Recentemente
mi è capitato di rivedere un film intitolato The
butterfly effect1
in cui il protagonista ha la possibilità di tornare indietro nel
passato e modificare un evento avvenuto quando era bambino, la morte
di una donna e della figlia da lui causata insieme a un gruppo di
amici. Ritornando su quell'avvenimento può cambiare di volta in
volta un dettaglio, il quale modifica pesantemente tutti gli eventi
successivi, creando numerose serie divergenti, mondi possibili
completamente diversi tra loro, che si biforcano a partire da quel
particolare avvenimento dell'infanzia. Il film è certamente
interessante se guardato da una prospettiva leibniziana perché ci fa
capire come da un solo fatto possono scaturire infinite e diverse
conseguenze in un universo causalmente inteso.
Il
film appena citato è solo uno degli esempi dell'influenza esercitata
da Leibniz: nel corso della storia della filosofia oltre alla già
citata fenomenologia husserliana, anche Kant risente del peso
dell'illustre predecessore, per non parlare dei filosofi del
linguaggio neo-leibniziani, che basano le loro teorie
sull'associazione della nozione dei mondi possibili con le verità
necessarie e contingenti2ma
i campi in cui troviamo leibnizianesimo barocco superano i confini
della filosofia per approdare alla fisica, alla matematica, alla
musica. La musica barocca presenta cinque caratteristiche
fondamentali: l'armonia verticale, la precostituzione armonica
(orizzontale e verticale), lo stile concertante, il basso continuo e
l'espressione del sentimento: questo problema espressivo animerà
tutta la musica successiva, da Wagner a Debussy, da Boulez a
Stockhausen. Gli armonici perdono il privilegio di rango che avevano
prima e le divergenze sono oggi affermate in serie che sfuggono alla
scala diatonica3:
la monade leibniziana non è più chiusa ma si compenetra con altre
monadi, modificandosi, scoprendo nuovo modi e nuovi mezzi per
piegare, e dispiegare. Proprio perché scopriamo sempre nuove
modalità, continuiamo a mantenere i concetti cari a Leibniz, i mondi
possibili, la piega e soprattutto le monadi (basti pensare al nuovo
modello di monade evocato da Tony Smith, l'automobile ermetica
lanciata su una strada buia...)4,
ecco perché continuiamo a essere leibniziani.
>>FID
1Il
film risale al 2004, regia di Eric Bress e Mackye Gruber
2Si
veda per esempio D. Lewis, Mondi possibili,
1973
Nader e Simin, dopo
anni di matrimonio, sono davanti al giudice per presentare domanda di divorzio.
In realtà Nader non vorrebbe affatto divorziare. È la moglie Simin a chiedere
la separazione per poter espatriare con la figlia Termeh di undici anni, dato
che il marito non è d’accordo con l’idea di lasciare il Paese. Deve prendersi
cura del padre, malato di Alzheimer, e non può assolutamente abbandonarlo. Il
giudice non concede alla coppia di separarsi, né a Simin di andare all’estero,
e la donna torna a vivere dai genitori, sancendo di fatto una rottura definitiva
col marito. Nader è costretto quindi a cercare un’infermiera che si prenda cura
del padre mentre lui è al lavoro. Per il posto si presenta Razieh, una donna
che ha bisogno di lavorare per pagare i debiti del marito, ma che accetta
l’impiego offerto da Nader all’insaputa dell’irascibile marito…
Una
separazione (titolo originale: Jodái-e Náder az Simin) di Asghar
Farhadi è il film iraniano che ha fatto incetta di premi nell’ultima
stagione cinematografica: premiato con l’Orso d’oro e l’Orso d’argento per il
miglior attore e miglior attrice (assegnato all’intero cast maschile e
femminile) al Festival di Berlino 2011, ha ricevuto innumerevoli premi come
miglior film straniero tra cui il David di Donatello e all’inizio del 2012 ha
concluso una trionfale cavalcata conquistando il Golden Globe come miglior film
in lingua straniera e diventando poi il primo film iraniano a vincere l’Oscar
nella stessa categoria. Un vero e proprio plebiscito per un film che è stato
indicato da gran parte della critica internazionale come il miglior film
dell’anno.
La
pellicola comincia con un lungo piano-sequenza che consente di inquadrare
subito la vicenda, e ci catapulta poi direttamente nella vita di una comune
famiglia del ceto medio nell’Iran contemporaneo. Il film rientra appieno nei
canoni di quel cinema di stampo neorealista che ha reso la scuola iraniana una
delle più importanti e acclamate al mondo. Si potrebbe dire che, esaurita la
fase del neorealismo che ha reso grande il cinema Italiano, questo modo di fare
cinema si è trasferito idealmente in Iran e, a partire dalla fine degli anni
’60, questo paese ha sfornato un gran numero di film e maestri della macchina
da presa tutti caratterizzati appunto da un approccio “neorealista”. Per
neorealismo in questo caso intendo la capacità di raccontare storie semplici di
gente comune, ma sincere e autentiche, capaci con la loro semplicità e il loro
realismo di rappresentare fedelmente i caratteri di una società in un
determinato periodo storico, e al tempo stesso di appassionare e far emozionare
lo spettatore.
