domenica 30 settembre 2012

BUON COMPLEANNO UOMO MEDIOCRE!


30 Settembre 2012 : L’uomo mediocre compie un anno!!

Proprio così, oggi è il primo (e speriamo non anche l’ultimo!) compleanno de L'Uomo mediocre. Cosa abbiamo fatto in questo lungo e intenso anno? Forse nulla di buono, forse invece qualcosa di importante o per lo meno interessante per alcuni di voi.
Come avete avuto modo di vedere, ci siamo occupati di molte cose:
 
- Di musica, con la rubrica STAY TUNED!, inaugurata con il nostro primissimo post (3 ottobre 2011: I PINK FLOYD E SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS’ CLUB BAND http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/i-pink-floyd-e-sgt-peppers-lonely.html ) e che presto riprenderà le pubblicazioni, e gli articoli di Storia d'Italia in musica ( 30 ottobre 2011: DALL'UNITA' ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/storia-ditalia-in-musica-dallunita-alla.html );     
 
- Di teatro (29 dicembre 2011: L’ESSENZA DELLA MODERNITA’- Pirandello e i Sei Personaggi in cerca d’autore http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/12/lessenza-della-modernita.html ) e cinema, con le recensioni di Visioni Alternative, rubrica aperta il 19 ottobre 2011 con il film Vuoti a rendere (2007) http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/visionialternative-vuoti-rendere-2007.html ;
 
- Di filosofia, a partire dal 9 ottobre 2011 con L’INDIPENDENZA NATURALE E L'ORIGINE DEL MALE IN JEAN-JACQUES ROUSSEAU, http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/lindipendenza-naturale-e-lorigine-del.html , e con articoli come OGNI SOSTANZA E' COME UN MONDO A PARTE, del 25 luglio 2012  http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/07/ogni-sostanza-e-come-un-mondo-parte.html
 
- Di arte, letteratura e televisione (11 ottobre 2011: INTRODUZIONE ALLA BOHÈME, UN MODO DI VIVERE E CONCEPIRE L'ARTE http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/introduzione-alla-boheme-un-modo-di.html ; 15 dicembre 2011: IL TEMPIO INDIANO http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/12/il-tempo-indiano.html ; 24 ottobre 2011: UN AMORE A TUTTA BIRRA http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/un-amore-tutta-birra.html );
 
- Di storia (interessantissimo l’ultimo post, del 9 luglio 2012, UNA GUERRA DIMENTICATA http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/07/una-guerra-dimenticata.html );
 
- Di scienza ( come per esempio nel post del 26 ottobre 2011, E' NATO PRIMA L'UOVO O LA GALLINA?! http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/e-nato-prima-luovo-o-la-gallina.html ), di neuroetica (21 novembre 2011: STORIA DELLA NEUROETICA http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/11/storia-della-neuroetica.html );
 
- Di editoria, con gli appuntamenti della rubrica Esperimenti di editoria ( 12 maggio 2012: SCHEDA VENDITORI http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/05/esperimenti-deditoria-scheda-venditori.html ), ma anche di videogiochi (13 dicembre 2011: WARHAMMER 40K- SPACE MARINE http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/12/warhammer-40k-space-marine.html ), graphic novels (29 gennaio 2012: FROM HELL: IL MECCANISMO DELLA PAURA http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/01/from-hell-il-meccanismo-della-paura.html ), racconti brevi realizzati dai nostri collaboratori (l’ultimo è del 14 settembre 2012: DA ANTIGUA A LARROCHE http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/09/da-antigua-larroche.html ).

E abbiamo cercato di dare anche spazio all’“attualità”e ai problemi sociali, occupandoci dell’ultimo censimento (25 gennaio 2012: CHE COS'E' IL CENSIMENTO? VE LO SPIEGA UN RILEVATORE ISTAT http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/01/che-cose-il-censimento-ve-lo-spiega-un.html ), del ruolo della televisione e della retorica impiegata per dare informazioni (5 novembre 2011: PERDONATE LO SFOGO... http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/11/perdonate-lo-sfogo.html e 16 maggio 2012: IL POTERE DEFORMANTE DELLA RETORICA http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/05/il-potere-deformante-della-retorica.html ), dell’importanza di ricordare il passato ( 1 marzo 2012: RISPOSTA A LUPOGRIGIO77 http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/03/risposta-lupogrigio77.html ) e del modo tutto personale con cui i nostri anziani vi restano attaccati ( 2 gennaio 2012: QUANDO GLI ANZIANI DICONO “VIVA IL FASCISMO!” http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/01/quando-gli-anziani-diconoviva-il.html ), dell'obesità e dell'anoressia (17 gennaio 2012: OBESITA' VS ANORESSIA? http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/01/obesita-vs-anoressia.html ), del ruolo della politica nella vita dei giovani ( 2 febbraio 2012: LA POLITICA OGGI? http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/02/la-politica-oggi.html ).

Ma non è mancato nemmeno lo sport: dalla formula 1 ( 11 novembre 2011: SEMPLICEMENTE GILLES http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/11/gilles-vileneuve-e-uno-di-quegli.html e 18 marzo 2012: THE ICEMAN’S WAY http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/03/icemans-way.html) al calcio soprattutto, con le due rubriche Verso Euro 2012, inaugurata il 15 gennaio 2012 con l’articolo sulla Germania http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/01/verso-euro-2012-germania.html, e A ritmo di musica: gli inni delle nazionali partecipanti a Euro 2012, in cui ci siamo occupati della storia degli inni nazionali di tutte le squadre che hanno partecipato a questo Europeo che ci ha fatto sognare e piangere ( 1 giugno 2012: POLONIA E GRECIA http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/06/ritmo-di-musica-gli-inni-delle-nazioni.html )

E poi ci sono articoli “inclassificabili”, o meglio, che rispondono a molte etichette: pensiamo a quelle del 16 aprile 2012, riguardante IL CRISTIANESIMO IN ARMENIA http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/04/il-cristianesimo-in-armenia.html , o a UN’ESTATE V.A.O.V.! del 21 agosto 2012 http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/08/voglio-parlarvidellesperienza-che-ho.html ; mentre altri hanno uno scopo ben preciso, come i nostri discorsi di laurea, raccolti nella sezione Discorsi Tesi (il primo: 11 dicembre 2011, EPISODI DI MEDIOEVO http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/12/episodi-di-medioevo.html ).
 
