mercoledì 7 novembre 2012

Ogni sostanza è come un mondo a parte- Parte IV



Recentemente mi è capitato di rivedere un film intitolato The butterfly effect1 in cui il protagonista ha la possibilità di tornare indietro nel passato e modificare un evento avvenuto quando era bambino, la morte di una donna e della figlia da lui causata insieme a un gruppo di amici. Ritornando su quell'avvenimento può cambiare di volta in volta un dettaglio, il quale modifica pesantemente tutti gli eventi successivi, creando numerose serie divergenti, mondi possibili completamente diversi tra loro, che si biforcano a partire da quel particolare avvenimento dell'infanzia. Il film è certamente interessante se guardato da una prospettiva leibniziana perché ci fa capire come da un solo fatto possono scaturire infinite e diverse conseguenze in un universo causalmente inteso.

Il film appena citato è solo uno degli esempi dell'influenza esercitata da Leibniz: nel corso della storia della filosofia oltre alla già citata fenomenologia husserliana, anche Kant risente del peso dell'illustre predecessore, per non parlare dei filosofi del linguaggio neo-leibniziani, che basano le loro teorie sull'associazione della nozione dei mondi possibili con le verità necessarie e contingenti2ma i campi in cui troviamo leibnizianesimo barocco superano i confini della filosofia per approdare alla fisica, alla matematica, alla musica. La musica barocca presenta cinque caratteristiche fondamentali: l'armonia verticale, la precostituzione armonica (orizzontale e verticale), lo stile concertante, il basso continuo e l'espressione del sentimento: questo problema espressivo animerà tutta la musica successiva, da Wagner a Debussy, da Boulez a Stockhausen. Gli armonici perdono il privilegio di rango che avevano prima e le divergenze sono oggi affermate in serie che sfuggono alla scala diatonica3: la monade leibniziana non è più chiusa ma si compenetra con altre monadi, modificandosi, scoprendo nuovo modi e nuovi mezzi per piegare, e dispiegare. Proprio perché scopriamo sempre nuove modalità, continuiamo a mantenere i concetti cari a Leibniz, i mondi possibili, la piega e soprattutto le monadi (basti pensare al nuovo modello di monade evocato da Tony Smith, l'automobile ermetica lanciata su una strada buia...)4, ecco perché continuiamo a essere leibniziani.


>>FID




1Il film risale al 2004, regia di Eric Bress e Mackye Gruber

2Si veda per esempio D. Lewis, Mondi possibili, 1973

3Cfr. G. Deleuze, op. cit., pp. 204-205

4Cfr. Ivi, p. 205

giovedì 1 novembre 2012

VisioniAlternative: Una separazione (2011)




Nader e Simin, dopo anni di matrimonio, sono davanti al giudice per presentare domanda di divorzio. In realtà Nader non vorrebbe affatto divorziare. È la moglie Simin a chiedere la separazione per poter espatriare con la figlia Termeh di undici anni, dato che il marito non è d’accordo con l’idea di lasciare il Paese. Deve prendersi cura del padre, malato di Alzheimer, e non può assolutamente abbandonarlo. Il giudice non concede alla coppia di separarsi, né a Simin di andare all’estero, e la donna torna a vivere dai genitori, sancendo di fatto una rottura definitiva col marito. Nader è costretto quindi a cercare un’infermiera che si prenda cura del padre mentre lui è al lavoro. Per il posto si presenta Razieh, una donna che ha bisogno di lavorare per pagare i debiti del marito, ma che accetta l’impiego offerto da Nader all’insaputa dell’irascibile marito…

Una separazione (titolo originale: Jodái-e Náder az Simin) di Asghar Farhadi è il film iraniano che ha fatto incetta di premi nell’ultima stagione cinematografica: premiato con l’Orso d’oro e l’Orso d’argento per il miglior attore e miglior attrice (assegnato all’intero cast maschile e femminile) al Festival di Berlino 2011, ha ricevuto innumerevoli premi come miglior film straniero tra cui il David di Donatello e all’inizio del 2012 ha concluso una trionfale cavalcata conquistando il Golden Globe come miglior film in lingua straniera e diventando poi il primo film iraniano a vincere l’Oscar nella stessa categoria. Un vero e proprio plebiscito per un film che è stato indicato da gran parte della critica internazionale come il miglior film dell’anno.

La pellicola comincia con un lungo piano-sequenza che consente di inquadrare subito la vicenda, e ci catapulta poi direttamente nella vita di una comune famiglia del ceto medio nell’Iran contemporaneo. Il film rientra appieno nei canoni di quel cinema di stampo neorealista che ha reso la scuola iraniana una delle più importanti e acclamate al mondo. Si potrebbe dire che, esaurita la fase del neorealismo che ha reso grande il cinema Italiano, questo modo di fare cinema si è trasferito idealmente in Iran e, a partire dalla fine degli anni ’60, questo paese ha sfornato un gran numero di film e maestri della macchina da presa tutti caratterizzati appunto da un approccio “neorealista”. Per neorealismo in questo caso intendo la capacità di raccontare storie semplici di gente comune, ma sincere e autentiche, capaci con la loro semplicità e il loro realismo di rappresentare fedelmente i caratteri di una società in un determinato periodo storico, e al tempo stesso di appassionare e far emozionare lo spettatore.

Proprio questo è il punto forte di “Una separazione”: le vicende raccontate sono di una semplicità estrema, scene di vita quotidiana, i personaggi sono persone qualunque ma cariche di umanità, oneste e vere fino in fondo. L’impianto narrativo e la scrittura perfette catturano l’attenzione dello spettatore, il ritmo crescente della narrazione crea una tensione costante che inchioda alla poltrona. È impossibile non appassionarsi alla sorte dei vari personaggi e farsi trascinare dalla vicenda che si fa sempre più tesa e coinvolgente. Ecco perché il film parte come una pellicola neorealista e assume poi sempre di più i caratteri di un thriller dai ritmi serrati, che non lascia scampo. Non succede niente di straordinario, i fatti che si susseguono non sono molto distanti da quelli che potrebbero essere le tensioni e i problemi della quotidianità di ogni famiglia, ma proprio per questo vogliamo sapere come andrà a finire ed  empatizziamo con i protagonisti provando la loro stessa angoscia e il loro stesso smarrimento.

Il film ha l’incredibile merito di rappresentare fedelmente le mille contraddizioni della moderna società iraniana: un paese stritolato tra una tensione naturale verso la modernità rappresentata da uno stile di vita “occidentale” e più aperto alle novità da un lato, e i soffocanti e costrittivi lacci della tradizione dall’altro. Un conflitto ben rappresentato dalle due famiglie protagoniste. Da un lato abbiamo una famiglia benestante e “moderna”, dove c’è una sostanziale parità tra uomo e donna, dove la moglie è istruita, lavora, guida la macchina, è indipendente … Dall’altro una famiglia, quella della badante, più povera, molto credente, più conservatrice, che conserva ancora un legame forte con la religione e con i vincoli imposti da una società tradizionalista e fortemente discriminatoria, soprattutto verso le donne. C’è da dire che il regista Farhadi è molto abile nel mettere in luce i nervi scoperti del suo Paese evitando riferimenti politici diretti (Farhadi è a oggi l’unico regista iraniano di statura internazionale che riesce a lavorare liberamente in patria, aggirando le pesanti catene della censura).




