giovedì 29 dicembre 2011

L'essenza della modernità

L’ESSENZA DELLA MODERNITÀ: PIRANDELLO e i SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE


Luigi Pirandello non è uno di quegli autori che non si riescono ricordare perché ce ne sono talmente tanti uguali che fatichiamo a tenere il conto. Come lui ne nasce uno ogni secolo, se siamo davvero fortunati, anzi per la nostra letteratura direi che come lui ce ne sono forse altri due, o forse nessuno. Neanche il beneamato poeta Dante, a mio avviso, può vantare una simile “altezza d’ingegno”, e so che questa affermazione potrebbe costarmi cara, ma ne sono estremamente convinta.


Chi come Pirandello ha infatti saputo esprimere tutte le incertezze della modernità? Chi come lui è riuscito a incarnare appieno la contraddittorietà dell’uomo, i mille volti della sua inspiegabile interiorità, senza dimenticare però di relazionarla con l’esterno? Come si legge nel saggio critico di D. H. Lawrence “”The Future of the Novel” (1923), egli non ha certo peccato di “self-consciousness”, cioè di egoistico piagnucolio ed eccessiva attenzione per l’interiorità più personale dell’uomo. Nelle sue opere, teatrali e non, c’è ben altro che un resoconto di tutti i processi mentali e inconsci della nostra personalità.


Uno dei lavori che più ci fa capire il perché di queste affermazioni è senza dubbio Sei personaggi in cerca d’autore, commedia del 1920 che fa parte della nota Trilogia del teatro nel teatro (insieme a Questa sera si recita a soggetto e Ciascuno a suo modo). Difficile fu per Pirandello metterla in scena: la prima a Roma fu un vero disastro, accompagnato dagli stereotipati lanci di pomodori, con corredo di tentate aggressioni fisiche al geniale autore. Ma Pirandello non si diede per vinto e continuò a lavorarci, apportando modifiche anche notevoli alla messa in scena, per renderla sempre più spettacolare e meno “cervellotica”, accusa alle sue opere che andava per la maggiore.


Questa è in breve la trama: una compagnia teatrale sta provando Il giuoco delle parti dello stesso Pirandello quando all’improvviso sbucano dal nulla quattro adulti e due bambini, che dicono di essere “Personaggi in cerca d’Autore” per il loro “dramma familiare”. Il Capocomico e gli Attori rimangono letteralmente scioccati oltre che un po’ seccati, ma dopo che il Padre ha spiegato le ragioni delle loro parole, il Capocomico decide di accettare la sfida e comincia ad assegnare le parti. Il tentativo si rivela però un vero e proprio fallimento: i Personaggi non sono per niente soddisfatti dell’interpretazione degli Attori, tanto che vorrebbero recitare direttamente loro, in modo da superare quella barriera che inevitabilmente porta a cambiare qualcosa durante la performance attorale. Ma anche questo esperimento si rivela disastroso, perché non fa che rinnovare il dolore della Madre, rifiutata da un Figlio che si è sentito abbandonato e preoccupata per l’integrità perduta della Figliastra. Dopo una serie di battibecchi tra Figliastra e Padre, Figlio e Madre, Figlio e Padre e chi più ne ha più ne metta, il dramma prende vita in tutta la sua tragicità: il Giovinetto si suicida dopo aver visto morire la Bambina, annegata perché voleva prendere un’anatrella nella vasca del giardino della casa del Padre.


Una famiglia divisa è dunque al centro della commedia di Pirandello, e fin qui niente di nuovo: i suoi precedenti “drammi borghesi” ( Il giuoco delle parti, Così è (se vi pare), Tutto per bene, ...) sono tutti incentrati sui difficili rapporti familiari e sociali che animano la vita quotidiana di tutti noi, fatta di tante contraddizioni e verità non svelate. Ma nei Sei personaggi Pirandello va oltre, toccando la delicatissima questione del rapporto tra testo e autore che anima tutto il primo Novecento: il testo, e i personaggi ovviamente, esistono anche al di là del loro autore? Pirandello dà un’interpretazione contraddittoria della faccenda.


Nel primo atto, infatti, fa dire al Padre che i personaggi vivono una vita propria e autonoma in un “oltre” immateriale, che prende forma però soltanto quando l’autore decide di farlo. Proprio per questo si sono rivolti al Capocomico, affinché una volta per tutte rappresenti questo terribile dramma che li strazia, fatto di tradimenti, prostituzione, incomprensioni, rancori e morti tragiche. Solo il Capocomico può dare ai personaggi la libertà di non rimanere intrappolati nella dimensione eterea di cui fanno parte, che non li soddisfa pienamente in quanto non può essere definita vera vita. Ma la commedia propone un ulteriore quesito: dove risiede la sottile barriera tra verità e finzione? C’è davvero differenza tra vita e messa in scena?


DE LULLO E LA COMPAGNIA DEI GIOVANI: UNA GENIALE INTERPRETAZIONE DEL DRAMMA DEI SEI


Al di là delle edizioni messe in scena sotto la supervisione dell’autore, un’interpretazione che consiglio a tutti di vedere è quella della Compagnia dei Giovani per la regia di Giorgio De Lullo, risalente al 1963. Fresca, divertente e drammatica al tempo stesso, inserita perfettamente nel suo tempo ma contemporaneamente aderente all’epoca in cui Pirandello scrisse la commedia, e adattissima anche per la nostra, l’edizione di De Lullo fu poi messa in onda in Rai, e portata in tutta Europa durante una tournée organizzata in occasione degli scambi con l’URSS.


Magistrale l’interpretazione di Romolo Valli, che, nel ruolo del Padre, coinvolge coi suoi monologhi strazianti ed emozionanti. L’animo di Pirandello è tutto concentrato in questo personaggio, che come tutti noi pecca di debolezza e autoindulgenza ma sa perfettamente rappresentare anche il lato migliore dell’umanità.


Una giovanissima Rossella Falk impersona l’irriverente Figliastra con talento e grinta: divertenti e pungenti le sue frecciate al padre, agghiaccianti le sue risate isteriche, commovente il suo affetto per la Bambina. Questo personaggio è ancora più umano e contraddittorio del precedente, perché concentra in sé rabbia e dolcezza, irrazionalità e serietà, coraggio e paura.


Da segnalare anche il Primo Attore, zimbello di tutta la compagnia per le arie che si dà ininterrottamente; la Prima Attrice, una vera diva, che fa quello che vuole, arriva quando vuole alle prove e se ne frega di tutto e tutti, salvo poi mostrarsi gelosa e con qualche debolezza di fronte al fascino della Figliastra.


