mercoledì 7 novembre 2012

Ogni sostanza è come un mondo a parte- Parte IV



Recentemente mi è capitato di rivedere un film intitolato The butterfly effect1 in cui il protagonista ha la possibilità di tornare indietro nel passato e modificare un evento avvenuto quando era bambino, la morte di una donna e della figlia da lui causata insieme a un gruppo di amici. Ritornando su quell'avvenimento può cambiare di volta in volta un dettaglio, il quale modifica pesantemente tutti gli eventi successivi, creando numerose serie divergenti, mondi possibili completamente diversi tra loro, che si biforcano a partire da quel particolare avvenimento dell'infanzia. Il film è certamente interessante se guardato da una prospettiva leibniziana perché ci fa capire come da un solo fatto possono scaturire infinite e diverse conseguenze in un universo causalmente inteso.

Il film appena citato è solo uno degli esempi dell'influenza esercitata da Leibniz: nel corso della storia della filosofia oltre alla già citata fenomenologia husserliana, anche Kant risente del peso dell'illustre predecessore, per non parlare dei filosofi del linguaggio neo-leibniziani, che basano le loro teorie sull'associazione della nozione dei mondi possibili con le verità necessarie e contingenti2ma i campi in cui troviamo leibnizianesimo barocco superano i confini della filosofia per approdare alla fisica, alla matematica, alla musica. La musica barocca presenta cinque caratteristiche fondamentali: l'armonia verticale, la precostituzione armonica (orizzontale e verticale), lo stile concertante, il basso continuo e l'espressione del sentimento: questo problema espressivo animerà tutta la musica successiva, da Wagner a Debussy, da Boulez a Stockhausen. Gli armonici perdono il privilegio di rango che avevano prima e le divergenze sono oggi affermate in serie che sfuggono alla scala diatonica3: la monade leibniziana non è più chiusa ma si compenetra con altre monadi, modificandosi, scoprendo nuovo modi e nuovi mezzi per piegare, e dispiegare. Proprio perché scopriamo sempre nuove modalità, continuiamo a mantenere i concetti cari a Leibniz, i mondi possibili, la piega e soprattutto le monadi (basti pensare al nuovo modello di monade evocato da Tony Smith, l'automobile ermetica lanciata su una strada buia...)4, ecco perché continuiamo a essere leibniziani.


>>FID




1Il film risale al 2004, regia di Eric Bress e Mackye Gruber

2Si veda per esempio D. Lewis, Mondi possibili, 1973

3Cfr. G. Deleuze, op. cit., pp. 204-205

4Cfr. Ivi, p. 205

giovedì 1 novembre 2012

VisioniAlternative: Una separazione (2011)




Nader e Simin, dopo anni di matrimonio, sono davanti al giudice per presentare domanda di divorzio. In realtà Nader non vorrebbe affatto divorziare. È la moglie Simin a chiedere la separazione per poter espatriare con la figlia Termeh di undici anni, dato che il marito non è d’accordo con l’idea di lasciare il Paese. Deve prendersi cura del padre, malato di Alzheimer, e non può assolutamente abbandonarlo. Il giudice non concede alla coppia di separarsi, né a Simin di andare all’estero, e la donna torna a vivere dai genitori, sancendo di fatto una rottura definitiva col marito. Nader è costretto quindi a cercare un’infermiera che si prenda cura del padre mentre lui è al lavoro. Per il posto si presenta Razieh, una donna che ha bisogno di lavorare per pagare i debiti del marito, ma che accetta l’impiego offerto da Nader all’insaputa dell’irascibile marito…

Una separazione (titolo originale: Jodái-e Náder az Simin) di Asghar Farhadi è il film iraniano che ha fatto incetta di premi nell’ultima stagione cinematografica: premiato con l’Orso d’oro e l’Orso d’argento per il miglior attore e miglior attrice (assegnato all’intero cast maschile e femminile) al Festival di Berlino 2011, ha ricevuto innumerevoli premi come miglior film straniero tra cui il David di Donatello e all’inizio del 2012 ha concluso una trionfale cavalcata conquistando il Golden Globe come miglior film in lingua straniera e diventando poi il primo film iraniano a vincere l’Oscar nella stessa categoria. Un vero e proprio plebiscito per un film che è stato indicato da gran parte della critica internazionale come il miglior film dell’anno.

La pellicola comincia con un lungo piano-sequenza che consente di inquadrare subito la vicenda, e ci catapulta poi direttamente nella vita di una comune famiglia del ceto medio nell’Iran contemporaneo. Il film rientra appieno nei canoni di quel cinema di stampo neorealista che ha reso la scuola iraniana una delle più importanti e acclamate al mondo. Si potrebbe dire che, esaurita la fase del neorealismo che ha reso grande il cinema Italiano, questo modo di fare cinema si è trasferito idealmente in Iran e, a partire dalla fine degli anni ’60, questo paese ha sfornato un gran numero di film e maestri della macchina da presa tutti caratterizzati appunto da un approccio “neorealista”. Per neorealismo in questo caso intendo la capacità di raccontare storie semplici di gente comune, ma sincere e autentiche, capaci con la loro semplicità e il loro realismo di rappresentare fedelmente i caratteri di una società in un determinato periodo storico, e al tempo stesso di appassionare e far emozionare lo spettatore.