Ma il pregio più grande di questo capolavoro, come già accennato, sta nella sceneggiatura e nella sapiente struttura narrativa costruita dal regista. Le battute e i dialoghi sono di un realismo e di un’autenticità impressionante, così come la resa sullo schermo degli attori, tutti perfetti. La narrazione è costruita in modo tale che in ogni singola scena, anche quelle più semplici e apparentemente “inutili” che sembrano limitarsi a descrivere azioni quotidiane, sono disseminati degli indizi della cui importanza lo spettatore si accorge solo alla fine, e che si rivelano decisivi per la comprensione della vicenda. Tutto si tiene alla perfezione, quindi in questa pellicola, in un impianto narrativo di superba fattura. A ciò si aggiunge un montaggio che elimina completamente i tempi morti tra una sequenza e l’altra, conferendo al tutto un ritmo e una tensione crescente che, come già detto, dà al film la consistenza di un thriller in piena regola, malgrado l’apparente “normalità” delle vicende raccontate. “Una separazione” è molto di più di un semplice dramma famigliare e sociale.

L’altro aspetto stupefacente è la capacità del film di mostrarci una pluralità di punti di vista, mostrandoci i fatti attraverso gli occhi dei vari personaggi, per dimostrare come la verità sia un concetto inesistente nella realtà: in questa vicenda tutti i personaggi sono colpevoli e al tempo stesso vittime degli eventi e di un ingranaggio che li sovrasta e stritola, tutti hanno torto e ragione, tutti sono sinceri e al tempo stesso mentono a sé stessi e agli altri. Ognuno racconta e sostiene la propria “verità” e la propria visione dei fatti, senza che nessuna versione prevalga sulle altre. E alla fine tutti escono irrimediabilmente sconfitti, specie i più piccoli. O in ogni caso, di sicuro la giustizia iraniana non è il mezzo adeguato per fare chiarezza nella vicenda (significativo il continuo appellarsi a Dio e al Corano da parte di Razieh e del marito, anche di fronte al giudice: “Dio mi è testimone”). Il risultato è che è impossibile per lo spettatore scegliere da che parte stare: ogni singolo personaggio attira la simpatia e la comprensione del pubblico per le sue  debolezze e le sue rivendicazioni, per l’onestà che li caratterizza anche nei loro comportamenti e reazioni più “accesi”.

“Una separazione” è una visione imprescindibile per chi ama il cinema d’autore e il cinema capace di dare forti emozioni. Una visione utile e importante per capire qualcosa di più di quell’enorme rompicapo che è il nuovo Iran del XXI secolo. Un film da vedere senza il minimo dubbio, sperando che questa grande scuola cinematografica possa continuare a regalarci altri capolavori in futuro anche in un contesto politico sempre più complicato.


/Fabio/








martedì 23 ottobre 2012

Nobel a Mo Yan, lo scrittore che "non parla"



Il premio Nobel per la letteratura 2012 è stato assegnato al cinese Mo Yan. L’autore 57enne è il secondo cinese della storia, il primo residente in Cina, ad aggiudicarsi il Nobel nella categoria Letteratura (prima di lui, nel 2000, era stato Gao Xingjian, cittadino francese residente a Parigi).

Guan Moye, questo il vero nome dello scrittore e sceneggiatore conosciuto universalmente con lo pseudonimo scelto da lui stesso, nasce il 17 febbraio del 1955 nella provincia contadina dello Shandong. Lascia la scuola a 11 anni per lavorare in campagna e poi in una fabbrica di cotone. Nel 1976 decide di arruolarsi nell’Esercito di Liberazione Popolare della Repubblica popolare cinese, che per molti giovani provenienti dalle campagne rappresentava a quei tempi l’unica speranza di condurre una vita dignitosa e di farsi un’istruzione. Negli anni dell’esercito infatti il giovane Mo Yan legge moltissima letteratura occidentale, soprattutto russa e francese, e comincia a scrivere i primi racconti e romanzi. Dopo vent’anni di servizio militare, nel 1997 avverte la necessità di esprimere un pensiero più autonomo rispetto ai rigidi vincoli imposti dall’esercito, e comincia a lavorare presso un giornale di Pechino.


All’inizio della sua carriera letteraria, Guan Moye decide di assumere il nome d’arte Mo Yan, che in cinese significa “senza parole” o “colui che non parla”. Il nomignolo risale all’infanzia dell’autore quando, in piena epoca maoista, una parola di troppo poteva cacciare nei guai una persona e un’intera famiglia. I genitori dello scrittore gli ripetevano quindi sempre di non proferire parola quando usciva di casa. Yan ha sempre ricordato questo soprannome come monito a parlare poco e a scrivere molto, esprimendo attraverso la scrittura quello che aveva da dire.

L’Accademia di Svezia che gli ha assegnato il premio definisce il suo stile un “realismo allucinatorio che mescola racconti popolari, storia e contemporaneità”. Le opere dello scrittore sono perlopiù romanzi storici che attraversano con i toni epici di vere e proprie saghe popolari interi decenni della storia cinese, raccontando la vita dei contadini nelle zone rurali del paese. Un enorme influsso sulla sua scrittura lo ha esercitato però anche tutto quel corpus di miti e tradizioni popolari che fanno parte del folklore contadino delle campagne cinesi, che ha permeato l’infanzia dell’autore con le sue suggestioni fantastiche.

La sua opera più famosa è senza dubbio “Sorgo rosso”, romanzo dal quale lo stesso autore ha ricavato la sceneggiatura per il film omonimo di Zhang Yimou, premiato con l’Orso d’Oro a Berlino nel 1988. Il romanzo ripercorre la storia di una famiglia di contadini nelle zone in cui è cresciuto lo scrittore, dall’occupazione giapponese degli anni ’30 attraverso la nascita della Repubblica popolare e fino alle soglie della rivoluzione culturale. Oltre a Sorgo rosso, Einaudi ha pubblicato in Italia quasi tutta l’opera di Mo Yan. Tra i titoli principali ricordiamo “Grande seno, fianchi larghi”, “Il supplizio del legno di sandalo” e “Le sei reincarnazioni di Ximen Nao”.
Nel 2013 è prevista l’uscita del suo ultimo libro “Le rane” che affronta con toni critici il tema della politica del figlio unico e del controllo delle nascite attuata dal governo di Pechino.


La scelta di premiare Mo Yan ha suscitato molte proteste e polemiche da parte di alcuni rappresentanti del movimento degli intellettuali cinesi dissidenti, che ritengono lo scrittore un uomo “vicino al Partito”, amico del governo di Pechino. Lo scrittore attualmente lavora presso il Ministero della cultura cinese, dove è a capo di un discusso istituto per la letteratura. In realtà Yan ha sempre dimostrato una grande autonomia di pensiero, identificandosi come un intellettuale indipendente rispetto alle linee guida del Partito. D’altronde come lui stesso ha affermato, la distinzione da fare non è tra intellettuali allineati e non allineati, o intellettuali interni al sistema e esterni al sistema, bensì tra gli scrittori che sono veri intellettuali e quelli che non lo sono. E un vero intellettuale esprime sempre chiaramente e senza paura il proprio punto di vista su ogni tema di rilevanza politica e sociale. Esattamente quello che fa Mo Yan in tutti i suoi romanzi.