Proprio
questo è il punto forte di “Una separazione”: le vicende raccontate sono di una
semplicità estrema, scene di vita quotidiana, i personaggi sono persone
qualunque ma cariche di umanità, oneste e vere fino in fondo. L’impianto
narrativo e la scrittura perfette catturano l’attenzione dello spettatore, il
ritmo crescente della narrazione crea una tensione costante che inchioda alla
poltrona. È impossibile non appassionarsi alla sorte dei vari personaggi e
farsi trascinare dalla vicenda che si fa sempre più tesa e coinvolgente. Ecco
perché il film parte come una pellicola neorealista e assume poi sempre di più
i caratteri di un thriller dai ritmi serrati, che non lascia scampo. Non
succede niente di straordinario, i fatti che si susseguono non sono molto
distanti da quelli che potrebbero essere le tensioni e i problemi della
quotidianità di ogni famiglia, ma proprio per questo vogliamo sapere come andrà
a finire ed empatizziamo con i
protagonisti provando la loro stessa angoscia e il loro stesso smarrimento.
Il
film ha l’incredibile merito di rappresentare fedelmente le mille
contraddizioni della moderna società iraniana: un paese stritolato tra una
tensione naturale verso la modernità rappresentata da uno stile di vita
“occidentale” e più aperto alle novità da un lato, e i soffocanti e costrittivi
lacci della tradizione dall’altro. Un conflitto ben rappresentato dalle due
famiglie protagoniste. Da un lato abbiamo una famiglia benestante e “moderna”,
dove c’è una sostanziale parità tra uomo e donna, dove la moglie è istruita,
lavora, guida la macchina, è indipendente … Dall’altro una famiglia, quella
della badante, più povera, molto credente, più conservatrice, che conserva
ancora un legame forte con la religione e con i vincoli imposti da una società
tradizionalista e fortemente discriminatoria, soprattutto verso le donne. C’è
da dire che il regista Farhadi è molto abile nel mettere in luce i nervi
scoperti del suo Paese evitando riferimenti politici diretti (Farhadi è a oggi
l’unico regista iraniano di statura internazionale che riesce a lavorare
liberamente in patria, aggirando le pesanti catene della censura).
Ma
il pregio più grande di questo capolavoro, come già accennato, sta nella
sceneggiatura e nella sapiente struttura narrativa costruita dal regista. Le
battute e i dialoghi sono di un realismo e di un’autenticità impressionante,
così come la resa sullo schermo degli attori, tutti perfetti. La narrazione è
costruita in modo tale che in ogni singola scena, anche quelle più semplici e
apparentemente “inutili” che sembrano limitarsi a descrivere azioni quotidiane,
sono disseminati degli indizi della cui importanza lo spettatore si accorge
solo alla fine, e che si rivelano decisivi per la comprensione della vicenda.
Tutto si tiene alla perfezione, quindi in questa pellicola, in un impianto
narrativo di superba fattura. A ciò si aggiunge un montaggio che elimina
completamente i tempi morti tra una sequenza e l’altra, conferendo al tutto un
ritmo e una tensione crescente che, come già detto, dà al film la consistenza
di un thriller in piena regola, malgrado l’apparente “normalità” delle vicende
raccontate. “Una separazione” è molto di più di un semplice dramma famigliare e
sociale.
L’altro
aspetto stupefacente è la capacità del film di mostrarci una pluralità di punti
di vista, mostrandoci i fatti attraverso gli occhi dei vari personaggi, per
dimostrare come la verità sia un concetto inesistente nella realtà: in questa
vicenda tutti i personaggi sono colpevoli e al tempo stesso vittime degli
eventi e di un ingranaggio che li sovrasta e stritola, tutti hanno torto e
ragione, tutti sono sinceri e al tempo stesso mentono a sé stessi e agli altri.
Ognuno racconta e sostiene la propria “verità” e la propria visione dei fatti,
senza che nessuna versione prevalga sulle altre. E alla fine tutti escono
irrimediabilmente sconfitti, specie i più piccoli. O in ogni caso, di sicuro la
giustizia iraniana non è il mezzo adeguato per fare chiarezza nella vicenda
(significativo il continuo appellarsi a Dio e al Corano da parte di Razieh e
del marito, anche di fronte al giudice: “Dio mi è testimone”). Il risultato è
che è impossibile per lo spettatore scegliere da che parte stare: ogni singolo
personaggio attira la simpatia e la comprensione del pubblico per le sue debolezze e le sue rivendicazioni, per
l’onestà che li caratterizza anche nei loro comportamenti e reazioni più
“accesi”.
“Una
separazione” è una visione imprescindibile per chi ama il cinema d’autore e il
cinema capace di dare forti emozioni. Una visione utile e importante per capire
qualcosa di più di quell’enorme rompicapo che è il nuovo Iran del XXI
secolo. Un film da vedere senza il minimo dubbio, sperando che questa grande
scuola cinematografica possa continuare a regalarci altri capolavori in futuro
anche in un contesto politico sempre più complicato.