Proprio questo è il punto forte di “Una separazione”: le vicende raccontate sono di una semplicità estrema, scene di vita quotidiana, i personaggi sono persone qualunque ma cariche di umanità, oneste e vere fino in fondo. L’impianto narrativo e la scrittura perfette catturano l’attenzione dello spettatore, il ritmo crescente della narrazione crea una tensione costante che inchioda alla poltrona. È impossibile non appassionarsi alla sorte dei vari personaggi e farsi trascinare dalla vicenda che si fa sempre più tesa e coinvolgente. Ecco perché il film parte come una pellicola neorealista e assume poi sempre di più i caratteri di un thriller dai ritmi serrati, che non lascia scampo. Non succede niente di straordinario, i fatti che si susseguono non sono molto distanti da quelli che potrebbero essere le tensioni e i problemi della quotidianità di ogni famiglia, ma proprio per questo vogliamo sapere come andrà a finire ed  empatizziamo con i protagonisti provando la loro stessa angoscia e il loro stesso smarrimento.

Il film ha l’incredibile merito di rappresentare fedelmente le mille contraddizioni della moderna società iraniana: un paese stritolato tra una tensione naturale verso la modernità rappresentata da uno stile di vita “occidentale” e più aperto alle novità da un lato, e i soffocanti e costrittivi lacci della tradizione dall’altro. Un conflitto ben rappresentato dalle due famiglie protagoniste. Da un lato abbiamo una famiglia benestante e “moderna”, dove c’è una sostanziale parità tra uomo e donna, dove la moglie è istruita, lavora, guida la macchina, è indipendente … Dall’altro una famiglia, quella della badante, più povera, molto credente, più conservatrice, che conserva ancora un legame forte con la religione e con i vincoli imposti da una società tradizionalista e fortemente discriminatoria, soprattutto verso le donne. C’è da dire che il regista Farhadi è molto abile nel mettere in luce i nervi scoperti del suo Paese evitando riferimenti politici diretti (Farhadi è a oggi l’unico regista iraniano di statura internazionale che riesce a lavorare liberamente in patria, aggirando le pesanti catene della censura).




Ma il pregio più grande di questo capolavoro, come già accennato, sta nella sceneggiatura e nella sapiente struttura narrativa costruita dal regista. Le battute e i dialoghi sono di un realismo e di un’autenticità impressionante, così come la resa sullo schermo degli attori, tutti perfetti. La narrazione è costruita in modo tale che in ogni singola scena, anche quelle più semplici e apparentemente “inutili” che sembrano limitarsi a descrivere azioni quotidiane, sono disseminati degli indizi della cui importanza lo spettatore si accorge solo alla fine, e che si rivelano decisivi per la comprensione della vicenda. Tutto si tiene alla perfezione, quindi in questa pellicola, in un impianto narrativo di superba fattura. A ciò si aggiunge un montaggio che elimina completamente i tempi morti tra una sequenza e l’altra, conferendo al tutto un ritmo e una tensione crescente che, come già detto, dà al film la consistenza di un thriller in piena regola, malgrado l’apparente “normalità” delle vicende raccontate. “Una separazione” è molto di più di un semplice dramma famigliare e sociale.

L’altro aspetto stupefacente è la capacità del film di mostrarci una pluralità di punti di vista, mostrandoci i fatti attraverso gli occhi dei vari personaggi, per dimostrare come la verità sia un concetto inesistente nella realtà: in questa vicenda tutti i personaggi sono colpevoli e al tempo stesso vittime degli eventi e di un ingranaggio che li sovrasta e stritola, tutti hanno torto e ragione, tutti sono sinceri e al tempo stesso mentono a sé stessi e agli altri. Ognuno racconta e sostiene la propria “verità” e la propria visione dei fatti, senza che nessuna versione prevalga sulle altre. E alla fine tutti escono irrimediabilmente sconfitti, specie i più piccoli. O in ogni caso, di sicuro la giustizia iraniana non è il mezzo adeguato per fare chiarezza nella vicenda (significativo il continuo appellarsi a Dio e al Corano da parte di Razieh e del marito, anche di fronte al giudice: “Dio mi è testimone”). Il risultato è che è impossibile per lo spettatore scegliere da che parte stare: ogni singolo personaggio attira la simpatia e la comprensione del pubblico per le sue  debolezze e le sue rivendicazioni, per l’onestà che li caratterizza anche nei loro comportamenti e reazioni più “accesi”.

“Una separazione” è una visione imprescindibile per chi ama il cinema d’autore e il cinema capace di dare forti emozioni. Una visione utile e importante per capire qualcosa di più di quell’enorme rompicapo che è il nuovo Iran del XXI secolo. Un film da vedere senza il minimo dubbio, sperando che questa grande scuola cinematografica possa continuare a regalarci altri capolavori in futuro anche in un contesto politico sempre più complicato.


/Fabio/