Che dire, ci sono ancora molte cose da fare e da migliorare. Per riuscirci speriamo che vogliate continuare a leggerci e darci consigli, in particolare riguardanti gli argomenti da trattare e le modalità con cui scrivere, così da realizzare articoli meno noiosi e complicati possibile!

Grazie di tutto e… appuntamento al prossimo post!

Lo staff

venerdì 14 settembre 2012

DA ANTIGUA A LARROCHE


La prima bestemmia di Tobaco Steerz fu per il suo magro rancio –una brodaglia melmosa che puzzava più dei nostri piedi-, portatogli via da un topo.

Tobaco Steerz, in realtà, non si chiamava davvero così, ma qualcosa tipo Hermann o un altro nome crucco; Tobaco era il nome che aveva preso quaggiù nei Caraibi, quando, naufragato sulla costa meridionale di un’isola delle Antille, trovò un intero campo di piante di tabacco. Si mise in accordi con il proprietario, un indigeno con la pelle color arrosto bruciato, e rilevò il terreno, iniziando a rifornire i Caraibi del suo tabacco di altissima qualità, diventando presto il più importante trafficante di fumo della regione.

All’altro tizio andò altrettanto bene, dopo essersi preso quattro o cinque pistolettate da Steerz, fu recuperato da una nave sulla quale era imbarcato un dottore, che lo imbalsamò e lo fece diventare una star negli spettacoli di vaudeville macabre a Nancy e dintorni, nella vecchia Europa.

Per diversi anni, Tobaco Steerz, fu una sorta di autorità indiscussa, rispettato sia da filibustieri che dalla Marina, tanto da farsi costruire una capanna di canne a tre piani nella sua isola (che divenne letteralmente sua, dopo aver dato il giusto compenso a tutti i locali che lo richiesero, se mi capite), alla quale in molti correvano a chiedere favori.

Poi arrivarono gli inglesi, e portarono nel mercato la loro roba, erba fina coltivata in Giamaica, e il regno di Tobaco Steerz andò disgregandosi, e lui perdendo di peso nella società caraibica.

Ma, se era finito in quella topaia umida, giù nella prigione di Antigua, lo doveva, a suo dire, alla sua più grande invenzione: combinando foglie di diverse piante, con una macinazione sopraffina e una carta che si era fatto portare appositamente dall’Egitto da un suo cugino mercante, aveva creato il più grande e potente sollazzagente della storia, quello che lui chiamava el Grande Cigarro.

Ovviamente, diceva sputazzando qua e là, gli inglesi non potevano permettersi che lui mettesse el Grande Cigarro sul mercato, o avrebbero perso il loro potere, così diedero ordine alla Marina di arrestarlo.

E, raccontando per la quarta volta dall’inizio della mattinata quella storia, bestemmiò per la seconda volta.

La storia di come io capitai nel suddetto cesso con le sbarre d’acciaio, invece, si ricollega ad un’assurda caccia al tesoro che intrapresi più per mancanza di fondi che per reale interesse, assieme ad un tale, Teddy Crocker-Tilly, che si credeva un pirata ed invece era solo un cazzone.

Il suo piano, che se noi dell’equipaggio avessimo conosciuto col cazzo che ci saremmo imbarcati, era di andare a depredare le isole Cayman, terra franca dove i grandi pirati del passato, un volta arricchitisi a sufficienza, venivano a svernare e a godersi il frutto dei loro dobloni dorati (non senza, sia chiaro, l’immancabile presenza di ex-governtori coloniali o capitani di Marina, divenuti tutti amici fraterni nelle isole della libertà). Quelle isole, purtroppo per lui (e per noi), erano più protette della passera della regina di Francia in tempo di guerra, e l’impresa si rivelò per noi un massacro: quasi tutto l’equipaggio morì una volta scesi a terra; di quelli che si salvarono, il capitano auto-nominato Teddy Crocker-Tilly, in arte Barbafucsia (poiché, al momento di scegliere il nome, quello era l’ultimo colore da barba senza copyright), fu riportato a Bristol e impiccato per le palle, all’usanza di Haiti. Altri due o tre, se non erro, sopravvissero alla battaglia, e divennero probabilmente schiavi di qualche nobiluomo delle Cayman.

Io, con il coraggio che da sempre mi contraddistingueva, scatarrai un paio di parole in spagnolo, e mi dichiarai prigioniero politico. Non avendo documenti con me, ma non volendo rischiare un incidente diplomatico, i compatrioti inglesi mi scaricarono nella discarica umana della prigione di Antigua, il cui pavimento era tappezzato dalle carni imputridite dei miei predecessori.

Quel fetido cane bavoso di un olandese che divideva con me quella fogna bestemmiò ancora, ma stavolta si trattava solo di un suo modo per iniziare un nuovo discorso.

Inizialmente non prestai molta attenzione, finché quel topaccio rinsecchito, da sotto quella barba di lana di vetro, blaterò di un modo per fuggire. Disse che, prima che lo prendessero, aveva dovuto fare una consegna speciale della sua merce su un isolotto non meglio identificato nelle Grenadine, in quel territorio che era ormai diventato terra di nessuno, da quando i francesi si erano accorti di avere ben altri problemi nel loro recinto per poter anche badare a quelle palme lontane. Stava lì, infatti, la base della banda di Guichardaz Larroche, mangiarane puzzolente nato da qualche parte nel golfo del Messico, che aveva assunto una certa fama nei Caraibi per essere riuscito a comporre un più che dignitoso equipaggio solo con i bastardi che gli erano nati dalle varie puttane dei Sette Mari.

Steerz mi rivelò che, in cambio di una percentuale sui suoi prossimi affari, Larroche sarebbe dovuto intervenire a liberare l’olandese defecante in caso di arresto, e che, quindi, i rinforzi erano in arrivo.