/Fabio/




mercoledì 10 ottobre 2012

Narciso e la sua superficie- Parte V

5. Narciso dipinto

Finora si sono presi in esame essenzialmente gli sviluppi del mito dal punto di vista degli sviluppi letterari e filosofici. Ma come si è più volte accennato, Narciso è considerato il mito di riferimento circa la nascita della pittura così come la si conosce nella civiltà occidentale, un po’ come il mito di Pigmalione ha dato numerosi spunti di riflessione a chi si occupa di scultura. È evidente che parlare di Narciso non significa far risalire a esso la nascita cronologica della pittura, la quale non ha certo dovuto attendere l’età augustea per proporre la sua novità. Il mito di Narciso ha dato però spunti di riflessione nuovi che hanno contribuito alla rielaborazione teorica, pratica, estetica di considerare il dipingere.

 Figura 1, Narciso, Pompei, I d.C.


Non è un caso se già a Pompei sono rimaste conservate numerose raffigurazioni parietali da riferirsi proprio al giovane cacciatore, e questo è indice anche del successo che il testo soprattutto di Ovidio ha avuto quantomeno negli ambienti colti e delle aristocrazie di città come quella campana che erano all’avanguardia quanto al loro processo di ellenizzazione. Addirittura sono una quarantina le testimonianze rinvenute dagli scavi pompeiani, segno che il tema della visualità, così esplicito nel racconto di Ovidio, ha fin da subito interessato committenti e artisti. Nel caso della figura 1, così come nella maggioranza degli affreschi pompeiani, l’accento è posto sull’atto di guardarsi da parte di un Narciso comodamente seduto sulla roccia. La trama narrativa è ridotta all’elemento fondamentale del guardarsi e del rapporto tra immagine e oggetto riflesso.


Figura 2, B. Cellini, Narciso, 1549, marmo, Firenze, Museo nazionale del Bargello

Si è visto sopra che Filostrato ha provato a riprendere in parole un dipinto pompeiano che raffigurava questa volta un Narciso in piedi circondato da un paesaggio naturale. Particolarmente interessante è che Filostrato sottolinei il naturalismo o realismo del dipinto, tale addirittura per cui lo spettatore non è in grado di capire se un’ape su di esso dipinta sia reale o appunto un’illusione. È la ripresa di un modo di considerare la pittura come capace di ingannare, di giocare tra realtà e finzione. Il moderno trompe l’oeil trae la sua origine da riflessioni dello stesso tipo che erano in verità diffuse già in epoca più antica presso i pittori greci. Narciso stimola l’interpretazione di una pittura in grado di riprodurre in modo talmente fedele da ingannare l’occhio. Una pittura che quindi non ha a che fare con questioni di carattere strettamente morale ma che gioca in primo luogo sul ruolo che la vista ricopre nella visione. Peraltro parlare d’inganno neanche sarebbe corretto, perché chi si pone di fronte a un quadro seppure iperrealistico già si mette a disposizione di un contesto finzionale che magari non sa immediatamente distinguere in tutte le sue parti ma che gli è presente. Proprio nel massimo del realismo si mostra la natura altra del dipinto, non nel senso che rimandi a una dimensione di significato ulteriore, ma nel senso che proprio mentre sembra rimandare a un semplice copiare una realtà che non le appartiene, riesce a essere qualcosa di diverso, imparagonabile alla stessa realtà di cui si fa copia.


Un’accentuazione del tema dell’innamoramento si ha nei narcisi che portano le braccia intorno al capo, ponendosi in una sorta di autoabbraccio plastico nei confronti del proprio corpo. Un esempio lo si può mostrare con la statua del Cellini in Figura 2.

In ambito soprattutto medievale è inevitabile un’accentuazione dell’aspetto moraleggiante, in modo parallelo a quanto si è visto sopra col Boccaccio. Perciò alcune incisioni o miniature mostrano soprattutto le conseguenze della superbia e dell’orgoglio mostrate dal giovane cacciatore. L’aspetto della visualità viene così trascinato in secondo piano a vantaggio di una interpretazione morale e didascalica. Evidentemente anche le figura di un Narciso dai tratti femminei e quasi androgini restano esclusive, fino alla modernità almeno postrinascimentale, dell’antichità soprattutto pagana.


 Figura 3, N. Poussin, Impero di Flora, olio su tela, 1661,  Dresda Gemaldgalerie



Appartiene a Poussin la volontà di recuperare il mito nelle sue declinazioni complesse, tenendo in conto anche personaggi che raramente fino ad allora avevano svolto un ruolo di primo piano. Nell’Impero di Flora del 1661 (figura 3), la scena (alla sinistra dell’osservatore) con Narciso vede la presenza anche di una donna che tiene la brocca con l’acqua, con maggiore probabilità Eco piuttosto che Lirìope; inoltre un uomo si trafigge con una lancia, non si può forse vedere in lui l’Aminia di Conone, ma più verosimilmente Aiace che in seguito alla sua morte si tramuterà in garofano1. Peraltro in Eco e la morte di Narciso Poussin riprende il tema della morte di Narciso, aspetto non per forza comune.


   Figura 4, H. Daumier, Le beau Narcisse, litografia, 1842


Il mito riscoperto permette in seguito lo sviluppo di devianze e accentuazioni particolari che segnano un ulteriore step metamorfico. Il pittore e caricaturista marsigliano Daumier col suo bel Narciso fa valere le valenze morali ricavabili dal racconto, mostrando uno scheletrico essere che in una posa arcuata e innaturale ghigna soddisfatto alla propria vista nella pozza antistante. Una corona di fiori cinge la testa del giovane, forse riferimento alla corona di spine che si stringe attorno al capo di Cristo. Peraltro bisogna considerare che il mezzo tecnico della caricatura ha sempre avuto la capacità di deformare i tratti dei soggetti ritratti creando un momento di straniamento che è senz’altro legabile ad una volontà di critica, nel presente caso dello stare attaccati alla propria immagine quasi il resto dell’esistenza non contasse. Ma la caricatura è anche strumento ironico, che provoca distacco, distanza rispetto a tematiche che non devono sconfinare dal loro campo, quali quelle morali. Il disegno anche curato di Daumier, il ghigno verrebbe da dire consapevole del proprio stato del giovane, mostrano quanto decisivo sia il rapporto tra distanza e vicinanza, interesse per sé e disinteresse ironico, tra sensazione e arte.


Figura 5, J. Gumpp, Autoritratto, olio su tela, 1646, Firenze, Galleria degli Uffizi






Ovidio ha saputo creare con il suo racconto un insieme di riflessioni che si innesta con forza in un filone che vede nel rapporto tra realtà e finzione mimetica il nodo fondamentale. Considerare la pittura come specchio fedele del reale, senza limitarla alla sola copia ma permettendo una riformulazione dello stesso, è idea presente persino in Platone, idea che il modo di pensare platonista ha in parte tradito esaltando il solo rapporto di doppia lontananza (ontologica e gnoseologica) della pittura dalla realtà e dal mondo delle idee2. Ma sarebbe poco fruttuoso sostenere che i pittori di ogni tempo non avessero ben presente il contesto finzionale, specifico e altro rispetto alla realtà3, che la tela porta con sé. Che il problema sia ben più articolato, che investa il rapporto di sé con sé, che in gioco vi sia il proprio sentire che è un porre a distanza cose che sono sentite grazie ai propri sensi, che in gioco vi è inoltre l’unicità e incomparabilità dell’artista che permette alla sua opera di sussistere di per sé, un piccolo sunto di ciò lo si mostra con gli autoritratti. Smascherato è il gioco di riflessi e ritratti messi in scena da Gumpp (figura 5), per cui il pittore si dipinge nell’atto di dipingere se stesso che si guarda a uno specchio. La medesima figura rientra in una molteplicità di livelli ognuno dei quali potrebbe essere ed è autosufficiente, ma intersecato con gli altri, un rapportarsi di elementi che a sua volta conclude interno dell’opera il suo essere. Il guardare del soggetto sulla tela verso lo spettatore è ulteriore direzionarsi del rapporto tra immagini e realtà, il che esalta e mette ancor più in crisi il contesto finzionale in cui si muove il pittore di Innsbruck.