Interessante anche il Capocomico, evidente parodia del precisissimo e a volte troppo pignolo De Lullo, che non sopporta l’insubordinazione degli Attori e dei Personaggi ma si inorgoglisce quando gli viene proposto di divenire l’Autore della “commedia da fare”. Simpatica macchietta il Suggeritore, che anima l’incipit della commedia con incomprensioni e fraintendimenti, dovuti al suo udito ormai scarso. Da segnalare, infine, il personaggio di Madama Pace, reso simpatico e anche un po’ ridicolo dal suo parlare spagnoleggiante, ma che in realtà nasconde la fierezza e il fascino del male.


Tutto da godere, insomma, questo spettacolo, ma anche da vivere con intensità e sofferta partecipazione, riflettendo su quale sia la vera vita, e se in fondo quella che viviamo ogni giorno non sia poi tutta una “commedia da fare”.

Roby <^>


ps. Ecco alcune scene tratte dalla messa in onda in Rai


http://www.youtube.com/watch?v=0WM33uXglXo: Il Padre riflette sulla molteplicità e la contraddittorietà della natura umana



http://www.youtube.com/watch?v=VWkDnQfb__4: L'immortalità del Personaggio

martedì 27 dicembre 2011

L'architettura del tempio indiano



STILI ARCHITETTONICI


Abbiamo tre stili architettonici per la costruzione dei templi indiani:

-Stile Nagara: questa tipologia la troviamo Nord dell’India ed è caratterizzata da una struttura curvilinea. Un esempio di questo stile è il Tempio Laxmi Narayan Mandir, situato a Delhi:
Questo tempio è stato costruito tra il 1933 e il 1939 da Baldeo Das Birla e venne inaugurato dal Mahatma Gandhi. Il tempio è dedicato Laxmi (dea della ricchezza) e a Narayan (colui che preserva).
L’intero tempio è ornato con sculture raffiguranti scene della mitologia indù. La torre (shikhara) più alta nel tempio raggiunge un'altezza di 165 piedi, mentre le torri ausiliarie raggiungere 116 piedi. Bhavan Geeta è una sala decorata con splendidi dipinti raffiguranti scene della mitologia indiana. Vi è anche un tempio dedicato a Buddha con affreschi che descrivono la sua vita e di lavoro. Il santuario è colorato con affreschi e le icone sono in marmo. Il tempio si affaccia ad Est e si trova su un alto basamento.
-Stile Dravida: questo è tipico del Sud dell’India ed è caratterizzato da una sovrastruttura piramidale; un esempio è il Tempio Kailasanatha


Il tempio Kailasanatha è un monolite colossale con ornature esterne, tutte scavate nella collina. E 'stato costruito durante il periodo di 757 e 773 d.C.
Il tempio Kailasanatha mostra caratteristiche tipiche Dravidian. Un ingresso, una recinzione per Nandi, e una fila di mandapam di fronte al santuario, che è coronato da una vimanam, composta da piani in successione decorati con edifici in miniatura. Il mandapam di fronte al santuario è una enorme sala ipostila con colonne scolpite. Su entrambi i lati del Mandapam Nandi ci sono due obelischi alti 50 piedi come pilastri decorati con sculture fregio. Una galleria munita di colonne che corre lungo la parte inferiore della parete rocciosa, costituisce un passaggio profondo e stretto che circonda il tempio. Tra questa parete rocciosa e il tempio si ha il pradakshinapatha. Lo stretto passaggio il quale sopra ha due piani di sale ipostile e gallerie porticate. Il tempio si estende su una superficie di oltre 60.000 metri quadrati, e la vimanam (torre) si eleva fino ad un'altezza di circa 90 metri. Il tempio di Ellora, Kailasanatha è stato creato da scavo di 400 000 tonnellate di roccia, scelte per brillantezza da parte dei visionari che hanno architettato il piano del tempio. Architetti dal regno meridionale Pallava sono stati richiesti per la creazione di questo tempio.
-Stile Versara: caratteristico dell’India Centrale è una via di mezzo tra lo stile Nagara e quello Dravida. Un esempio di questo stile è il Tempio Chennakesava situato a Somanthapura:




Questo tempio venne costruito da Soma, un dandanayaka, nel 1268 sotto il re Hoysala Narashima III. Il suo desing unico è in perfetta sintonia con le aziende e i terreni agricoli circostanti. Il tempio stesso, in forma stellare, ha tre pinnacoli abbondantemente scolpiti con un comune navranga e sorge su una piattaforma rialzata. I tre sanctum sanctorum un tempo ospitavano gli idoli di kesava, Janardhana e Venugopala. Oggi sono presenti solo gli ultimi due.
-Un’altra tipologia è quella del Tempio villaggio, tipica della zona Sud dell’India.
Un esempio di questo tipo è il Tempio Kailash, questo è scavato nella roccia ed è stato progettato per ricordare il monte Kailash, la dimora di Shiva; la sua costruzione risale nel VIII° Secolo dal re Rashtrakuta Krishna I.
Il tempio venne costruito partendo dalla parte alta della roccia, in modo da formare una struttura monolitica di 200.000 tonnellate di pietra, suddiviso in 34 grotte. Lo schema del tempio Kailash è sostanzialmente diviso in quattro parti principali: il corpo del tempio stesso, il corridoio d'ingresso, un santuario intermedio Nandi e il chiostro che circonda il cortile. Un tempo vi erano dei ponti in pietra che collegavano i colonnati del cortile alla struttura centrale del tempio. Il Tempio è scolpito con nicchie, intonaci, finestre così come con delle immagini di divinità, mithunas e altre figure.





TEMPIO GRECO E TEMPIO INDIANO


In India i primi tempi copiarono la capanna indigena; scavati nelle grotte, i tempi obbedirono a due tipologie: il caitya, vero luogo di culto, formato da una sala rettangolare con abside, portale a forma di ferro di cavallo e volta a botte, il vihāra, piuttosto un luogo di soggiorno e di riunione dei monaci, nel quale, vicino alla sala rettangolare, si aprivano le celle. Nella religione induista il tempio prese poi la forma di un'edicola culminante a forma di torre, formata da terrazze piramidali, o delimitata da verticali incurvate, o con i due stili mescolati. In ulteriori sviluppi il tempio indiano prese sempre più l'aspetto di una vera chiesa. Il tempio greco assume diverse forme a seconda del periodo e a seconda dei tre ordini per l’architettura templare (dorico,ionico e corinzio). Il tempio greco è sempre orientato est-ovest, con l'ingresso aperto verso est. Sulla superficie superiore (stilobate) di una piattaforma, sopraelevata rispetto al terreno circostanze, per mezzo di pochi gradini (crepidine), si elevava la struttura del tempio, caratterizzata dalle colonne. La disposizione delle colonne determina la classificazione dei tipi di pianta del tempio greco. Una caratteristica comune tra questi due templi, greco e indiano, è la presenza di una cella nella quale si trovava la statua della divinità alla quale era dedicato il tempio; nel tempio indiano questa cella prende il nome di Gabhagriha mentre in quello greco prende il nome di oikos, più in particolare naos. Inoltre in entrambe le culture il tempio ha una funzione sia religiosa che sociale.