Non passò molto prima che i cannoni della Bernarda Lussuriosa, la nave di Guichardaz Larroche, iniziarono ad echeggiare nella notte di Antigua, quasi come le note del celebre pirata-musicista Tramontana Steves.

Buttandoci a terra, riuscimmo ad evitare la palla di cannone che abbatté il muro esterno della nostra prigione, aprendoci la strada per la libertà.

Steerz, urlando come un novizio alla sua prima scopata, si lanciò di sotto, verso il mare. Io preferii calarmi con maggiore cautela, reggendomi ai mattoni sporgenti della facciata esterna del carcere. Tutt’attorno a me, cannonate e rumore di bitume che si sgretolava, qua e là qualche urla di un figlio di un cane che veniva spazzato via da una bombarda.

Arrivato al termine della mia discesa, salutai per l’ultima volta Tobaco Steerz, la cui carcassa si era volgarmente sfracellata contro gli scogli acuminati, e mi buttai in mare, nuotando verso la libertà.

Nella foga della fuga, se mi passate il gioco di parole tipicamente marinaresco, mi avvidi troppo tardi di aver commesso un piccolo errore: mi ero scordato di non saper nuotare.

Annaspando come una vongola nell’olio sfrigolante, nel giro di pochi istanti mi ritrovai a sprofondare inesorabilmente sul merdoso fondo del mare, quando una sirena all’improvviso mi afferrò per il colletto della sudicia camicia, e mi trascinò su. Il mio innato senso della ragione, però, mi portò subito a capire che la mia benefattrice non poteva essere una creatura fantastica, anche perché per tutta la risalita non schiodai gli occhi da quel magnifico paio di chiappe sode, che di simili ne avevo viste solo alcune, quando lavoravo per i portoghesi e traghettavo giovani indossatrici dalle coste del Brasile al porto di Marsiglia.

Vomitando acqua salmastra, mi trascinai sul ponte di coperta della Bernarda Lussuriosa, mentre una delle poche figlie femmine di Guichardaz Larroche, alle mie spalle, mi mollò prima due sganassoni e poi una slinguata per averle fissato così insistentemente il culo.

Sei tu Tobaco Steerz, mi chiese Cariba Larroche, soffiando fuori quelle parole da due labbra talmente carnose che, se avessi voluto, avrei potuto usarle in tutta sicurezza come imbarcazione per tornarmene a Portorico. Fissai i suoi occhi da gatta in calore per quasi tre minuti, prima di accorgermi che mi avrebbe tagliato le palle se non le avessi risposto presto. E ovviamente dissi di sì, che certa gente, se contraddetta, è anche capace di incazzarsi.

La nave dalle vele rosse virò, sparando altri tre colpi verso la prigione, che ormai poteva contenere a malapena la puzza del suo direttore, e fece dietro front, vittoriosa.

Fui portato, allora, verso prua, e sbattuto ai piedi del glorioso capitano Guichardaz Larroche.

Piedi…si trattava piuttosto di due bastoni di legno piantati nelle cosce! E non era finita qui: alzandomi in piedi, notai che entrambe le mani del capitano erano, in realtà, due uncini d’acciaio a cinque punte; l’occhio destro era coperto da una benda verde muschio, mentre il sinistro era adornato con un monocolo dai bordi fluorescenti, e gli mancava l’orecchio sinistro.

In pratica, l’unica cosa che gli funzionava, in quell’ammasso di protesi, era il suo ben noto batacchio, che varie voci descrivevano ancora attivo nei bordelli più apprezzati da noi capitani di ventura.

Conciato com’era, non fu in grado di mettere in dubbio la mia identità, anzi mi trattò come un socio d’affari e si mise a parlare con me del glorioso futuro della nostra società. Parole alle quali io risposi con dei vaghi cenni d’assenso, pensando a un modo per cavarmi fuori da quella situazione.

Guichardaz Larroche, muovendosi macchinosamente sulle sue due grucce, si voltò e mi indicò la porta dall’altra parte del ponte, dicendomi che potevo pure andare a riposarmi e mangiare qualcosa.

La sua nave era la più terrificante imbarca-calamari che si potesse vedere in quegli anni per i Caraibi, piena zeppa dei ricordi di ognuna delle mille fottutissime avventure del suo capitano, dalla punta di uno scoglio delle Bermuda, agli ombrellini da cocktail dell’Avana; il suo equipaggio il peggio assortito guazzabuglio di filibustieri che avesse mai solcato i mari, i già citati figli illegittimi del capitano Larroche, nati in ogni fottutissima insenatura tra le cosce dei Sette Mari in cui il suo piratesco uccello fosse abilmente approdato.

Non ebbi il tempo di abituarmi alla puzza multiculturale che si respirava sulla Bernarda Lussuriosa, che le mani di Cariba Larroche, alla maniera dei polipi giganti che abitavano il Pacifico, mi agguantarono selvaggiamente, e mi trascinarono giù in cambusa.

La giovane figlia del capitano, tenendo fede alla fama paterna, quasi senza parlare iniziò a spogliarmi, forse sovraeccitata dall’eroismo del salvataggio, pronta ad abusare più e più volte di me. Ed io, ovviamente, le diedi l’impressione di avere la situazione (e non solo quella) in mano, e la lasciai fare.

Quando avevamo ormai fatto quasi completa conoscenza, la porta della cambusa si spalancò, facendo emergere la figura del tremebondo Merceo Larroche, fratello maggiore di Cariba, nonché cuoco di bordo, nonché segretamente innamorato proprio della sorella (la quale, va detto, non tanto segretamente si era concessa a Merceo, durante le lunghe traversate del mare).

Colpa della sfiga, la prole di Guichardaz Larroche poteva vantare appena cinque donne, contro una miriade di maschi. E, a causa dell’autarchica scelta del capitano di comprendere nell’equipaggio solo i suoi bastardi, quelle cinque femmine erano una risorsa preziosa e piuttosto contesa sulla nave.

