 1978.
Il 1978 non è una stagione fortunata costellata da numerosi ritiri, ma offre lo stesso numerose prove dell'immenso talento del canadese, e per di più la sua prima vittoria in formula 1 ottenuta l'8 ottobre proprio in Canada. È una vittoria ottenuta con brivido in quanto negli ultimi giri il suo motore faceva uno strano rumore, ma le cose andarono bene per il visibilio dei spettatori e degli appassionati!
Il 1979 è forse l'anno migliore della sua troppo breve carriera, e non solo per i numeri (3 vittorie e il secondo posto nel mondiale dietro al compagno Jody Scheckter) ma anche, e forse soprattutto, per le prestazioni. Ricordiamo per esempio la gara a Zolder. Il 13 Maggio si corre infatti sul circuito belga il 6° gran premio della stagione. Gilles Villeneuve ci arriva dopo 2 vittorie nella terza e quarta gara e in testa al mondiale insieme a Depailler. Il canadese parte sesto in griglia ma è coinvolto in un incidente che lo costringono a una sosta forzata ai box. Rientra in pista ultimo ma è lo stesso capace di una rimonta eccezionale che lo porta al terzo posto e in quella posizione rimane fino a 300 metri dal traguardo. Il podio sarebbe il premio per una rimonta perfetta ma purtroppo a 300 metri dal traguardo gli finisce la benzina e il canadese non termina la gara anche se poi viene classificato come 7°. Se avesse cocluso in terza posizione avrebbe conquistato quei 4 punti che a fine stagione lo avrebbero affiancato al compagno di squadra Scheckter. Il 12 Agosto 1979 è una data che tutti gli appassionati sportivi ricordano: a Digione in Francia si corre una delle più belle gare della storia della formula 1. Villeneuve parte terzo ma con un'ottima partenza si porta in testa rimanendovi per oltre metà gara poi viene superato da Jabouille su Renault che poi vincerà la gara, ma per una volta non è il vincitore che sarà ricordato: infatti durante gli ultimi tre giri si entra nella leggenda: il duello è per la seconda posizione i protagonisti sono il nostro Gilles e il francese Arnoux compagno di squadra di Jabouille. Ci sono sorpassi e controsorpassi, frenate al limite con le due vetture che si toccano più volte, ma i due sono sempre bravi a rimanere in pista, alla fine la spunta il canadese che arriva secondo rovinando la doppietta Renault! Un duello che forse non ha eguali nel passato nel presente e nel futuro. La stagione prosegue condita da grandi partenze e bellissimi sorpassi e tre podi nelle ultime tre gare di cui il primo è il secondo posto a Monza dietro a Scheckter, che vince matematicamente il mondiale; da notare è la sportività del franco-canadese che non attacca il compagno di squadra. La stagione si chiude nella maniera migliore: una vittoria nel gran premio degli USA a Watkins Glen che gli da il secondo posto mondiale.
Dopo questa stagione piena di fasti, il 1980 è un anno negativo per Villeneuve; il pilota è costretto al ritiro 6 volte, e arriva a punti solo in 4 occasioni avendo come miglior risultato un quinto posto.
Va meglio nel 1981 dove ottiene due vittorie consecutive una a Monaco e una in Spagna. La prima è ricordata anche per un grande sorpasso che Gil opera nei confronti di Alan Jones alla Santa Devota.
Un'altra grande prestazione di quell'anno è nel gran premio di casa: in Canada. Gil parte dalla sesta fila, ma è autore di una grande rimonta che lo porta momentaneamente al secondo posto, poi viene superato da Watson e poco dopo piega l'alettone anteriore. Pioveva è la visibilità era quindi minima ma il ferrarista non vuole fermarsi ai box, nemmeno quando l'alettone si stacca completamente. Continua a guidare una macchina ingestibile e arriva al traguardo conservando la terza posizione. Un'altra dimostrazione di carattere e forse di incoscienza che però donano spettacolo al circus e alla storia.
Purtroppo alla quinta gara della stagione successiva, durante le prove Villeneuve si scontra con Mass, la sua Ferrari vola nell'aria e lui ne è sbalzato fuori e cade male. Quella stessa sera Gil viene dichiarato clinicamente morto: sono le 21:00 dell'8 Maggio 1982. Con lui muore anche la formula 1 dei tempi eroici. Villeneuve era quel tipo di pilota che non si può giudicare dagli albi: 6 vittorie, 13 podi questi sono i freddi numeri che non rendono giustizia alla carriera di Villeneuve. Quello che i numeri non dicono infatti è la passione con la quale lui guidava, si divertiva e soprattutto faceva divertire tifosi, appassionati e sportivi in genere. Fuori dalla pista un uomo amabile e tranquillo, dentro la pista grinta, irruenza voglia di dar spettacolo, questi sono gli ingredienti che lo hanno reso uno dei piloti più amati di sempre. Lui ormai è un eroe, che sembra uscito da un film del quale egli stesso dice:<< Io ho avuto il privilegio di essere la comparsa, lo sceneggiatore, l'attore protagonista e il regista del mio modo di vivere>>