La riflessione sullo specchio ha incontrato un’escalation nel secolo scorso. L’indagine degli artisti si è focalizzata con sempre maggiore attenzione sul rapporto mimetico. Basti citare le numerose opere di Pistoletto che propongono specchi, sui quali spesso è posta una figura che entra in contraddizione con lo spettatore che a sua muovendosi di fronte alla superficie entra a far parte della superficie specchiante. Anche la video arte di Bill Viola si è cimentata con tale tematica, uno degli esempi più celebri è Reflecting pool4, dove un uomo si pone a bordo di una sorta di piscina e la situazione si modifica progressivamente tra momenti di presenza del corpo dell’uomo insieme al riflesso, senza riflesso, o del riflesso di per sé, in un’acqua che si muove a diverse velocità. Il tutto è complicato dalla presenza di un forte rumore di fondo, che introduce una dimensione sinestesica, e dal fatto che si tratta di un video, il quale per sua natura introduce una dimensione temporale o quanto meno di durata. Un tempo che essendo dimensione di trascendenza e di rapporti tra i suoi diversi momenti pone in ulteriore malleabilità il rapporto tra vicinanza e distanza, tra uomo e immagine.

Ed è proprio la dimensione temporale che pare messa in discussione da Giulio Paolini, artista che utilizza calchi in gesso per le proprie opere, opere che solo ad un’occhiata fugace sembrano essere di marmo, e che riprendono una monumentalità classica smascherata fin da subito. In Mimesi (figura 6) due calchi sono posti l’uno di fronte all’altro, in un rapporto che viene continuamente negato. Il biancore tutto particolare delle opere di Paolini, affatto identico a quello delle statue in marmo classiche, crea degli oggetti scultorei che sembrano sottrarsi a ogni esame di natura temporale. Le due teste stanno in colloquio spaziale, però è uno spazio unico, che si sottrae a ogni comparazione, conflitto, amore, con il resto degli oggetti che li circondano. Paolini pone in essere nella sua opera un modo di intendere lo spazio che si distacca completamente da quello quotidiano, anche nelle opere che invadono lo spazio del museo o del sito di collocazione. La potenza di tali opere consiste nel far proprio lo spazio, di renderlo altro, senza con ciò riferirsi ad una dimensione a loro trascendente. Lo spazio che si viene a creare è loro proprio, intoccabile, intoccato, invade e trasforma lo spazio reale, che spazio reale più non è, essendo quello spazio, quello, unico, incomparabile. Sembra di sentire riecheggiare lo sdegno di Narciso nel momento in cui viene abbracciato da Eco, uno sdegno che però si rende qui incurante, non curante di niente e di nessuno, tantomeno di chi osserva, tantomeno di chi lo ha creato.

 
    Figura 6, G. Paolini, Mimesi, calco in gesso, 1975





Conclusione
Il rapporto tra Narciso e la superficie d’acqua specchiante mostra un duplice interesse in capo all’estetica: prima da un punto di vista del sentire, delle sensazioni, dei sentimenti, poi da quello della costituzione di un piano di finzione che è l’arte a rielaborare. Quanto al primo punto, si è cercato di mostrare come non sia possibile ridurre il sentire ad un semplice modo del conoscere, sia esso rigorosamente razionale oppure simbolico. Se è vero che lo sguardo di Narciso si lega alle tematiche del riconoscimento visivo e all’innesco di passioni amorose, esso è in grado di avere un propria specificità e autonomia. Che il vedere sia utilizzato anche dal conoscere, che sia sfruttato anche dal sentire amoroso, che si ponga in rapporto con il complessivo essere di una persona, questo è innegabile. Ma se si vuole rendere conto di cosa sia il guardare, non si può fare unico riferimento ai rapporti del guardare con le altre facoltà umane, in quanto in tal caso si parlerebbe dei rapporti, con la ovvia perdita del guardare. Narciso può dare uno spunto di riflessione che va ulteriormente approfondito in questa direzione. Nonostante prima si innamori della propria immagine, poi si riconosca, poi capisca l’errore dell’autoinnamoramento, ebbene Narciso continua, nella sua dannazione eterna a- guardare. Segno che non è questione di peccati, di incapacità di cogliere i rapporti, di immoralità o moralità. Sentire è un fare e un essere che nella propria autonomia va inteso. E va inteso nel senso di un riferimento a sé, Narciso guarda se stesso. Il sentire è qualcosa di proprio, il rapporto e l’oggetto sono questioni secondarie. Questo può aprire una considerazione sulla natura dell’arte. Non è sufficiente considerarla come solo simbolica, aprente mondi possibili, diversi, o catene di rimandi. Narciso guarda quella superficie. Gli si fa osservare che dovrebbe guardare qualcosa di più profondo, di legato all’amore, alla morale, ad altro? Lui guarda quella superficie. Che forse l’arte non debba essere continuamente ridotta o ricondotta a simbolismi che le sono estranei, che forse quando ci si pone davanti a un quadro non si deve capire, ma guardare, solo guardare, forse è questo che Narciso nel suo essere intoccato e intoccabile ha visto nel suo- vedersi.


1 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp.137-40.

2 Sullo sviluppo del tema mimetico a partire da Platone e Aristotele, si veda il completo e dettagliato testo di S. Halliwell, L’estetica della mimesis. Testi antichi e problemi moderni, Aesthetica, Palermo 2009.

3 Peraltro il continuare a usare il termine “realtà” è evidentemente una forzatura, non essendo essa un che di definibile in modo ultimo. Realtà viene nel presente testo assunto nel suo significato ingenuo, nella consapevolezza che si tratta di un termine che ha avuto pesanti discussioni e ha pesanti conseguenze a seconda delle accezioni in cui lo si prende.

4 Il video è rintracciabile in modo semplice e rapido con una ricerca su youtube.


Andrea Togni

mercoledì 3 ottobre 2012

Ogni sostanza è come un mondo a parte- Parte III


    1. L'individualità

A partire da questa concezione di possibilità e incompossibilità, si può dedurre una definizione della sostanza individuale, tramite il principio dell'identità degli individui indiscernibili: nell'universo non esistono due individui perfettamente uguali, perché «ogni sostanza è come un mondo intero e come uno specchio di Dio, oppure di tutto l'universo, che ciascuna esprime a suo modo»1.

Prendiamo ad esempio Giulio Cesare: nella sua natura è già compreso e determinato una volta per tutte tutto ciò che gli è capitato, sta avvenendo e gli potrà accadere in ogni tempo; tutto ciò era perfettamente razionale e quindi era sicuro che avrebbe deciso di attraversare il Rubicone, perché è nell'estensione della nozione di soggetto di comprendere tutto2.

Ogni sostanza è quindi ricca e mostra la varietà del mondo dal suo punto di vista, uno degli infiniti punti di vista possibili, che si riuniscono in mente dei: solo Dio infatti ha una conoscenza intuitiva di tutto, secondo gli infiniti punti di vista e con un velocissimo “colpo d'occhio”; le sostanze individuali possono avere una conoscenza chiara e intuitiva solo sotto certi determinati aspetti e in questo senso esprimono la totalità e la varietà del mondo oscuramente, un punto di vista o una particolarità chiaramente.