L’idea che la mia sirena dai capelli corvini e le forme predatrici avesse già giaciuto in così tanti letti, per giunta dei suoi stessi fratelli, non mi dava il benché minimo fastidio, tanto che mi diedi da fare per riprendere da dove avevamo terminato. Ma Merceo Larroche, vomitando vocaboli tra il francese e lo spagnolo dei Caraibi (che, parola di un mio vecchio compagno di ventura, è alquanto simile alla lingua che si può udire nei pressi del porto di Bari, nella Vecchia Europa), sfogò tutta la sua alacre gelosia e, scagliandoci contro un affettaporco, ci costrinse a separarci e rimandare ad altro momento i nostri convenevoli.

Rotolando all’indietro e ricadendo dietro al bancone, potei solo udire le urla nella stessa ignobile lingua di Cariba, che finì per prendere la sua pistola a sparare al fratello in pieno petto.

Merceo Larroche fu sbalzato indietro, sfondando il muro di legno e fermandosi contro i barili di polvere da sparo nella stiva, facendoli cadere l’uno contro l’altro, ed innescando una reazione a catena in tutta la stiva, fino a far cadere gran parte del contenuto dell’ultimo barile in uno dei cannoni.

Ma il cuoco di bordo era colpito ma non sconfitto, si rimise in piedi con una scorreggia, mentre tutt’attorno il resto dell’equipaggio s’affollava a scommettere sul vincitore dello scontro, e prese un’altra mannaia dal suo cinturone.

Dal buco che aveva fatto nella parete, si affacciò l’incazzatissima Cariba, pronta a sparare il secondo colpo.

Merceo non ci penso su troppo e lanciò la sua arma attraverso tutta la stanza, centrando esattamente in mezzo agli occhi Cariba, la quale, zampillando sangue come una fontana dalla fronte, in un cazzutissimo spasmo muscolare, premette il grilletto, centrando in pieno la miccia del cannone, più corta della gonna di una puttana delle Barbados.

Il cannone sparo una bombarda che si sentì fino in Melanesia, scattando all’indietro e colpendo Merceo Larroche. Sentii distintamente il rumore delle sue ginocchia sbriciolarsi come una galletta spagnola, mentre quella massa ormai informe fu sbalzata dall’altro lato della stiva, sfondandone l’altra parte e finendo fuoribordo, in acqua.

L’odiosa quanto violenta perdita di due dei figli più amati del capitano, fece pericolosamente precipitare i miei rapporti col temibile Guichardaz Larroche, il quale urlò con tutta la voce che aveva in corpo di trascinarmi sulla passerella.

Un essere umano sano di mente pensa a solo due cose, in un momento simile: al vestito che sta indossando, e speriamo che per gli squali sia giorno di riposo oggi.

Sfortunatamente per me, sotto il bordo di quell’asse di legno cigolante si era già formato un circolo di pescecani famelici, e la mia camicia era sudicia e vecchia di sei mesi.

Nel frattempo, la palla di cannone che era partita nella colluttazione di prima, aveva attraversato il cielo dei Caraibi, in direzione di Caracas, dove si era concessa al rocambolesco abbraccio di uno dei galeoni della Marina spagnola, che era colato a picco come un savoiardo nel latte.

Alla scena assistette il pappagallo Gomez, uno dei volatili della scuderia di Chavez Pizquàn, un balordo di Panama che aveva creato una sorta di agenzia di informazioni dei Caraibi tramite dei pappagalli spia sparsi in tutta la regione. Il pappagallo Gomez, in realtà a libro paga di Larroche, svolazzò più forte che poté verso la nostra nave, arrivando giusto in tempo per salvarmi il culo.

Distraendo il capitano con l’avviso dell’approssimarsi della flotta della Marina spagnola, mi diede il tempo di spostarmi dalla passerella e mescolarmi tra la folla.

Quando Guichardaz Larroche si voltò, non vedendomi, afferrò il primo che si trovò a tiro e, scambiandolo per il sottoscritto, lo piombò e lo diede in pasto agli squali. A nulla valsero le proteste degli altri membri dell’equipaggio, come il povero Bartolomew Larroche che, cercando di attirare l’attenzione del padre su di me, si sentì dare del cane putrefatto e vendifratelliatradimento, prendendosi una palla in fronte dall’inviperito genitore.

Disceso nuovamente nella stiva, prima che i bastardi senza sbornia venissero a farmi quel che non era riuscito a fare il capitano Larroche, recuperai una ciambella di salvataggio, trofeo di una scorribanda lungo le coste di Los Angeles, nella quale Larroche aveva depredato i bungalow dei ricchi villeggianti, mi lanciai in mare, usando un pezzo di legno come remo.

Alle mie spalle, poco dopo, potei udire i rumori della battaglia: la Marina spagnola doveva aver raggiunto la Bernarda Lussuriosa, ed aveva iniziato a mettere alla prova il suo nome con i suoi cannoni superdotati.

Non saprei dire a chi avesse arriso la sorte, ma, considerando l’ingegno affinato dalla difterite del capitano Larroche, la sproporzione delle forze in campo, e il fatto che l’acqua nella quale sguazzavo si colorò presto di un rosso scarlatto, sono portato a pensare che la giustizia dei Caraibi avesse reclamato un altro bucaniere.

Del Grande Cigarro non si seppe più nulla, anche se leggende narrano di una spedizione dal Canada per recuperarlo e barattarlo in cambio di una stufa coi vicini inglesi.

Per quanto riguarda me, dopo quella volta mi ripromisi che mi sarei dato alla legalità e avrei abbandonato ogni tipo di peregrinazione marinara.

Un mese dopo, a onor del vero, mi imbarcai come rattoppavele su di una nave di piratesse lesbiche in cerca di misteriosi giocattoli sessuali Inca di oro massiccio, riuscendo a farmi accettare, unico uomo a bordo, raccontando loro di essere stato ordinato sacerdote e di poter, eventualmente, officiare matrimoni tra le componenti dell’equipaggio.

Ma questa è un’altra storia.