Eliza Zilly

venerdì 23 dicembre 2011

LA CULTURA COME CATEGORIA POLITICA (parte I)

Parlando della cultura come categoria politica, viene naturale porsi almeno tre domande: cosa intendiamo per cultura? E per categoria? Qual’è il significato del termine politica? Le domande risultano tanto spontanee, quanto complesse e articolate sono le risposte, che hanno impiegato numerosissimi ottimi studiosi nel tentare di essere chiarite.
Il termine “categorie” è usato dal politoligo Felix Oppenheim come sinonimo di concetti: nel campo filosofico-politico queste due parole diventano sinonimi anche se per il dizionario italiano indicano due cose differenti (categoria è una classe che raggruppa cose della medesima specie; concetto è ciò che la mente percepisce di una cosa). La teoria di Oppenheim segue una linea ricostruzionista, secondo la quale è necessaria un’analisi del linguaggio per liberare i concetti politici da quell’ambiguità, vaghezza e genericità tipiche del linguaggio comune: bisogna ricostruire il linguaggio politico per esplicare con precisione i concetti, affinché non possano essere fraintesi e chiunque possa accedervi, anche perché il linguaggio comune ci riconduce inevitabilmente alla sfera morale e non permette la separabilità tra fatti e valori che Oppenheim tanto auspica.
Differente è il pensiero di Freeden, fondatore del center of political ideology ad Oxford: il suo approccio storicistico lo porta a ricercare non il buon uso di un concetto, ma i differenti usi comuni di un determinato concetto nella storia. A partire da questa base, sviluppa la sua teoria sulle ideologie, definite come sistemi di concetti che si relazionano tra loro mediante le parole e con inevitabili referenti nella prassi concreta: alla base delle ideologie abbiamo quindi un rapporto triplice, parola, concetto, referente, ed ogni concetto è in relazione ad altri secondo un’adiacenza logica o culturale, dando così vita ad una varietà quasi infinita di concetti politici.
Opera fondamentale in questo campo è la “Storia dei concetti” di Brunner, Conze e Koselleck, studiosi tedeschi, che nel 1967 cercano con la loro opera di fornire una raccolta complessiva del vocabolario politico. Importantissima è la distinzione tra “parola” e “concetto”, infatti non tutte le parole hanno una dimensione concettuale, mentre alcune identificano più concetti: bisogna quindi prendere in considerazione sia gli aspetti semasiologici (il mutamento del significato dei concetti nel corso della storia), sia quelli onomasiologici (la condensazione dell’esperienza storica in un concetto determinato), oltre alle inevitabili trasformazioni storico-culturali, perché fondamentale per la formazione e la trasformazione del significato di un concetto è il peculiare contesto socio-culturale. L’indagine di Koselleck sulla storia dei concetti vede infatti indissolubilmente legate la dimensione diacronica (che tratta la continuità nei processi di formazione e trasformazione di un concetto) e quella sincronica o contestuale. In questo senso quindi la storia sociale e la storia dei concetti sono tra di loro irriducibili e si rinviano reciprocamente. La peculiarità del pensiero di Koselleck sta a mio avviso nella teoria dei tempi storici, secondo la quale il lessico europeo ha subito una trasformazione decisiva a causa dei processi di democratizzazione, ideologizzazione, temporalizzazione e politicizzazione del linguaggio tra il XVIII e il XIX sec. (quella che Koselleck chiama settelzeit, che la scuola padovana retrodata a Hobbes).
Nelle teorie degli studiosi presentati, il linguaggio ha un ruolo centrale, così come nell’elaborazione del concetto di cultura; la parola “cultura” viene in realtà usata per esprimere tre concetti differenti: quello gerarchico, quello differenziale e quello generico. Per concetto gerarchico, si intende una visione normativo-prescrittiva, alla cui base c’è un’ideale di formazione individuale: l’individuo acculturato è la realizzazione in atto di ciò che la natura è in potenza, psychè e tecnè coincidono in lui e ciò gli permette di separarsi dal volgo, per appartenere ad una società diversa, “la repubblica delle lettere”. In questa visione gerarchica la cultura, universale, si contrappone ai mores, particolari. Il concetto differenziale si sviluppa a partire dall’epoca delle scoperte: filosofi del calibro di Locke, Rousseau, Voltaire, parlano di culture al plurale, per indicare le differenti culture, tutte meritevoli della stessa considerazione, che popolano il mondo, studiate dalla nuova disciplina dell’antropologia culturale. In questo senso cultura e costume coincidono e la cultura non è mai universale, ma sempre particolare, inglobando tutte le peculiari caratteristiche e attività di una società. Infine per concetto generico intendiamo una dilatazione del concetto di cultura al limite dei confini umani: la cultura è ciò che differenzia l’uomo dagli animali, ovvero tutto quel sistema di comunicazione che permette il confronto con altro; e non si tratta solo della lingua parlata, ma anche di tutte quelle funzioni prelinguistiche (simboli) ed extralinguistiche (gesti), che permettono il contatto con l’altro: la cultura è quindi linguaggio, comunicazione.
Quando la cultura, dinamica, entra in contatto con la politica, statica, si creano i concetti di cultura politica o politica della cultura. Prima di addentrarci nella trattazione di essi è importante però definire cosa intendiamo per politica. Il primo che usò il termine politikon fu Platone, che cercò nella sua opera così intitolata di dare una definizione al politico, come colui che giudica e comanda in vista del bene e possiede la scienza politica, che lo pone al di sopra delle leggi stesse; il discepolo Aristotele nella “politica” parla della scienza politica come la scienza regia, che ha il potere di governare la polis per raggiungere la felicità comune attraverso il giusto mezzo ed evitando degenerazioni. Questi filosofi partono da una antropologia positiva, secondo la quale l’uomo è un animale politico per natura; differente è l’approccio di Karl Schmitt, il quale, da hobbesiano, considera il polemos, elemento essenziale del vivere civile: così la politica diventa l’ambito dell’amicizia o inimicizia o meglio, la politica sta all’amico o nemico come la morale sta al bene o al male. Hans Morgenthau si oppose a questa concezione sottolineando come l’ambito amicizia-inimicizia non è caratterizzante della politica; in più non si può cercare un concetto unitario del politico, perché l’elemento contingente è troppo decisivo e fondamentale: il politico non possiede un’essenza unitaria.

>>FEDE

mercoledì 21 dicembre 2011

Doublespeak nel pensiero politico di Thomas Hobbes II

II CAPITOLO:
IL SOVRANO DEVE OCCUPARSI DELLA SALUTE ETERNA DEI SUDDITI?