L'individuo è l'attuazione di singolarità pre-individuali: la minima differenza fa si che le cose differiscano per il principio degli indiscernibili, che è quindi “il negativo” del principio di individuazione, ma che giunge per esclusione allo stesso risultato; tra individui c'è quindi una differenza interna e irriduttibile, basata sulla specificazione e sull'esaltazione del minimo particolare3: infatti è «necessario che ogni monade sia differente da ogni altra. Poiché nella natura non esistono due esseri che siano perfettamente uguali, e in cui non sia possibile scoprire una differenza interna»4. In più ogni sostanza individuale è riflesso confuso dell'intero universo: «a causa della moltitudine infinita delle sostanze semplici, vi sono come altrettanti universi diversi, i quali tuttavia non sono che le prospettive di un unico universo secondo il diverso punto di vista di ogni monade»5. La funzione delle sostanze è quella di esprimere Dio e il mondo: bisogna quindi che vi sia tra gli esseri possibili la persona di Pietro o Giovanni la cui idea contiene tutta la sequenza di grazie, eventi e circostanze che Dio ha scelto per esistere attualmente6.

Ciò ci porta ad un problema (barocco): in un'esasperazione di dettagli determinati, di giustificazione precisa dell'azione razionale di Dio, di concatenarsi stabilito di ragioni sufficienti, c'è ancora spazio per la libertà dell'azione individuale?

2.3 La libertà

La conclusione del precedente paragrafo porta ad interrogarsi sull'importante questione del libero arbitrio, problema che Leibniz affronta approfonditamente e riesce a risolvere in modo geniale, considerata la cornice del predeterminismo all'interno della quale sviluppa la sua filosofia. Libertà e predeterminazione sono infatti due aspetti molto difficili da conciliare e a maggior ragione se partiamo dalla base barocca del filosofo tedesco, in cui ogni più piccolo dettaglio non è accidentale.

Per poter trattare del “labirinto della libertà”, come è stato soprannominato dagli studiosi di Leibniz, è fondamentale porre in primo luogo la distinzione tra verità contingenti e verità necessarie: le verità contingenti sono virtualmente incluse nella nozione di sostanza individuale, come i cosiddetti futuri contingenti, che sono sicuri, in quanto Dio li prevede, ma non necessari, perché il loro contrario non implica contraddizione; le verità necessarie, come quelle della matematica, sono assolute perché il loro contrario è impossibile7.

Lo spazio per la libertà si crea nell'ambito delle verità contingenti: esse si fondano sul primo decreto libero di Dio, decreto libero ma razionale e sempre basato sulla maggior perfezione possibile come criterio di scelta. Dio ha posto inoltre un secondo decreto, sulla natura umana, per il quale l'uomo farà sempre ciò che gli apparirà meglio, in una sorta di intellettualismo etico di matrice socratiana8: in questo modo è preservata sia la libertà di Dio, sia quella dell'individuo pur mantenendosi un universo un cui vi è predeterminazione.

Dobbiamo quindi formulare una concezione di libero arbitrio completamente diversa da quella cattolica, per quanto riguarda la libertà umana, e diametralmente opposta a quella hobbesiana per ciò che concerne la libertà divina. Hobbes sosteneva una concezione assolutistica di Dio: Dio è infinitamente potente e sfrutta questa sua potenza facendo ciò che vuole e senza interessarsi del bene dell'individuo singolo perché buono è solo ciò che piace a Dio, per rispondere ad una vecchia domanda lanciata da Socrate nell'Eutifrone. Leibniz parla invece di un Dio razionale e giusto che sceglie secondo una ragion sufficiente, secondo il bene, che è quindi tale prima di essere scelto da Dio: per Leibniz libertà divina non significa che Dio possa fare arbitrariamente ciò che vuole! Ciò porterebbe unicamente al caos più completo e cozzerebbe con l'assoluta bontà e giustizia di Dio, gettando l'uomo nel caos più totale.

Per quanto riguarda la questione del libero arbitrio umano, dobbiamo sgomberare il campo dalla concezione cattolica, secondo la quale ogni individuo è padrone delle sue azioni e può scegliere se fare il bene o il male. Per Leibniz un concetto così forte di libertà, porta l'uomo ad essere imprevedibile agli occhi di Dio e quindi forma una contrapposizione con la nozione di onniscenza divina: se in un qualsiasi momento io sono libero di fare una qualsiasi cosa, Dio non può prevedere ciò che farò e sarà perciò all'oscuro delle mie scelte; quindi, riprendendo l'esempio di Giulio Cesare fatto in precedenza,9 Giulio Cesare è libero di varcare il Rubicone perché lui vuole varcare il Rubicone, indipendentemente dal fatto che è sicuro che lo varcherà perché Dio ha già predeterminato tutto: libertà per Leibniz vuole dire voler fare ciò che si fa e ciò accade sempre, perché in qualunque momento noi facciamo ciò che vogliamo. E' quindi insensato porsi la domanda sul “voler voler fare una cosa”, domanda su cui si basa la nozione cattolica di libero arbitrio, in quanto ciò genererebbe un regresso all'infinito.
 
>>FID
 
 
1G.W. Leibniz, Discorso..., cit., p. 269

2Cfr. Ivi, p. 273

3Cfr. G. Deleuze, op. cit., pp. 98-99

4G.W. Leibniz, Monadologia, cit., p.13

5Ivi, p. 29

6Cfr. G. W. Leibniz, Discorso..., cit., p. 295

7Cfr. Ivi, pp. 272-273

8Cfr. Ivi p. 274

9Cfr. paragrafo 2.2 L'individualità di questo elaborato

domenica 30 settembre 2012

BUON COMPLEANNO UOMO MEDIOCRE!


30 Settembre 2012 : L’uomo mediocre compie un anno!!

Proprio così, oggi è il primo (e speriamo non anche l’ultimo!) compleanno de L'Uomo mediocre. Cosa abbiamo fatto in questo lungo e intenso anno? Forse nulla di buono, forse invece qualcosa di importante o per lo meno interessante per alcuni di voi.
Come avete avuto modo di vedere, ci siamo occupati di molte cose:
 
- Di musica, con la rubrica STAY TUNED!, inaugurata con il nostro primissimo post (3 ottobre 2011: I PINK FLOYD E SGT. PEPPER’S LONELY HEARTS’ CLUB BAND http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/i-pink-floyd-e-sgt-peppers-lonely.html ) e che presto riprenderà le pubblicazioni, e gli articoli di Storia d'Italia in musica ( 30 ottobre 2011: DALL'UNITA' ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/storia-ditalia-in-musica-dallunita-alla.html );     
 
- Di teatro (29 dicembre 2011: L’ESSENZA DELLA MODERNITA’- Pirandello e i Sei Personaggi in cerca d’autore http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/12/lessenza-della-modernita.html ) e cinema, con le recensioni di Visioni Alternative, rubrica aperta il 19 ottobre 2011 con il film Vuoti a rendere (2007) http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/visionialternative-vuoti-rendere-2007.html ;
 
- Di filosofia, a partire dal 9 ottobre 2011 con L’INDIPENDENZA NATURALE E L'ORIGINE DEL MALE IN JEAN-JACQUES ROUSSEAU, http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/lindipendenza-naturale-e-lorigine-del.html , e con articoli come OGNI SOSTANZA E' COME UN MONDO A PARTE, del 25 luglio 2012  http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/07/ogni-sostanza-e-come-un-mondo-parte.html
 