Valerio Moggia

domenica 9 settembre 2012

Narciso e la sua superficie- Parte IV

   4. Cosa vede Narciso su quella superficie?

Un breve ritorno sulle versioni di Conone e Ovidio prima di procedere con le loro modificazioni e stravolgimenti. Del breve racconto di Conone cui si è accennato, è da sottolineare che mentre Narciso si guarda nella fonte, il giovane diviene «assurdamente amante di se stesso». Conone non cerca spiegazioni che sviino dal fatto che l’immagine nella fonte è quella del giovane stesso, né dice nulla sul fatto che egli ne sia o meno consapevole, (e si presume perciò che Narciso ne sia consapevole). Tuttavia è assurdo che Narciso ami la propria immagine, è questo un atto che trasgredisce le leggi dell’amore le quali impongono di direzionare il proprio amore su un altro essere umano. L’amore di sé suscita dunque la giusta punizione di Eros.

Ovidio invece muove Narciso tra due momenti, nel primo non si riconosce nel giovane che compare nella fonte, nel secondo capisce il terribile inganno cui è stato costretto, nondimeno la sua anima continua per l’eternità a rimirarsi nelle acque dello Stige. Narciso rimane intoccato e intoccabile nel suo atteggiamento, Eco non lo poteva nemmeno abbracciare quando era in vita, e ora sembra che nemmeno la dolorosa e triste morte possano far nulla nel distoglierlo dal suo intento.

Questo atteggiamento eufemisticamente testardo ha colpito notevolmente fin dall’inizio i cultori che si sono dedicati a rielaborare il racconto.

Il retore del III d.C. Filostrato il Vecchio ha lasciato un testo dal titolo Immagini, che vuol cimentarsi nella descrizione a parole di quadri che forse erano realmente presenti sulle pareti di una villa nei pressi di Napoli, e tra questi anche uno raffigurante Narciso1. Mentre procede nella descrizione, Filostrato si pone una domanda retorica circa quello strano giovane che rimira affascinato il suo riflesso: «Ebbene, pensi forse che la fonte si metterà a discorrere con te?». Incredulo e quasi divertito sembra Filostrato nel porre una domanda che evidenzia come Narciso quasi neanche si renda conto di ciò che sta facendo. Deviazione significativa dal testo ovidiano che invece mostra che il giovane alla fine ha compreso il suo abbaglio iniziale. Il guardare di Narciso non è compreso, è ritenuto folle. Filostrato prova a mettere in parole il quadro della villa, eppure il guardare di Narciso sfugge ai concetti, al linguaggio, è qualcosa di folle, strano, di non compreso e non comprensibile.

La necessità di trovare una spiegazione all’atteggiamento del giovane cacciatore ha tenuto occupati diversi intellettuali. Pausania è un viaggiatore del II d. C. che ha lasciato uno scritto periegetico, con lo scopo cioè di raccogliere informazioni circa popoli e luoghi, in particolare quelli greci. Tra i luoghi anche quelli intorno la città di Tespie, in particolare un canneto chiamato «fonte di Narciso»2 dove un «idiota» si guarda nello specchio d’acqua e si innamora dell’immagine, incapace di distinguere tra uomo e immagine di uomo. Narciso è talmente «idiota» che la storia così com’è non può essere veritiera, quindi Pausania riferisce una versione più attendibile. Narciso ha ora una sorella gemella a lui del tutto identica, spesso cacciano insieme, se ne innamora. Quando Narciso si disseta alla fonte, vede in essa la propria immagine, lo sa, ma gli è di consolazione vedere in essa quella della sorella amata. Ecco così che il comportamento di Narciso è comprensibile, ha un senso! La modificazione dell’immagine nella fonte o l’accentuazione di ciò che Narciso crede di vedere rispetto a ciò che vede hanno lo scopo di dare una spiegazione e una costruzione teorica sostenibile della situazione. Si tratta di uno schema che non ha nel solo Pausania il fautore.

Nel 1550 Jean Ruz pubblica un poemetto in versi, Description poetique de l’histoire du beau Narcissus3. Ruz pensa a Narciso come talmente bello e pieno di fascino, che nessuno, nemmeno Giove (che per lui avrà in odio persino Giunone) e Venere sanno resistergli. Venere, colpita dalle frecce del figlio Cupido, cerca in ogni modo di fare colpo, si traveste persino da cacciatrice, ma il bel giovane ha altre idee e la disdegna , addirittura fa finta di non vederla. Ma Venere non è dea da arrendersi facilmente, perciò riesce a nascondersi nella fonte dove Narciso era solito rimirarsi; mentre egli si chiede cosa ci sia di non proprio uguale sulla superficie riflettente, Cupido lo colpisce con la freccia. Ma Narciso non si innamora di Venere celata, ma della propria ombra. L’unico risultato che ottiene la dea è perciò quello di far soffrire d’amore Narciso, un poco consolante “mal comune, mezzo gaudio”. Così Narciso, prima dell’incantesimo di Cupido, guarda la propria immagine, affascinato ma non proprio innamorato, in quanto amore lo avrà solo per la propria ombra. Grazie o a causa di Cupido Narciso entra a far parte del mondo dell’amore non ricambiato, quando in precedenza se ne stava nel suo guardarsi a sé stante, rifiutante relazioni e contatti invasivi da parte di altri.