2.1 Esposizione del problema

Sul fatto che, per Hobbes, sia il sovrano ad avere in mano il controllo della religione non vale la pena di spendere troppe parole. Avendo trasferito i sudditi tutti i diritti al sovrano, a parte il diritto naturale, quest’ultimo ha diritto di decidere come deve essere onorato Dio. Bisogna quindi stabilire se il sovrano deve preoccuparsi della salute eterna dei suoi sudditi. Sembrerebbe un problema importante ma nel Leviatano, il più tardo e importante scritto politico hobbesiano, non ci sono discussioni su tale argomento, presenti invece sia negli Elements sia, a suo modo, nel De cive. Negli Elements si pone il problema da un altro punto di vista, ovvero se il suddito deve obbedire a un sovrano non cristiano anche sulle questioni religiose. Ma il paragrafo di vero interesse è presente nel De cive: è il XII, 5:

In primo luogo, tutti i principi ritengono che siano molto importanti, per la salute eterna , le opinioni che si hanno su Dio, e il culto che gli viene prestato. Ciò supporto, si può chiedere se chi ha il potere supremo, e quelli che amministrano il potere supremo dello Stato, siano essi uno solo o molti, non pecchino contro la legge naturali se non fanno insegnare e conoscere le dottrine e il culto che attingono conducano di necessità i cittadini alla salute eterna; e permettono invece che sia insegnata e fatta conoscere una dottrina contraria. È chiaro che agiscono contro coscienza, e vogliono, per quanto sta in loro, la dannazione eterna dei cittadini. Infatti, se non la volessero, non vedo per quale ragione (visto che, essendo supremi, non possono venire costretti), dovrebbero permettere che si insegnassero e facessero delle cose, che credo causino la dannazione dei cittadini. Ma lasciamo in sospeso questa difficoltà.
(8.8 De cive VII, 5)

Come mai Hobbes vuole lasciare in sospeso questa difficoltà? E soprattutto visto che non conclude la discussione nel De cive, come mai non è ripresa nel Leviatano? Il sovrano si deve impegnare o no per far ottenere la salvezza dopo la morte ai cittadini? Si deve dunque occupare della salute eterna dei cittadini? Ma la domanda fondamentale, e la meno scontata, è: le due domande precedenti intendono la stessa cosa? Per rispondere a queste domande si necessita di vedere alcuni aspetti del pensiero di Hobbes, per l’esattezza come ci si deve comportare in caso di controversie religiose, cosa pensa Hobbes del martirio e che funzione ha la legge.

2.2 Che comportamento assumere in caso di controversie religiose

Non presenta grandi difficoltà anche solo immaginare cosa prevede Hobbes per le controversie religiose. Ovviamente esse vanno riportate, ad eccezione di dilemmi sulla natura del Cristo, alla chiesa. Ne si trova chiara esplicitazione nel capitolo X degli Elements:

e poiché la nostra fede, che le Scritture siano la parola di Dio, ebbe origine dalla confidenza e diffusa che noi riponiamo nella chiesa; non vi può essere dubbio che sia più sicuro per un uomo fidarsi della di lei interpretazione delle Scritture medesime, quando sorga qualche dubbio o controversia… piuttosto che dal proprio ragionamento…9
(9 Elements I, 10)
(10 De cive XVIII, 10)

Ma se la chiesa prescrivesse qualcosa di contrario all’ordine del sovrano il suddito si troverebbe in una situazione problematica: rischierebbe una punizione temporale in caso di disobbedienza civile e una spirituale in caso di disobbedienza alla chiesa. Risulta quindi evidente che non può esserci un rapporto paritario tra chiesa e stato, e Hobbes non ha nessun dubbio ad attribuire la predominanza a quest’ultimo. La grande macchina macchinarum è infatti la sola ad avere la possibilità di apportare la giustizia vendicativa, quindi quel deterrente (che come vedremo tra poco) è fondamentale per assicurare l’obbedienza del suddito.
In definitiva non si può che concordare sul fatto che per Hobbes le controversie religiose devono essere affidate alla valutazione del sovrano.

2.2 Il martirio è accettabile in Hobbes?

A questo punto del discorso ci si deve per forza porre un problema. Se il sovrano non è cristiano, come devo comportarmi? Pronta arriva la risposta di Hobbes:

Se chi ha il potere non è cristiano, è incontrovertibile che anche un cittadino cristiano gli deve la stessa obbedienza in tutte le cose temporali; quanto alle spirituali, cioè a quelle che riguardano il modo di adorare Dio, si deve affidare a una Chiesa cristiana. … Si deve opporre resistenza ai principi, quando non si deve obbedire loro? Niente affatto: questo sarebbe contro il patto civile. Cosa si deve fare allora? Andare a Cristo attraverso il martirio. Se a qualcuno questo appare troppo duro a dirsi, allora è certissimo che costui non crede con il cuore che GESU’ E’ IL CRISTO…10

Mi sia concessa una piccola nota sul fatto che è la prima citazione dove Hobbes usa chiesa con la C maiuscola, in seguito potrò affermare che in questo caso è perché è utile ai suoi scopi non certamente religiosi. Ma tornando all’analisi di questo passo si vede che il cristiano deve addirittura arrivare al martirio, rinunciando quindi alla sua stessa vita. La motivazione è che la morte è comunque preferibile alla dannazione eterna, quindi è più utile per il suddito affrontare il martirio. Spenderei un’ulteriore osservazione per estendere questa situazione anche alle situazioni in cui io non riesco a convincermi della legittimità di un dettame della chiesa: non essendoci possibilità che una chiesa cristiana sbagli, è evidente che in verità essa non sarebbe seguace del Cristo, tornando quindi alla situazione appena delineata.
Tuttavia su questo argomento Hobbes effettua una revisione nel Leviatano, affermando che è sufficiente una convinzione in foro interno, pur adeguandosi in foro esterno. Questo permetterebbe sia la conservazione della vita e, contemporaneamente eviterebbe alla persone la dannazione eterna. Personalmente considero, in un ottica hobbesiana, molto più convincente questa formulazione, in quanto maggiormente vicina all’utile del suddito, non costretto a dover affrontare la morte.
Riassumendo questo paragrafo si può dire che in caso di disaccordo con un dettame religioso si dovrebbe andare o incontro al martirio o almeno adeguarsi in foro esterno.