- Di arte, letteratura e televisione (11 ottobre 2011: INTRODUZIONE ALLA BOHÈME, UN MODO DI VIVERE E CONCEPIRE L'ARTE http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/introduzione-alla-boheme-un-modo-di.html ; 15 dicembre 2011: IL TEMPIO INDIANO http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/12/il-tempo-indiano.html ; 24 ottobre 2011: UN AMORE A TUTTA BIRRA http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/un-amore-tutta-birra.html );
 
- Di storia (interessantissimo l’ultimo post, del 9 luglio 2012, UNA GUERRA DIMENTICATA http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/07/una-guerra-dimenticata.html );
 
- Di scienza ( come per esempio nel post del 26 ottobre 2011, E' NATO PRIMA L'UOVO O LA GALLINA?! http://www.fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/10/e-nato-prima-luovo-o-la-gallina.html ), di neuroetica (21 novembre 2011: STORIA DELLA NEUROETICA http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/11/storia-della-neuroetica.html );
 
- Di editoria, con gli appuntamenti della rubrica Esperimenti di editoria ( 12 maggio 2012: SCHEDA VENDITORI http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/05/esperimenti-deditoria-scheda-venditori.html ), ma anche di videogiochi (13 dicembre 2011: WARHAMMER 40K- SPACE MARINE http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/12/warhammer-40k-space-marine.html ), graphic novels (29 gennaio 2012: FROM HELL: IL MECCANISMO DELLA PAURA http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/01/from-hell-il-meccanismo-della-paura.html ), racconti brevi realizzati dai nostri collaboratori (l’ultimo è del 14 settembre 2012: DA ANTIGUA A LARROCHE http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/09/da-antigua-larroche.html ).

E abbiamo cercato di dare anche spazio all’“attualità”e ai problemi sociali, occupandoci dell’ultimo censimento (25 gennaio 2012: CHE COS'E' IL CENSIMENTO? VE LO SPIEGA UN RILEVATORE ISTAT http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/01/che-cose-il-censimento-ve-lo-spiega-un.html ), del ruolo della televisione e della retorica impiegata per dare informazioni (5 novembre 2011: PERDONATE LO SFOGO... http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/11/perdonate-lo-sfogo.html e 16 maggio 2012: IL POTERE DEFORMANTE DELLA RETORICA http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/05/il-potere-deformante-della-retorica.html ), dell’importanza di ricordare il passato ( 1 marzo 2012: RISPOSTA A LUPOGRIGIO77 http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/03/risposta-lupogrigio77.html ) e del modo tutto personale con cui i nostri anziani vi restano attaccati ( 2 gennaio 2012: QUANDO GLI ANZIANI DICONO “VIVA IL FASCISMO!” http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/01/quando-gli-anziani-diconoviva-il.html ), dell'obesità e dell'anoressia (17 gennaio 2012: OBESITA' VS ANORESSIA? http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/01/obesita-vs-anoressia.html ), del ruolo della politica nella vita dei giovani ( 2 febbraio 2012: LA POLITICA OGGI? http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/02/la-politica-oggi.html ).

Ma non è mancato nemmeno lo sport: dalla formula 1 ( 11 novembre 2011: SEMPLICEMENTE GILLES http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/11/gilles-vileneuve-e-uno-di-quegli.html e 18 marzo 2012: THE ICEMAN’S WAY http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/03/icemans-way.html) al calcio soprattutto, con le due rubriche Verso Euro 2012, inaugurata il 15 gennaio 2012 con l’articolo sulla Germania http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/01/verso-euro-2012-germania.html, e A ritmo di musica: gli inni delle nazionali partecipanti a Euro 2012, in cui ci siamo occupati della storia degli inni nazionali di tutte le squadre che hanno partecipato a questo Europeo che ci ha fatto sognare e piangere ( 1 giugno 2012: POLONIA E GRECIA http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/06/ritmo-di-musica-gli-inni-delle-nazioni.html )

E poi ci sono articoli “inclassificabili”, o meglio, che rispondono a molte etichette: pensiamo a quelle del 16 aprile 2012, riguardante IL CRISTIANESIMO IN ARMENIA http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/04/il-cristianesimo-in-armenia.html , o a UN’ESTATE V.A.O.V.! del 21 agosto 2012 http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2012/08/voglio-parlarvidellesperienza-che-ho.html ; mentre altri hanno uno scopo ben preciso, come i nostri discorsi di laurea, raccolti nella sezione Discorsi Tesi (il primo: 11 dicembre 2011, EPISODI DI MEDIOEVO http://fbmcssblogblogger.blogspot.it/2011/12/episodi-di-medioevo.html ).
 
Che dire, ci sono ancora molte cose da fare e da migliorare. Per riuscirci speriamo che vogliate continuare a leggerci e darci consigli, in particolare riguardanti gli argomenti da trattare e le modalità con cui scrivere, così da realizzare articoli meno noiosi e complicati possibile!

Grazie di tutto e… appuntamento al prossimo post!

Lo staff

venerdì 14 settembre 2012

DA ANTIGUA A LARROCHE


La prima bestemmia di Tobaco Steerz fu per il suo magro rancio –una brodaglia melmosa che puzzava più dei nostri piedi-, portatogli via da un topo.

Tobaco Steerz, in realtà, non si chiamava davvero così, ma qualcosa tipo Hermann o un altro nome crucco; Tobaco era il nome che aveva preso quaggiù nei Caraibi, quando, naufragato sulla costa meridionale di un’isola delle Antille, trovò un intero campo di piante di tabacco. Si mise in accordi con il proprietario, un indigeno con la pelle color arrosto bruciato, e rilevò il terreno, iniziando a rifornire i Caraibi del suo tabacco di altissima qualità, diventando presto il più importante trafficante di fumo della regione.

All’altro tizio andò altrettanto bene, dopo essersi preso quattro o cinque pistolettate da Steerz, fu recuperato da una nave sulla quale era imbarcato un dottore, che lo imbalsamò e lo fece diventare una star negli spettacoli di vaudeville macabre a Nancy e dintorni, nella vecchia Europa.

Per diversi anni, Tobaco Steerz, fu una sorta di autorità indiscussa, rispettato sia da filibustieri che dalla Marina, tanto da farsi costruire una capanna di canne a tre piani nella sua isola (che divenne letteralmente sua, dopo aver dato il giusto compenso a tutti i locali che lo richiesero, se mi capite), alla quale in molti correvano a chiedere favori.

Poi arrivarono gli inglesi, e portarono nel mercato la loro roba, erba fina coltivata in Giamaica, e il regno di Tobaco Steerz andò disgregandosi, e lui perdendo di peso nella società caraibica.

Ma, se era finito in quella topaia umida, giù nella prigione di Antigua, lo doveva, a suo dire, alla sua più grande invenzione: combinando foglie di diverse piante, con una macinazione sopraffina e una carta che si era fatto portare appositamente dall’Egitto da un suo cugino mercante, aveva creato il più grande e potente sollazzagente della storia, quello che lui chiamava el Grande Cigarro.

Ovviamente, diceva sputazzando qua e là, gli inglesi non potevano permettersi che lui mettesse el Grande Cigarro sul mercato, o avrebbero perso il loro potere, così diedero ordine alla Marina di arrestarlo.

E, raccontando per la quarta volta dall’inizio della mattinata quella storia, bestemmiò per la seconda volta.