Altra evoluzione del tema si ha con Calderòn de la Barca, uno dei grandi drammaturghi dell’età barocca. Tra le sue commedie, Eco y Narciso, del 16614. Lirìope, che questa volta si unisce con Zefiro, va dal mago Tiresia per avere una profezia sul nascituro: egli sarà bellissimo ma morirà per aver udito o veduto una bellezza, per odio o per amore. Il consiglio del mago è quello di impedire a Narciso di vedere e udire. Lirìope, che riesce a proteggere il figlio per una dozzina d’anni, è una maga dall’aspetto mostruoso che vive isolata; viene però catturata da una comunità che festeggia il compleanno di Eco, e così racconta loro la sua storia. Ma quando tornano nelle caverne in cui vivono, Narciso è scomparso. Ed è ovviamente Eco a ritrovarlo, lui se ne innamora grazie alla di lei voce ma scappa ricordando i moniti della madre. Lirìope toglie la voce a Eco tramite un filtro. Narciso nel frattempo trova una pozza d’acqua e si innamora della sua immagine ancor più di quanto avesse appena fatto con Eco, tuttavia crede che si tratti di una ninfa d’acqua, non di sé. La mossa di Eco è quella di porsi alle sue spalle, e così Narciso cade nella confusione visiva e uditiva più totale: vede una ninfa d’acqua, e Eco ha due corpi! Ma è Lirìope a fargli comprendere l’errore, a sua volta piazzandosi alle spalle del giovane, che capisce così che la bellezza che tanto ama non è che la propria. Si tratta di un intrigo molto complesso, sfaccettato, dove Narciso si trova in balìa degli eventi non appena entra in contatto con quel mondo da cui la madre su consiglio di Tiresia l’aveva tenuto lontano. Nella fonte il giovane vede qualcun altro, una ninfa, Eco, Lirìope e solo alla fine se stesso. È l’amore a prevalere in lui, il relazionarsi all’altro, sia pure quest’altro una persona in carne ed ossa o il suo riflesso. La morte che coglie Narciso in seguito a un terremoto pone fine alla confusione di cui è preda. Calderon mette in mostra una trama che si staglia su diversi livelli, e questo è indice dell’inventiva poetica che si sviluppa a partire da una tematica di base arcinota. Narciso nella fonte riconosce il proprio riflesso solo nell’ultimo e drammatico atto, e ciò lo porta alla morte, una morte da cui sorgerà il classico fiore, ma non un continuare a guardarsi nell’aldilà come in Ovidio. Il gioco tra sensazioni, conoscenze, sentimenti, raggiunge un grado molto complesso.

La volontà di trasformare il guardarsi di Narciso in una storia d’amore non è esclusiva di Caleròn. Basti citare il compositore tedesco Gluck5, che conclude il suo dramma lirico su Narciso con un trionfo d’amore, per cui Eco resuscita dagli Inferi, Narciso evita per un soffio di suicidarsi col pugnale, e si giunge così a un gioioso lieto fine. Ma casi come questo rappresentano uno slittamento dalla tematica fondamentale che vede il giovane specchiarsi nella fonte, per accentuare il lato dell’innamoramento. Si tratta di un indirizzo preciso che viene affibiato al racconto in modo da farne una storia d’amore. Ma lo specifico di Narciso sta forse, come Landucci e Mugellesi mostrano6, nel fatto che Narciso rifiuta proprio questo fondersi con l’altro. La storia di Narciso non può essere ricondotta tout court a una storia d’amore, in quanto quello che in essa viene rappresentato è lo «scandalo logico»7 di un innamoramento della propria persona; se di amore si tratta è un amore non convenzionale, che trascende gli schemi classici, e che ha un suo momento fondamentale nell’ammirarsi di un fanciullo in una superficie riflettente.

Wilde propone una variazione sul tema dell’amore che va tenuta in considerazione8. Nelle Short stories, la fonte, dopo la morte di Narciso, si chiede se il giovane che in lei si specchiava fosse poi tanto bello. Domanda particolare, dato che proprio lei avrebbe dovuto sapere dell’aspetto di chi passava tante ore in sua compagnia. Ma l’amore della fonte per Narciso supera in audacia quello di Narciso stesso: infatti la ninfa d’acqua amava crogiolarsi nel di lui sguardo solo in quanto vedeva riflessa nei suoi occhi la propria bellezza. Un atteggiamento più realista di quello del re. L’accento cade sul vedere la propria bellezza da parte della fonte, momento che non può ridursi al solo innamoramento. Vedere se stessi in un oggetto altro, in questo caso Narciso, vedere quell’oggetto come proprio, distinto da sé, ma a sé riferito, in un rapporto che non può essere studiato mediante i mezzi del conoscere quale che sia la sua declinazione: qui si tratta di vedere, non di porsi di fronte ad un oggetto con il quale si instaura un rapporto di legalità conoscitiva o simbolica.

Ma essendo un racconto mitico, quello di Narciso ha visto nascere le più diverse interpretazioni. In ambito psicanalitico McDougall non crede che Narciso guardi semplicemente il suo riflesso9. Più che se stesso, egli sarebbe alla ricerca di un qualcosa di perduto, di anelato, di non più in suo possesso. Questo oggetto è lo sguardo della madre, uno sguardo in grado di renderlo soggetto all’interno del mondo, una sguardo che parla. Si delinea una spiegazione nei termini di complesso edipico, di desiderio del genitore del sesso opposto. Ciò che sembra mancare in spiegazioni di questo tipo è la capacità di fermarsi alla superficie, per cercare invece un qualcosa di profondo, misterioso. Ma lo specchio d’acqua è piatto, la superficie di un quadro è piatta, è in due dimensioni, e il ricercare una dimensione ulteriore può essere segno della volontà dell’interprete di leggere in un certo modo una situazione.