2.3 La legge

Hobbes non è a favore di discorsi moraleggianti per far cambiare il comportamento alle persone. Li reputa inutili. Se voglio che una persona non faccia una determinata cosa ho due possibilità per fermarla: impedirgli fisicamente di effettuarla11 oppure rendere per lui più conveniente non farla12. Un bel discorsetto non serve: se voglio che mia mamma smetta di fumare non devo dirle che il fumo fa male, che peggiora anche le nostre saluti o cose simili; devo, invece, rubarle le sigarette o minacciarla di subire danni fisici considerevoli nel caso fumi ancora.13 Per ovvi motivi né il sovrano né i suoi ministri (o funzionari) possono essere presenti in tutte le situazioni, quindi fondamentale è rendere l’utile del sovrano l’utile dei sudditi? Come può fare questo? Con la parte vendicativa della legge. Io posso ritenere utile per me fare una rapina in banca, ma se, nel caso venga arrestato, è prevista per me una dura punizione sarei portato a reputare meglio per me non effettuare tale rapina. E questo ragionamento si può effettuare con i più svariati interessi che il sovrano considera utili ai suoi scopi.

11 Le leggi nella concezione di Hobbes sono spesso paragonate alle siepi che guidano il percorso di un campagnolo inglese, impedendogli di uscire da esso ma lasciandolo libero di movimento al suo interno.
12 Si vedano le definizioni che Hobbes fornisce di comando e legge nel paragrafo XIII,6 della prima parte degli Elements. COMANDO: discorso mediante il quale significhiamo a un altro il nostro appetito o desiderio di far fare qualcosa. LEGGE: comando con ragione sufficiente per muoverci all’azione.
13 Mi sia permessa una nota umoristica: ammetto che nel caso si dovesse essere comportato così con sua madre il piccolo Thomas non sarebbe stato di certo un figlio facile (contando anche i problemi che ha causato con un parto prematuro).

2.4 Conclusione

Proviamo a ripercorre i passaggi che abbiamo appena compiuti al contrario. Abbiamo visto che il compito del sovrano è far si che sì il suo utile sia condiviso dalla popolazione; per far questo egli istituisce delle punizioni atte a far apparire meno attraenti delle scelte. Un problema però si pone: e se nonostante la pena io preferisco effettuare il reato? Se io odiassi a tal punto una persona da volerla uccidere pur sapendo che questo causerà la mia morte? Per il sovrano questo è un problema serio. Può certamente aggravare la pena con torture, ma ciò potrebbe non bastare. Ma prima abbiamo visto che il suddito dovrebbe temere una cosa molto di più della morte: la dannazione eterna. Quindi se alla pena civile si andasse ad aggiungere una pena spirituale, egli sarebbe ancor più incentivato a non effettuare l’azione incriminata. Bisognerebbe quindi che le autorità civili e quelle ecclesiastiche concordino nella visione dell’utile; ma ciò in Hobbes succede perfettamente: come abbiamo visto prima entrambe le autorità sono in mano al sovrano! Mettendo come necessarie per la salvezza eterna quelle che corrispondono all’utile del sovrano, quest’ultimo otterrebbe un netto vantaggio sia con la teoria espressa nel De cive, sia con quella espressa nel Leviatano. Nella prima, la persona andrebbe incontro al martirio, e morendo non ostacolerebbe più l’utile del sovrano; nella seconda, egli andrebbe avanti, per esempio, a credere che l’omicidio possa essere compiuto ma si adeguerebbe in foro esterno, non causando quindi problema alla gestione dell’ordine costituita per garantire l’utile del sovrano. So bene che qualcuno criticherà questa tesi sostenendo che abbia validità solo con persone credenti, tuttavia mi sembra che sia un ulteriore ottimo deterrente nelle mani del sovrano,che a questo punto deve occuparsi della salute eterna dei suoi sudditi, non tanto in vista della loro futura salvezza, ma utilizzandole per aumentare la parte vendicativa della legge. Con questa lettura le disposizioni religiose sulla salute eterna sarebbero dei semplici strumenti di governo del sovrano.

Pietro Giuliani
Originale su https://sites.google.com/site/phiperfilosofia/doublespeak-in-hobbes

lunedì 19 dicembre 2011

VisioniAlternative: Harold & Maude (1971)



 20 dicembre 1971- 20 dicembre 2011

Esattamente quarant’anni fa usciva nei cinema americani “Harold and Maude” di Hal Ashby. Se non ne avete mai sentito parlare, non dovete chiedere al pubblico di allora, perché il film fu un flop e probabilmente nessuno o quasi ne parlò. La consacrazione di quest’opera straordinariamente audace e moderna è giunta solo negli anni, nel corso dei quali ha guadagnato un folto pubblico di estimatori che ne hanno fatto un vero e proprio “cult” underground. Una piccola perla cinematografica che aspetta solo di essere riscoperta, anche e soprattutto dal pubblico italiano.

Stiamo parlando semplicemente di una delle più belle commedie di sempre, una delle storie più strambe, surreali, poetiche, commoventi e divertenti mai raccontate. La storia dello stravagante rapporto di amicizia-amore tra il ventenne Harold, giovane ricco e stralunato e l’ottantenne Maude, arzilla vecchietta piena di risorse ed entusiasmo. Lui è un ragazzo complessato, oppresso da una madre invadente e rigidamente ingessata, con una patologica attrazione-ossessione per la morte. Trascorre tutto il suo tempo a inscenare finti suicidi per impressionare (invano) la madre, recandosi ai funerali di sconosciuti e guida un carro funebre accuratamente scelto e recuperato da una vecchia rimessa. È proprio ad un funerale che Harold incontra per la prima volta Maude. Anche lei ama assistere ai funerali per “celebrare la morte come parte dell’infinito ciclo della vita”. Maude ama profondamente la vita in tutti i suoi aspetti e vive al massimo ogni momento all’insegna di un gioioso e spregiudicato anticonformismo. Guida auto che ruba per la strada senza patente, trascorre il tempo contemplando lo spettacolo della natura o di un palazzo che viene demolito, canta e balla senza inibizioni. Con lei Harold imparerà a vivere per la prima volta e in lei troverà la sua “anima gemella”.

L’amicizia tra i due si può meglio definire un rapporto di profonda intesa tra spiriti affini che sfocia alla fine in un amore che rappresenta una sfida deliberata a ogni convenzione e regola sociale. Ed  è proprio qui che sta il messaggio di “Harold e Maude”: il film ci invita a liberarci a poco a poco delle stupide e noiose regole, convenzioni e principi imposti dalla società e dal mondo “normale” per vivere pienamente all’insegna della propria creatività e delle proprie eccentricità. E pian pano l’atmosfera stralunata e surreale nella quale ci immergiamo con i due protagonisti diventa consueta, accettabile e desiderabile in confronto alla piattezza, alla banalità e alla grigia apparenza del mondo “normale”, incarnato dalla madre di Harold, perfetto stereotipo di una società benestante e benpensante che si trastulla in occupazioni mondane costruendosi attorno una tomba di finta rispettabilità. Harold e Maude sono veramente vivi e liberi e per questo così lontani e incomprensibili per il mondo istituzionale. In questo senso resta nella storia la scena in cui si susseguono uno dopo l’altro la madre, lo psichiatra di Harold, lo zio Victor ufficiale dell’esercito e il prete nell’esprimere in maniera ripetitiva e stereotipata il proprio disgusto e la propria disapprovazione all’annuncio di Harold di voler sposare Maude, con la quale il regista rivolge compiutamente il suo sberleffo ad ogni forma di autorità, ai quattro pilastri della società borghese (la famiglia, la scienza/psichiatria, l’esercito e la religione). E poco importa se alla fine i piani del giovane non troveranno d’accordo Maude, quel che conta è che l’Harold che esce da questa esperienza è uomo e non ha più bisogno di morire (per finta) per sentirsi vivo …