Alcuni video(cliccare sopra per vederli):

Villeneuve vs Arnoux(Digione 1979)
Villeneuve su Arnoux e Patrese( GP Monaco 1980)
Vittoria a Monaco 1981
L'ultima vittoria

mercoledì 9 novembre 2011

I primi passi nell'indagine del cervello

Con questo post apriamo la sezione di Neuroscienza e Neuroetica, trattata da Mariangela Lentini e Corinna Maria Traversa, che speriamo possa appassionarvi man mano che verrà ampliata. Può sembrare infatti un ambito di difficile comprensione o interesse per noi giovani ma conoscere il funzionamento del cervello e i problemi etici a questo connessi può essere senza dubbio un'occasione di arricchimento e di riflessione per tutti. Buona lettura!!

I PRIMI PASSI NELL'INDAGINE DEL CERVELLO
L’intuizione che modificazioni all’interno della scatola cranica potessero comportare modificazioni del carattere e della personalità risale, addirittura, a 2000 anni prima della nascita di Cristo. I primi a fornircene un esempio, anche se diretto a scopi molto diversi da quelli odierni, furono gli Egizi. Essi eseguivano abitualmente trapanazioni craniche sul faraone morente per permettere ai demoni imprigionati nel corpo del faraone e responsabili della sua agonia di trovare una via di uscita attraverso il foro praticato nel cranio.
Nel IV secolo a.C. fu Aristotele a tentare di dare una collocazione alle nostre funzioni vitali individuando le sedi delle forze vitali dell’uomo in una serie di ventricoli cerebrali.
Durante il I secolo d.C. Scribonio Largo nelle sue “Computationes Medicae” ci fornisce, invece, il primo esempio di stimolazione elettrica cerebrale eseguita con metodi naturali. A parere del medico romano, infatti, la scossa elettrica causata dall’applicazione di torpedini sul corpo umano aveva effetti benefici nel combattere l’emicrania.
Per quanto riguarda i primi tentativi di localizzare in specifiche zone del cervello le funzioni del corpo dobbiamo aspettare il IV secolo d.C., periodo nel quale Agostino ipotizzò che il cervello fosse diviso in tre ventricoli, ognuno addetto a una determinata funzione del corpo umano. Tuttavia bisognerà attendere Alberto Magno (1200) per avere la prima collocazione specifica dell’intelletto nella zona anteriore del cervello.
Un ulteriore passo in avanti si avrà nel 1600 quando Cartesio elaborerà il suo dualismo, introducendo l’idea che la mente ha caratteristiche proprie che il corpo non può avere. A parere del filosofo, infatti, la res cogitans è una sostanza immateriale in interazione problematica con la res extensa, la materia di cui è costituito il nostro organismo. Il “mentale” viene, quindi, a caratterizzarsi, in opposizione al fisico, per l’unità( il flusso di coscienza e il focus dell’attenzione sono convergenti), l’immediatezza (conoscenza introspettiva diretta dei nostri stati interni), l’immunità dall’errore rispetto all’ascrizione degli stati (uno stato che ci sembra nostro non può che essere nostro) e il carattere qualitativo (l’effetto che fa essere se stessi o esperire certe sensazioni).
Sarà Leibniz nel 1700 a porre una solida argomentazione contro l’idea riduzionalistica del mentale attraverso la metafora del mulino: si immagini di essere ridotti alle dimensioni di un insetto piccolissimo, potremmo allora entrare nel cervello come in un gigantesco mulino meccanico esaminandone in dettaglio il funzionamento, e studiandone gli ingranaggi. Per il filosofo, insomma, il cervello, in quanto oggetto fisico, sarebbe simile a una macchina complessa i cui elementi costitutivi sono oggetti materiali e non pensieri o idee che appartengono a una diversa sfera del reale.