Lo scandalo provocato dall’amore di sé di Narciso è stato fin da subito ritenuto paradigmatico e pertanto trasformato in proverbio. Clemente Alessandrino nel II d.C. riferisce che è comune il detto «In molti ti odieranno se amerai te stesso»10. La ricerca di una spiegazione per lo scandalo ha impegnato non poco gli autori cristiani. Un particolare intervento sull’originale ovidiano è portato da Boccaccio nelle Genealogiae deorum gentilium11. Qui Narciso non rifiuta più le attenzioni di ragazzi e ragazze, ma solo quelle di esponenti del sesso maschile, il momento della maledizione si trasforma in una preghiera alle ninfe, e addirittura nello specchio della fonte non vede più la propria immagine ma una ninfa della fonte. Narciso non può nemmeno più passare attraverso il travaglio del rinsavimento e del riconoscimento, è invece turbato, confuso, dimentico di sé. Si tratta di una completa rivisitazione del testo ovidiano tale da adattarlo a dettami che siano adeguati alla morale cristiana. I normali corteggiamenti omosessuali presso i greci divengono ora motivo di ribrezzo da parte di Narciso, il quale non può nemmeno scorgere il proprio riflesso, in quanto amore è amore solo se lo è per una bella ninfa. Così il momento del turbamento, del riconoscere la propria immagine, del continuare a guardare vengono persi. Peraltro Boccaccio propone anche una ricostruzione allegorica della vicenda12 per cui Eco si identifica con la Fama e Narciso con tutti gli uomini che rifiutano gli onori morali del mondo sociale per cadere vittime delle voluttà dei sensi, cosa che pàgano trasformandosi giustamente in un fiore (che della vanitas e della caducità è l’oggetto rappresentato per eccellenza). Si tratta quindi di una condanna del mondo sensibile in un atteggiamento platonico-cristiano, si pone la lettura morale e pedagogica come indispensabile per un racconto che voglia avere una positiva influenza sociale. Le interpretazioni del mito nel senso di allegorie o riferentesi in ogni caso a questioni morali, sociali, educative, sono in verità la maggioranza e derivano da un atteggiamento che ha nella svalutazione del sensibile la radice profonda, svalutazione che ha per fine la ricerca di una verità che sta in un mondo altro, simbolico, o anche estetico ma solo nel caso della costruzione di rapporti legali d’amore. Che tutto ciò dia il giusto resoconto di cosa sia il guardare di Narciso, è affermazione che non può essere accettata tout court.

Per ultimo si è lasciata la lettura che Plotino fornisce circa il mito. La sua attenzione si focalizza sul rapporto sensi-anima, e per questo sfrutta la tematica dello specchio. Anzitutto un passaggio legato indirettamente a Narciso è quello dello specchio di Dioniso13: si tratta di un giocattolo che ha distratto l’attenzione del dio-bambino permettendo ai Titani di prenderlo prigioniero per poi farlo a pezzi. L’allusione di Plotino è all’anima di che si lascia ingannare dai sensi, da oggetti superficiali, perdendo così la propria essenza divina. Specchio è lo strumento che lega l’anima al mondo sensibile impedendogli di cogliere la vera e trascendente bellezza nel mondo altro cui appartiene. Nelle Enneadi14 si invita ad andare in direzione della bellezza interna del santuario, abbandonando la vista esteriore e superficiale degli occhi. Gli occhi vanno limitati nel loro fermarsi alle bellezze materiali che sono «immagini, orme e ombre», legate ad un elemento oscuro che non permette di vedere la luce superiore. Chi, sostiene Plotino, si perderà nella contemplazione di bellezze materiali come fossero la vera realtà, farà la fine di quel povero ragazzo che si inabissò nelle acque e scomparve. La pena che la supremazia dell’occhio sull’anima porta insita è quella di costringere a sprofondare con sé anche l’anima la quale proviene invece dal mondo della vera verità, di cui quello sensibile non può essere più che ombra ingannevole. In ambito neoplatonico il sensibile ha la funzione fondamentale di iniziare la scala che porta alla contemplazione della bellezza sovrasensibile, dell’idea di bellezza. Vi è uno stacco tra bellezza sensibile e bellezza ideale ma la prima ha una sorta di valore iniziatico, non si tratta di un completo misconoscimento. Eppure il principio che la tradizione neoplatonica e cristiana in questo modo afferma è quello della tensione, dell’anelito di ciò che riguarda i sensi a una dimensione altra in cui si rivela la verità. I sensi possono alludere simbolicamente a un mondo trascendente in cui possono essere riscattati. L’uomo cristiano-platonico è un uomo sensuale, sensibile, il quale anela ad una purificazione di sé, ad un rinnegamento della dimensione sensibile slegata dal riferimento a un mondo altro. Che poi il mondo altro sia caratterizzato dalla trascendenza divina, da un ideale morale, da una necessità di porre la conoscenza in primo piano, si tratta pur sempre di trattare i sensi come da direzionare eteronomamente verso una verità di cui magari sono partecipi ma che non deriva dai sensi il principio fondamentale. Narciso è in qualche modo peccatore, perché non si fa direzionare eteronomamente, perché capisce che sta guardando, che sta guardando sé, eppure continua imperterrito nel suo guardare, senza ricercare in altro il suo principio, senza anelare. Narciso utilizza i propri occhi e questo sembra a lui bastare. Il problema di conoscere l’oggetto che guarda, e che dal punto di vista della spiegazione e della ragione e anche del sentimento amoroso sono momenti di tensione logica, non impedisce a Narciso di continuare a fare quello che fa, guardare, guardare un superficie, e sulla superficie rimanere. Che Narciso sia il mito fondativo della pittura, dell’arte delle due dimensioni, dell’arte della superficie, è questione che merita approfondimento di per sé, senza riferimenti a questioni morali, conoscitive, simboliche, che poco riescono a cogliere dell’arte e dei sensi.

1 Filostrato, Immagini, 23, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp.189-90.

2 Pausania, Guida della Grecia, III 31, 7-8, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p.189.

3 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp. 121-4.

4 Ivi, pp. 124-9.

5 Ivi, p.132.

6 R. Mugellesi, S. Landucci,, op. cit.

7 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p. 136.

8 Ivi, pp. 142-3.

9 Ivi, pp. 104-6.

10 Ivi, p. 111.

11 G. Boccaccio, Genealogiae deorum gentilium, LIX, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp. 194-5.

12 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p. 149.