Il film rivela chiaramente la vicinanza (più ideologica che non anagrafica) del regista ai movimenti di controcultura e contestazione degli anni ‘60- ’70 (molto attuale per l’epoca la critica al militarismo americano attraverso la grottesca caricatura di Zio Victor), ma esprime anche una critica tagliente nei confronti delle nuove generazioni, rappresentate in una condizione di “Impasse esistenziale”, incapaci di dare una forma compiuta alla loro vita, a differenza di Maude che ha vissuto gli orrori della guerra e che si gode ogni momento di felicità che la vita offre. Anche in questo caso, una tematica più che attuale.

“Harold e Maude” è molto più di una commedia e di una storia d’amore, è un’opera che colpisce e fa innamorare per la sua spiazzante modernità, per le battute fulminanti, perché è un film che sprizza anticonformismo da tutti i pori e riesce a commuovere e a far riflettere ma al tempo stesso fa venire le lacrime agli occhi dalle risate (esilaranti il dialogo tra Maude e il poliziotto in motocicletta e le varie messinscene orchestrate da Harold per dissuadere le malcapitate pretendenti scelte dalla madre). In breve non c’è una scena che non si distingua per originalità e arguzia. Aggiungeteci una regia impeccabile e una serie di inquadrature innovative che accentuano l’atmosfera straniante della pellicola (d’altronde il buon Ashby, pur avendo avuto la sua parte di successo, rimane uno dei talenti più sottovalutati espressi da Hollywood). E ancora un’interpretazione straordinaria dei due protagonisti (Ruth Gordon, Premio Oscar come miglior attrice non protagonista per “Rosemary’s baby” di Polanski, qui nella sua ultima interpretazione, e il quasi esordiente Bud Cort, che nonostante abbia avuto una discreta carriera rimarrà sempre il pallido Harold dallo sguardo allucinato) che danno vita a due tra i personaggi più teneri e buffi di sempre. E infine una strepitosa colonna sonora firmata da Cat Stevens (con due brani inediti composti per il film, “Don’t be shy” e “If you want to sing out, sing out”). Non vi ho ancora convinto che questo è un “cult movie” con la C maiuscola assolutamente da non perdere?

Di solito si dice che un capolavoro è tale perché rimane attuale a distanza di tanti anni. Per me questo film è ancora oggi troppo avanti nonostante i 40 anni suonati …


/Fabio/


Qui trovate alcune immagini del film (alcune inedite e mai inserite nella versione finale) con il sottofondo del brano "If you want to sing out, sing out" richiamato più volte nel corso del film : http://www.youtube.com/watch?v=5mz3TkxJhPc
 e qui due scene tra le più famose e significative: http://www.youtube.com/watch?v=gDdjI1-x1l4            
 E infine i due brani di Cat Stevens che racchiudono il significato del film: 

 

sabato 17 dicembre 2011

Il Moral Judgement

L’influsso emozionale nella sfera della razionalità: il moral judgement

“La ragione è completamente strumentale. Essa non può dirci dove andare; tutt’al più può dirci come arrivarci. È un’arma da utilizzare che può essere impiegata per ottenere un qualche scopo, buono o cattivo che sia” sostenne Simon (1983) volgendosi verso il grande problema della razionalità dei comportamenti.
È possibile determinare un ventaglio di regole normative pratiche che indirizzino l’individuo verso un comportamento razionale che assicuri il miglior grado di soddisfazione soggettiva?
Siamo in grado di costruire modelli predittivi del comportamento?
Riusciremo ad avere un coscienziometro?
Tutte domande che hanno dato impulso alla nascita della Neurotica, disciplina che si destreggia nel campo d’indagine dei processi decisionali riguardanti valutazioni e azioni morali.
Simon coniando la nozione di razionalità limitata ha messo in luce quanto sia restrittivo circoscrivere il comportamento umano all’assunzione di modelli puramente razionali. Chiaro imput dell’inadeguatezza nel basarsi solo su coerenti e stabili regole logiche viene dai risultati ottenuti nelle ricerche degli ultimi 35 anni, le quali hanno documentato come molte decisioni vengono prese non in base a teorie standard decisionali, ma seguendo fattori giudicati dall’approccio normativo classico “irrilevanti”. Spesso l’individuo, seguendo la scia dell’istintività, piuttosto che eseguire un’azione che gli assicurerebbe razionalmente un esito migliore, utilizza strategie intuitive e semplici euristiche efficaci il più delle volte ma nello stesso tempo rischiose perché produttrici di distorsioni o errori sistematici.
Da non sottovalutare quindi è l’influsso che l’ambito emozionale può avere nella sfera decisionale, entrando a volte in conflitto con la razionalità soprattutto nella sfera del giudizio morale, il quale implica scelte di tipo etico. La Neurotica, come l’ etica filosofica, infatti si propone di comprendere il relativo ruolo di ragione ed emozione nel processo della presa di una decisione morale, anche se continua a risultare difficile fornire fin da principio una definizione formale del giudizio morale.
Da un punto di vista pratico il moral judgement è una valutazione di comportamenti e azioni di una persona definite in base ad una serie di virtù rese obbligatorie da una cultura o da una comunità.
La storia del pensiero occidentale mostra come questo sia stato generalmente sbilanciato in favore della ragione contro l’emozione; non così però all’inizio del Novecento, quando Freud e la psicologia comportamentista suggerirono che il giudizio morale fosse prodotto da fattori emotivi non-razionali. Con la rivoluzione cognitiva e i lavori di Lawrence Kohlberg (che riprende quelli di Jean Piaget), il giudizio morale torna ad essere prodotto del ragionamento e della cognizione superiore. Tuttavia, negli anni ’80, a seguito della cosiddetta “rivoluzione emotiva”, rinforzata negli anni ’90 dall’attenzione crescente ai processi mentali automatici, si assiste al ritorno della considerazione del ruolo dell’emozione nel processo di presa di decisione morale; e qui s’inserisce lo sviluppo degli studi neuroetici.
Per molto tempo quindi è stato enfatizzato il ruolo della razionalità nella formulazione del moral judgement creando una forte analogia con la descrizione di massime ed imperativi nella Critica della Ragion Pratica kantiana.
Sulla cresta dell’onda razionalista, Kohlberg (1987) sottolinea come i giudizi morali prescrivano ciò che si dovrebbe fare nelle situazioni in cui varie richieste entrino in conflitto tra loro. In quest’ottica le emozioni morali non sono la diretta causa dei giudizi morali anche se possono fungere per queste ultime da stimolo. Risulta chiaro quanto la teoria dello sviluppo morale di Kohlberg sia strettamente influenzata dalla filosofia kantiana.
Il filosofo di Königsberg sottolinea come la legge morale sia un imperativo categorico che obbliga le azioni particolari dei singoli a sottomettersi all’incondizionata legge della ragione.
Distaccandosi invece dal modello razionalista-kantiano altri studiosi come Damasio (1994) pongono come perno per la formulazione del giudizio morale l’emozione, l’affettività e l’intuizione, rifacendosi al modello intuizionista.
Ma è con Greene e colleghi (2001 - 2004) che, dopo un’attenta analisi delle aree cerebrali interessate nella gestione delle emozioni e delle valutazioni morali attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), viene messa a punto l’innovativa Dual-process Theory, in grado di spiegare la differenza comportamentale delle persone davanti a due situazioni di dilemma morale apparentemente simili (il Trolley Dilemma e il Footbridge Dilemma). Proprio il conflitto tra razionalità ed emotività è in grado di denotare le difficoltà nel fornire risposte a questioni che implicano un dilemma morale. Non esisterebbe in sostanza un modulo o centro morale, piuttosto una continua interazione (e lotta) tra processi emotivi e cognitivi realizzati da sistemi cerebrali dissociabili. Greene et al. ripropongono i dilemmi morali di Thomson (1986) sottolineando come i giudizi morali variano in base alla situazione che può essere personale o impersonale.
La prima è quella in cui la violazione del principio morale causa un danno grave diretto a una o più persone che non deve risultare da una deviazione di una minaccia esistente, mentre la seconda è il venir meno di uno di questi aspetti.