LA NASCITA DELLE NEUROSCIENZE
Le Neuroscienze nascono, nella loro forma più rudimentale, nel 1800 attraverso lo studio di pazienti affetti da deficit funzionali le cui cause erano riconducibili a lesioni corticali.
Uno dei casi più famosi fu documentato nel 1848, anno in cui un operaio statunitense, Phineas Gage, posizionò una carica esplosiva in una cavità rocciosa utilizzando una sbarra di metallo di 6 kg. A causa dell’esplosione, però, la sbarra perforò il cranio dell’uomo uscendo dalla parte opposta. L’uomo non perse mai conoscenza e guarì fisicamente in meno di due mesi; il suo carattere, però, cambiò totalmente, da lavoratore scrupoloso e attento qual era divenne irrequieto, svogliato e aggressivo. Il cambiamento di carattere fu attribuito alle lesioni subite dalla corteccia cerebrale prefrontale e, in particolare, dalle aree deputate alla mediazione tra componenti emotive e componenti cognitive dell’azione, mediazioni cruciali per le decisioni che comportano un aspetto morale.
Nel 1861, invece, il fisiologo francese Pierre Broca ci fornisce il primo esempio di studio neuroscientifico attraverso l’analisi di un paziente che, pur comprendendo perfettamente il linguaggio, non era, però, in grado di articolare parole di senso compiuto. In seguito ai risultati forniti dall’autopsia Broca riuscì a identificare la causa del deficit in una lesione della parte posteriore del lobo frontale sinistro. Solo dopo aver comparato diversi casi simili Broca poté, nel 1864, identificare il lobo frontale sinistro come area della parola.
Mentre sarà lo studio condotto nel 1879 dal tedesco Carl Wernicke che permetterà di attribuire la causa della mancata comprensione del linguaggio a una lesione dell’area temporo-parietale sinistra.
Sino a questo periodo, quindi, l’indagine sul cervello umano era condotta utilizzando esclusivamente due metodi d’indagine:
· Sezionare l’organo post-mortem studiandone l’aspetto e l’anatomia ma senza poter ottenere informazioni sul suo funzionamento;
· Studiare come i traumi cerebrali causati da incidenti modifichino il comportamento delle persone.
Queste osservazioni, però, non sono ancora etichettabili come veri esperimenti, permettono solo di trarre conclusioni molto generali su quale zona del cervello sia importante per quale funzione dell’organismo.
Solamente nel corso del XX secolo con l’avvento delle nuove tecnologie di neuro immagine è stato possibile studiare il cervello mentre è ancora in uso, “fotografandone” l’attività e tracciando mappe della corteccia cerebrale. Oggi esistono molte tecniche per studiare il cervello, ma ce ne sono due che sono tra le più diffuse:
· L’elettroencefalogramma (Eeg) utilizza un piccolo casco all’interno del quale molti elettrodi misurano la presenza dei piccoli campi magnetici che si creano quando le cellule neurali si attivano;
· La risonanza magnetica funzionale (fMRI), sfruttando la proprietà magnetica delle cellule di emoglobina nel sangue, ci permette di capire quali parti del cervello stiano ricevendo più ossigeno, cioè quali parti del cervello siano più “attive” in un determinato momento.
Molto importanti sono anche la tomografia ad emissione di positroni (PET), che permette di misurare alcune aree cerebrali in corrispondenza temporale all’esecuzione di compiti cognitivi, e la stimolazione magnetica transcranica che permette di disturbare l’attività di determinate aree cerebrali per valutare il corrispondente cambiamento delle funzioni mentali che a tale area si ritengono associate.
Un recente studio su persone affette da epilessia del lobo temporale refrattaria a ogni cura mostra come i progressi nel campo delle neuroscienze siano dovuti principalmente alle nuove tecniche sopra citate. Grazie alla risonanza magnetica funzionale sono stati analizzati gli schemi di codifica mnemonica di immagini, parole e volti prima e dopo l’operazione chirurgica di resezione del lobo temporale anteriore, un intervento mirato a ridurre i gravi sintomi dell’epilessia. Tuttavia i risultati hanno riscontrato un peggioramento della memoria verbale in tutti i pazienti sottoposti a resezione del lobo temporale anteriore destro. In studi di questo tipo trovano conferma la localizzazione di alcune funzioni, la loro tracciabilità strumentale e l’aspetto di predizione che permette di fare un passo oltre l’ipotesi iniziale di correlazione tra attivazione cerebrale e prestazione cognitiva.



Lentini Mariangela e Traversa Corinna Maria.