13 Ivi, pp. 99-100

14 Plotino, Enneadi, I 6, 8, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p.192.


Andrea Togni

mercoledì 5 settembre 2012

Ogni sostanza è come un mondo a parte- Parte II


1.2 Le caratteristiche del Barocco

A partire dalla concezione di Barocco appena presentata, possiamo elencare i principali elementi caratterizzanti:

  1. La piega: è la caratteristica espressiva del Barocco, che inventa le operazioni infinite, pieghe, vortici, spirali; avviluppa e sviluppa all'infinito perché tutto è ricco e pieno, di vita, di presente, di passato e di futuro1.
  2. La tensione interno-esterno: la piega infinita è una virtualità che separa continuamente la facciata dalla stanza, la materia dall'anima, l'esterno dall'interno. Ma questi elementi sono conciliati da un'armonia (leibnizianamente prestabilita), tale per cui sono separabili ma mai separati, perché l'espresso non esiste al di fuori delle sue espressioni2, per dirla alla Husserl, c'è un'intenzionalità che lega soggetto e oggetto, interno ed esterno, per cui il soggetto si dà con l'oggetto e viceversa.
  3. L'alto e il basso: la materia-facciata e l'anima-camera oltre che come esterno e interno, possono essere presentate anche come il basso e l'alto, e la piega infinita passa fra questi due piani. La materia, pesante, va verso il basso l'anima sale verso l'alto, ma le due rimangono costantemente correlate da pieghe che si insinuano dall'interno e vanno verso l'esterno fuoriuscendo per poi rientrare continuamente3.
  4. Il dispiego: è il prosieguo non il contrario della piega, in un continuo movimento di sviluppo, avviluppo e distensione. In questo senso le pieghe non sono mai vuote né per Leibniz, né per il Barocco, sono sempre piene perché il vuoto non esiste sostanzialmente, ma solo potenzialmente, come un divenire che rimanda sempre alla pienezza4.
  5. Le contesture: per contestura si intende la forza passiva, di resistenza della materia; essa è strettamente legata alla forza attiva, detta derivativa. La contestura dipende infatti dagli strati della materia ripiegata e dalla loro coesione. Entrambi i tipi di forze rinviano alle forze primitive, quelle dell'anima, in un continuo e reciproco armonizzarsi5.
  6. Il paradigma: il modello barocco unisce componenti formali e materiali: a partire dalla potenzialità della materia, procede a una deduzione formale della piega; è un paradigma manierista costituito da tutti i tipi di pieghe: semplici e composte, orli, drappeggiati e punti di appoggio6.

Capitolo 2: Leibniz e il Barocco

2.1 L'incompossibilità dei mondi possibili

Uno dei punti cardine della filosofia di Leibniz è la teoria dei mondi possibili, che lo ha reso giustamente noto ma che nel contempo è stata anche causa di duri attacchi, nella maggior parte di casi frutto di una più o meno volontaria distorsione del concetto leibniziano7.

Per comprendere a fondo questa teoria, dobbiamo innanzitutto sottolineare cosa intenda Leibniz per “mondo”: il mondo A, per esempio, è un insieme di infinite possibilità; il mondo B è un insieme di infinite altre possibilità e così via all'infinito. Un mondo non può differire da un altro per un solo particolare, perché ogni dettaglio è un anello di una catena causale, per cui se un elemento muta, cambiano anche tutti gli effetti che da esso si generano; perfino un capello in più (o in meno) non è frutto di un evento casuale, ma è già predeterminato, in quanto è uno degli elementi che costituiscono la catena causale: tutti i nostri capelli sono contati!Vengono così esclusi l'arbitrarietà, l'accidentalità e il fatalismo (la ragion pigra degli antichi)8.

In questo senso quindi Adamo peccatore e Adamo non peccatore sono entrambi possibili, ma tra i due c'è un evidente rapporto di contraddizione: i due Adamo appartengono infatti a due diversi mondi possibili, ognuno dei quali presenta un'infinità di possibilità diverse. Il rapporto che si instaura tra i mondi possibili non è però quello di contraddizione, perché tutti sarebbero egualmente possibili, ma è una relazione di reciproca incompossibilità9, che è il rapporto che lega non solo serie divergenti che appartengono a diversi mondi possibili, ma anche monadi di cui ciascuna esprime un mondo differente dall'altro.

Tutti gli infiniti mondi possibili sono presenti in mente dei come mondi relativi: la mente di Dio si configura così come infinitamente piena, ricca di particolari, di pieghe, di sviluppi e avviluppi. Tra questi mondi tra di loro incompossibili, Dio sceglie di realizzare il nostro, che è relativamente il migliore, o con le parole di Leibniz, «è necessaria una ragion sufficiente che determini Dio a sceglierne uno piuttosto che un altro»10; la teoria del migliore dei mondi possibili quindi non si basa su un ottimismo assoluto: il mondo attualizzato da Dio non è certamente perfetto, evidentemente sono presenti anche i mali, ma ciò che lo rende il migliore e che ci fa parlare di un ottimismo relativo in Leibniz, è la fiducia nell'universalismo della grazia divina e nella compensazione dei beni e dei mali, per cui un evento negativo non è male in assoluto ma elemento fondamentale nella catena causale per raggiungere un maggior bene futuro. Leibniz si erge ad avvocato di Dio, arrivando ad una barocca esasperazione della giustificazione: «il mondo deve essere il migliore, non soltanto nel suo insieme, ma in tutti i dettagli»11.

La nozione di incompossibilità si lega al tema della biforcazione e dell'incastro delle narrazioni tipicamente barocchi; lo stesso Leibniz nella Teodicea presenta la storia di Sesto Tarquinio come un sogno architettonico: vi è una piramide con un'infinità di appartamenti di cui ciascuno è un mondo; in ogni appartamento c'è un Sesto diverso che racconta la sua storia12. Potremmo parimenti citare Borges, un discepolo di Leibniz, che ricordava «un filosofo-architetto cinese Ts'ui Pen inventore del “giardino dei sentieri che si biforcano”, labirinto barocco in cui le serie infinite convergono o divergono, formando una trama temporale che rinserra ogni possibilità»13.

1Cfr. G. Deleuze, op. cit., p. 53

2Cfr. Ibidem

3Cfr. Ivi, p. 54

4Cfr. Ibidem

5Cfr. Ivi, p. 57

6Cfr. Ivi, pp. 58-59

7Si pensi al Candido di Voltaire, in cui il filosofo francese presenta una vera e propria presa in giro dell' “ottimismo” di Leibniz sul fatto che il nostro universo sarebbe il migliore dei mondi possibili.

8Cfr. G. W. Leibniz, Discorso..., cit., p. 265

9Cfr. G. Deleuze, op. cit., p. 89

10G. W. Leibniz, Monadologia, cit., p. 28

11G. Deleuze, op. cit., p 104

12Cfr. Ivi, pp. 92-93

13Ivi, p. 93


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