La storia di come io capitai nel suddetto cesso con le sbarre d’acciaio, invece, si ricollega ad un’assurda caccia al tesoro che intrapresi più per mancanza di fondi che per reale interesse, assieme ad un tale, Teddy Crocker-Tilly, che si credeva un pirata ed invece era solo un cazzone.

Il suo piano, che se noi dell’equipaggio avessimo conosciuto col cazzo che ci saremmo imbarcati, era di andare a depredare le isole Cayman, terra franca dove i grandi pirati del passato, un volta arricchitisi a sufficienza, venivano a svernare e a godersi il frutto dei loro dobloni dorati (non senza, sia chiaro, l’immancabile presenza di ex-governtori coloniali o capitani di Marina, divenuti tutti amici fraterni nelle isole della libertà). Quelle isole, purtroppo per lui (e per noi), erano più protette della passera della regina di Francia in tempo di guerra, e l’impresa si rivelò per noi un massacro: quasi tutto l’equipaggio morì una volta scesi a terra; di quelli che si salvarono, il capitano auto-nominato Teddy Crocker-Tilly, in arte Barbafucsia (poiché, al momento di scegliere il nome, quello era l’ultimo colore da barba senza copyright), fu riportato a Bristol e impiccato per le palle, all’usanza di Haiti. Altri due o tre, se non erro, sopravvissero alla battaglia, e divennero probabilmente schiavi di qualche nobiluomo delle Cayman.

Io, con il coraggio che da sempre mi contraddistingueva, scatarrai un paio di parole in spagnolo, e mi dichiarai prigioniero politico. Non avendo documenti con me, ma non volendo rischiare un incidente diplomatico, i compatrioti inglesi mi scaricarono nella discarica umana della prigione di Antigua, il cui pavimento era tappezzato dalle carni imputridite dei miei predecessori.

Quel fetido cane bavoso di un olandese che divideva con me quella fogna bestemmiò ancora, ma stavolta si trattava solo di un suo modo per iniziare un nuovo discorso.

Inizialmente non prestai molta attenzione, finché quel topaccio rinsecchito, da sotto quella barba di lana di vetro, blaterò di un modo per fuggire. Disse che, prima che lo prendessero, aveva dovuto fare una consegna speciale della sua merce su un isolotto non meglio identificato nelle Grenadine, in quel territorio che era ormai diventato terra di nessuno, da quando i francesi si erano accorti di avere ben altri problemi nel loro recinto per poter anche badare a quelle palme lontane. Stava lì, infatti, la base della banda di Guichardaz Larroche, mangiarane puzzolente nato da qualche parte nel golfo del Messico, che aveva assunto una certa fama nei Caraibi per essere riuscito a comporre un più che dignitoso equipaggio solo con i bastardi che gli erano nati dalle varie puttane dei Sette Mari.

Steerz mi rivelò che, in cambio di una percentuale sui suoi prossimi affari, Larroche sarebbe dovuto intervenire a liberare l’olandese defecante in caso di arresto, e che, quindi, i rinforzi erano in arrivo.

Non passò molto prima che i cannoni della Bernarda Lussuriosa, la nave di Guichardaz Larroche, iniziarono ad echeggiare nella notte di Antigua, quasi come le note del celebre pirata-musicista Tramontana Steves.

Buttandoci a terra, riuscimmo ad evitare la palla di cannone che abbatté il muro esterno della nostra prigione, aprendoci la strada per la libertà.

Steerz, urlando come un novizio alla sua prima scopata, si lanciò di sotto, verso il mare. Io preferii calarmi con maggiore cautela, reggendomi ai mattoni sporgenti della facciata esterna del carcere. Tutt’attorno a me, cannonate e rumore di bitume che si sgretolava, qua e là qualche urla di un figlio di un cane che veniva spazzato via da una bombarda.

Arrivato al termine della mia discesa, salutai per l’ultima volta Tobaco Steerz, la cui carcassa si era volgarmente sfracellata contro gli scogli acuminati, e mi buttai in mare, nuotando verso la libertà.

Nella foga della fuga, se mi passate il gioco di parole tipicamente marinaresco, mi avvidi troppo tardi di aver commesso un piccolo errore: mi ero scordato di non saper nuotare.

Annaspando come una vongola nell’olio sfrigolante, nel giro di pochi istanti mi ritrovai a sprofondare inesorabilmente sul merdoso fondo del mare, quando una sirena all’improvviso mi afferrò per il colletto della sudicia camicia, e mi trascinò su. Il mio innato senso della ragione, però, mi portò subito a capire che la mia benefattrice non poteva essere una creatura fantastica, anche perché per tutta la risalita non schiodai gli occhi da quel magnifico paio di chiappe sode, che di simili ne avevo viste solo alcune, quando lavoravo per i portoghesi e traghettavo giovani indossatrici dalle coste del Brasile al porto di Marsiglia.

Vomitando acqua salmastra, mi trascinai sul ponte di coperta della Bernarda Lussuriosa, mentre una delle poche figlie femmine di Guichardaz Larroche, alle mie spalle, mi mollò prima due sganassoni e poi una slinguata per averle fissato così insistentemente il culo.

Sei tu Tobaco Steerz, mi chiese Cariba Larroche, soffiando fuori quelle parole da due labbra talmente carnose che, se avessi voluto, avrei potuto usarle in tutta sicurezza come imbarcazione per tornarmene a Portorico. Fissai i suoi occhi da gatta in calore per quasi tre minuti, prima di accorgermi che mi avrebbe tagliato le palle se non le avessi risposto presto. E ovviamente dissi di sì, che certa gente, se contraddetta, è anche capace di incazzarsi.

La nave dalle vele rosse virò, sparando altri tre colpi verso la prigione, che ormai poteva contenere a malapena la puzza del suo direttore, e fece dietro front, vittoriosa.

Fui portato, allora, verso prua, e sbattuto ai piedi del glorioso capitano Guichardaz Larroche.

Piedi…si trattava piuttosto di due bastoni di legno piantati nelle cosce! E non era finita qui: alzandomi in piedi, notai che entrambe le mani del capitano erano, in realtà, due uncini d’acciaio a cinque punte; l’occhio destro era coperto da una benda verde muschio, mentre il sinistro era adornato con un monocolo dai bordi fluorescenti, e gli mancava l’orecchio sinistro.

In pratica, l’unica cosa che gli funzionava, in quell’ammasso di protesi, era il suo ben noto batacchio, che varie voci descrivevano ancora attivo nei bordelli più apprezzati da noi capitani di ventura.

Conciato com’era, non fu in grado di mettere in dubbio la mia identità, anzi mi trattò come un socio d’affari e si mise a parlare con me del glorioso futuro della nostra società. Parole alle quali io risposi con dei vaghi cenni d’assenso, pensando a un modo per cavarmi fuori da quella situazione.

Guichardaz Larroche, muovendosi macchinosamente sulle sue due grucce, si voltò e mi indicò la porta dall’altra parte del ponte, dicendomi che potevo pure andare a riposarmi e mangiare qualcosa.

La sua nave era la più terrificante imbarca-calamari che si potesse vedere in quegli anni per i Caraibi, piena zeppa dei ricordi di ognuna delle mille fottutissime avventure del suo capitano, dalla punta di uno scoglio delle Bermuda, agli ombrellini da cocktail dell’Avana; il suo equipaggio il peggio assortito guazzabuglio di filibustieri che avesse mai solcato i mari, i già citati figli illegittimi del capitano Larroche, nati in ogni fottutissima insenatura tra le cosce dei Sette Mari in cui il suo piratesco uccello fosse abilmente approdato.