1. DILEMMA MORALE IMPERSONALE. DILEMMA DEL TROLLEY.

Una locomotiva senza controllo si sta dirigendo verso 5 operai che stanno lavorando sui binari. Il percorso dei binari presenta un binario secondario a sinistra verso cui si può far deviare il percorso della locomotiva. Tuttavia nel tracciato di sinistra c’è un altro operaio che lavora. È appropriato azionare il cambio il modo da deviare il trolley sul binario secondario e salvare così 5 operai? La risposta della maggior parte delle persone affermativa. L’impersonalità della situazione e l’azione mediata che comporta l’azionare la leva del cambio sprona la maggior parte degli uomini ad optare per una soluzione razionale ed utilitaristica: salvare 5 vite piuttosto che una sola. L’azione infatti comporta la deviazione di una minaccia. L’obiettivo non risulta essere uccidere l’operaio che lavora sul binario secondario (questa è solo una conseguenza anticipata e/o prevista).


2. DILEMMA MORALE PERSONALE. DILEMMA DEL FOOTBRIDGE.

Una locomotiva senza controllo si sta dirigendo verso 5 operai che stanno lavorando sui binari. Ti trovi proprio su un ponte sopra ai binari assistendo alla scena e capendo che l’unico modo per fermare il trolley è gettare un peso molto grosso che lo blocchi. Lì vicino c’è uno sconosciuto molto grasso. È appropriato spingere giù dal ponte lo sconosciuto in modo da fermare il treno e salvare le vite dei 5 operai? La maggior parte delle persone ha risposto che questo atto risulterebbe inappropriato. Si tratterebbe di una azione diretta che colpirebbe profondamente il soggetto nella sua emotività, in quanto è più cosciente che mai di star compiendo un omicidio (a livello giuridico) fisicamente con le sue mani. Una persona innocente danneggiata in modo diretto verrebbe usata come mezzo per un fine, violando così l’imperativo categorico kantiano.




Secondo Greene e colleghi i dilemmi morali personali suscitano risposte emotive negative che portano l’individuo a considerare l’azione come non appropriata. Nel cercare di superare la distinzione tra personale e impersonale ci si dovrà focalizzare sul ruolo dell’intenzionalità, aspetto alla base del Principio del Doppio Effetto (Moore, Clark e Kane 2008). Questa teoria etica sancisce la liceità di danneggiamento di un individuo se la sua conseguenza comporta un bene maggiore, mentre danneggiare qualcun altro come mezzo deliberato per un bene maggiore non risulta essere appropriato. Sempre nel loro studio del 2001, Greene et al. hanno identificato un decisore che dovrebbe andare oltre la reazione emotiva utilizzando una sorta di “controllo cognitivo”. Questo è capace di giudicare un dilemma morale personale come appropriato, permettendo così all’individuo di trovare una giustificazione razionale all’azione e, con un’ottica utilitaristica, considerare la violazione morale come accettabile se al servizio di un bene maggiore.
Anche nell’ambito della Teoria dei Giochi si rivelano aspetti indubbiamente interessanti riguardo la scelta tra diverse opzioni.


1. DILEMMA DEL PRIGIONIERO. GIOCO NON COOPERATIVO.

Due criminali vengono catturati ma non ci sono prove a loro carico. Vengono messi in due celle diverse e a ciascuno singolarmente senza che l’altro possa ascoltare viene detto: “Se tu confessi e il tuo complice no, tu sei libero e il tuo complice si prende 7 anni; se confessa anche lui però, vi prendete 6 anni a testa; d’altra parte, se non confessi e il tuo complice confessa, lui è libero e tu vai in prigione per 7 anni; infine, se non confessate nessuno dei due, siccome non abbiamo prove, possiamo tenervi dentro solo per 1 anno”. La Teoria prevede che la strategia ottimale di questo gioco non cooperativo sia la confessione, perché chi confessa ha un range di condanne da 0 a 6 anni, mentre chi non confessa da 1 a 7, la condanna media è superiore nel secondo caso rispetto al primo. L’azione del confessare, in questo esempio, è strettamente funzionale a minimizzare la pena per ogni singolo giocatore, sperando che l’altro non faccia altrettanto. Se però l’altro adotta la stessa strategia, rischieremmo comunque meno che evitando di far condannare l’altro confessando. Il rischio però è alto. In questi giochi si suppone che non vi sia collaborazione e che nessuno dei due giocatori conosca la scelta dell’altro.