Non ebbi il tempo di abituarmi alla puzza multiculturale che si respirava sulla Bernarda Lussuriosa, che le mani di Cariba Larroche, alla maniera dei polipi giganti che abitavano il Pacifico, mi agguantarono selvaggiamente, e mi trascinarono giù in cambusa.

La giovane figlia del capitano, tenendo fede alla fama paterna, quasi senza parlare iniziò a spogliarmi, forse sovraeccitata dall’eroismo del salvataggio, pronta ad abusare più e più volte di me. Ed io, ovviamente, le diedi l’impressione di avere la situazione (e non solo quella) in mano, e la lasciai fare.

Quando avevamo ormai fatto quasi completa conoscenza, la porta della cambusa si spalancò, facendo emergere la figura del tremebondo Merceo Larroche, fratello maggiore di Cariba, nonché cuoco di bordo, nonché segretamente innamorato proprio della sorella (la quale, va detto, non tanto segretamente si era concessa a Merceo, durante le lunghe traversate del mare).

Colpa della sfiga, la prole di Guichardaz Larroche poteva vantare appena cinque donne, contro una miriade di maschi. E, a causa dell’autarchica scelta del capitano di comprendere nell’equipaggio solo i suoi bastardi, quelle cinque femmine erano una risorsa preziosa e piuttosto contesa sulla nave.

L’idea che la mia sirena dai capelli corvini e le forme predatrici avesse già giaciuto in così tanti letti, per giunta dei suoi stessi fratelli, non mi dava il benché minimo fastidio, tanto che mi diedi da fare per riprendere da dove avevamo terminato. Ma Merceo Larroche, vomitando vocaboli tra il francese e lo spagnolo dei Caraibi (che, parola di un mio vecchio compagno di ventura, è alquanto simile alla lingua che si può udire nei pressi del porto di Bari, nella Vecchia Europa), sfogò tutta la sua alacre gelosia e, scagliandoci contro un affettaporco, ci costrinse a separarci e rimandare ad altro momento i nostri convenevoli.

Rotolando all’indietro e ricadendo dietro al bancone, potei solo udire le urla nella stessa ignobile lingua di Cariba, che finì per prendere la sua pistola a sparare al fratello in pieno petto.

Merceo Larroche fu sbalzato indietro, sfondando il muro di legno e fermandosi contro i barili di polvere da sparo nella stiva, facendoli cadere l’uno contro l’altro, ed innescando una reazione a catena in tutta la stiva, fino a far cadere gran parte del contenuto dell’ultimo barile in uno dei cannoni.

Ma il cuoco di bordo era colpito ma non sconfitto, si rimise in piedi con una scorreggia, mentre tutt’attorno il resto dell’equipaggio s’affollava a scommettere sul vincitore dello scontro, e prese un’altra mannaia dal suo cinturone.

Dal buco che aveva fatto nella parete, si affacciò l’incazzatissima Cariba, pronta a sparare il secondo colpo.

Merceo non ci penso su troppo e lanciò la sua arma attraverso tutta la stanza, centrando esattamente in mezzo agli occhi Cariba, la quale, zampillando sangue come una fontana dalla fronte, in un cazzutissimo spasmo muscolare, premette il grilletto, centrando in pieno la miccia del cannone, più corta della gonna di una puttana delle Barbados.

Il cannone sparo una bombarda che si sentì fino in Melanesia, scattando all’indietro e colpendo Merceo Larroche. Sentii distintamente il rumore delle sue ginocchia sbriciolarsi come una galletta spagnola, mentre quella massa ormai informe fu sbalzata dall’altro lato della stiva, sfondandone l’altra parte e finendo fuoribordo, in acqua.

L’odiosa quanto violenta perdita di due dei figli più amati del capitano, fece pericolosamente precipitare i miei rapporti col temibile Guichardaz Larroche, il quale urlò con tutta la voce che aveva in corpo di trascinarmi sulla passerella.

Un essere umano sano di mente pensa a solo due cose, in un momento simile: al vestito che sta indossando, e speriamo che per gli squali sia giorno di riposo oggi.

Sfortunatamente per me, sotto il bordo di quell’asse di legno cigolante si era già formato un circolo di pescecani famelici, e la mia camicia era sudicia e vecchia di sei mesi.

Nel frattempo, la palla di cannone che era partita nella colluttazione di prima, aveva attraversato il cielo dei Caraibi, in direzione di Caracas, dove si era concessa al rocambolesco abbraccio di uno dei galeoni della Marina spagnola, che era colato a picco come un savoiardo nel latte.

Alla scena assistette il pappagallo Gomez, uno dei volatili della scuderia di Chavez Pizquàn, un balordo di Panama che aveva creato una sorta di agenzia di informazioni dei Caraibi tramite dei pappagalli spia sparsi in tutta la regione. Il pappagallo Gomez, in realtà a libro paga di Larroche, svolazzò più forte che poté verso la nostra nave, arrivando giusto in tempo per salvarmi il culo.

Distraendo il capitano con l’avviso dell’approssimarsi della flotta della Marina spagnola, mi diede il tempo di spostarmi dalla passerella e mescolarmi tra la folla.

Quando Guichardaz Larroche si voltò, non vedendomi, afferrò il primo che si trovò a tiro e, scambiandolo per il sottoscritto, lo piombò e lo diede in pasto agli squali. A nulla valsero le proteste degli altri membri dell’equipaggio, come il povero Bartolomew Larroche che, cercando di attirare l’attenzione del padre su di me, si sentì dare del cane putrefatto e vendifratelliatradimento, prendendosi una palla in fronte dall’inviperito genitore.

Disceso nuovamente nella stiva, prima che i bastardi senza sbornia venissero a farmi quel che non era riuscito a fare il capitano Larroche, recuperai una ciambella di salvataggio, trofeo di una scorribanda lungo le coste di Los Angeles, nella quale Larroche aveva depredato i bungalow dei ricchi villeggianti, mi lanciai in mare, usando un pezzo di legno come remo.

Alle mie spalle, poco dopo, potei udire i rumori della battaglia: la Marina spagnola doveva aver raggiunto la Bernarda Lussuriosa, ed aveva iniziato a mettere alla prova il suo nome con i suoi cannoni superdotati.

Non saprei dire a chi avesse arriso la sorte, ma, considerando l’ingegno affinato dalla difterite del capitano Larroche, la sproporzione delle forze in campo, e il fatto che l’acqua nella quale sguazzavo si colorò presto di un rosso scarlatto, sono portato a pensare che la giustizia dei Caraibi avesse reclamato un altro bucaniere.

Del Grande Cigarro non si seppe più nulla, anche se leggende narrano di una spedizione dal Canada per recuperarlo e barattarlo in cambio di una stufa coi vicini inglesi.

Per quanto riguarda me, dopo quella volta mi ripromisi che mi sarei dato alla legalità e avrei abbandonato ogni tipo di peregrinazione marinara.

Un mese dopo, a onor del vero, mi imbarcai come rattoppavele su di una nave di piratesse lesbiche in cerca di misteriosi giocattoli sessuali Inca di oro massiccio, riuscendo a farmi accettare, unico uomo a bordo, raccontando loro di essere stato ordinato sacerdote e di poter, eventualmente, officiare matrimoni tra le componenti dell’equipaggio.

Ma questa è un’altra storia.

Valerio Moggia