2. GIOCO DELL’ULTIMATUM. GIOCO COOPERATIVO.

Vi sono due giocatori e una certa quantità di danaro, di cibo, di qualsiasi cosa si voglia dividere. Il primo giocatore sceglie come suddividere (per esempio, 50 e 50) e il secondo sceglie se gli sta bene la divisione. Se approva si procede alla scissione altrimenti nessuno prende niente. Molti ritengono che questo gioco sia un ottimo simulatore delle interazioni all’interno di una società umana e un indicatore dell’avversione della gente per le ingiustizie. Infatti, un’azione ingiusta del primo giocatore, quello che deve dividere la quantità, porta ad una reazione del secondo giocatore tale per cui la strategia ingiusta si rivela poi fallimentare. Il secondo giocatore infatti reagisce alle offerte del primo a livello emotivo non accettando a volte una divisione giusta come se volesse far valere qualche sorta di ricatto, essendo lui, in definitiva, a scegliere se concedere il premio a entrambi; ma un’azione del genere sarebbe dannosa in parti uguali, e quindi la leva ricattatoria decadrebbe. Logicamente a livello d’insiemistica 1 è meglio di 0 e quindi è razionalmente lecito accettare qualsiasi offerta avanzata dal primo giocatore perché risulterebbe in ogni caso un guadagno.



Mariangela Lentini e Maria Corinna Traversa

giovedì 15 dicembre 2011

Il tempo indiano

IL TEMPIO INDIANO



SIGNIFICATO DEL TEMPIO INDIANO



Il tempio hindu è riflesso dell’universalità e corpo e dimora della divinità. La costruzione di un tempio, in India, rappresenta la costruzione di un luogo sacro, in quanto in questo viene trasferito il centro ideale dell’universo; questo centro è costituito da un asse immaginario che attraversa i cieli, la terra e i regni sotterranei. Inoltre nei templi avviene la comunicazione tra fra il piano terreno e quello trascendentale. L’edificazione di un tempio viene considerata un’arte che ha come finalità l’elevazione dello spirito.
Il tempio rappresenta la complementarietà tra macro e microcosmo in quanto gli architetti per lo più brahamani si pongono come scopo quello di ricreare la forma dell’universo seguendo la struttura quadrata del mandala, ottenendo così dai 64 agli 81 Pāda. Per esempio, nel caso degli 81 Pāda, sul bordo esterno del tempio si trovano 32 divinità ( rappresentano i 28 giorni del ciclo lunare, più 4 Lokapala ovvero i guardiani delle regioni cardinali).
Anche la scelta del luogo nel quale viene costruito il tempio ha un significato simbolico: vengono prediletti i luoghi considerati sacri, ad esempio su colline o vicino ai fiumi.

COSTRUZIONE DEL TEMPIO INDIANO
Subito dopo la scelta del luogo viene tracciata la pianta preliminare del tempio. Le fasi successive sono:
- Purificazione del terreno e rito dell’orientazione;
- Scelta dell’upapitha;
- Nell’adhasthāna si ha la fondazione del tempio: questa consiste nell’offerta di piccoli pezzi di pietre o metalli preziosi chiusi in una cassetta secondo precise norme che variano a seconda del Dio al quale viene dedicato il tempio;
- Si elevano diverse parti (verga) del tempio;
- Riti di consacrazione;
- Rito dell’apertura degli occhi (Nayanonmīlanā);
- Il dono del soffio ( Prānapratishtā).
Queste ultime tre fasi sono necessarie per dare vita alla divinità (Mūrti). L’aspetto dinamico del tempio è rappresentato dal Pradakshina, questo simboleggia il viaggio della coscienza, la quale si reintegra nella chiarezza immota dell’uno-tutto.


STRUTTURA DEL TEMPIO
Le parti del tempio sono quattro:
- Mandapa;
- Antarala;
- Gabhagriha;
- Gopuram.
Il Mandapa è una sala con massicci pilastri che sostengono il tetto, questa precede il Gabhagriha.
L’Antarala è il corridoio di accesso che porta al Mandapa.
La Gabhagriha viene definita la “casa dell’embrione”, è una cella nella quale si trova la statua della divinità; questa statua rappresenta la manifestazione della divinità al fedele. Sotto questa cella vi sono delle giare piene di oggetti simbolici; inoltre, questa cella può contenere più di una statua. Solitamente l’apertura che conduce alla cella è costituita da due pilastri inseriti nel muro a formare una sorta di cornice.
Il Gopuram è l’atrio che dà accesso alla zona templare. Questo simboleggia sia l’universo terreno sia quello divino. Molte volte possono essere presenti più Gopuram e spesso vengono anche decorati, soprattutto nel Sud dell’India.



CERIMONIE ALL’INTERNO DEL TEMPIO
All’interno del tempio, nella Gabhagriha si trova la statua del Dio. Questa rappresenta l’involucro dove la divinità scende in terra e va ad incarnarsi. Le statue vengono vestite in quanto sono considerate vive. All’interno del tempio avviene la cerimonia del Puja, che consiste:
- Nel lavaggio della statua (abisheka): viene fatto con varie sostanze, ad esempio latte, miele, burro fuso e acqua con petali di rosa;




-Nella vestizione della statua, che rappresenta il momento in cui il Dio si è palesato ai fedeli.


Inoltre i fedeli portano dei doni alle divinità.



ALTRE FUNZIONI DEL TEMPIO


A partire dal VI-VII Secolo d.C. , il tempio diviene un punto importante della vita pubblica e anche dal punto di vista socio-economico: intorno a questi gravitano, oltre ai sacerdoti, anche gli assistenti dei brahmani, addetti alle pulizie, musicisti e danzatrici (deva-dāsi). Inoltre all’interno del tempio si riuniscono i fedeli per giocare. Il tempio è considerato luogo delle benedizioni ma anche dei beni desiderabili.




Eliza Zilly

martedì 13 dicembre 2011

Warhammer 40k: Space Marine


Dunque ecco qua la mia prima recensione. Partiamo subito con un titolo recente e dal gameplay semplice ed immediato.  Sviluppato da Relic Enterteinment e pubblicato da THQ questo Space Marine non brilla certo per originalità di gameplay. Si tratta di un classico sparatutto con visuale in terza persona come vanno di moda da qualche anno a questa parte (qualcuno ha detto gears of war?). Niente di nuovo sotto il sole dunque, gli elementi di gioco sono i soliti, si avanza attraverso livelli tridimensionali ben disegnati anche se piuttosto lineari massacrando qualsiasi cosa si muova e non abbia addosso un’armatura corazzata blu. Alla lunga potrebbe anche diventare noioso ma per fortuna non è questo il caso. Il giocattolo di Relic fa di questa sua immediatezza il punto di forza e massacrare orki non è mai stato cosi divertente, il set di armi è ampio e si va componendo durante la partita, ogni tanto infatti il nostro soldatino blu troverà per strada delle capsule contenenti nuovi e mirabolanti strumenti di morte oppure nuove corazze e cosi via: si passa dal classico fucile mitragliatore fantascientifico al fucile laser piuttosto che alla pistola al plasma Si possono trasportare fino a quattro armi da fuoco contemporaneamente, più una da mischia, e qui viene il bello. 
 

Il pacchetto di armi da corpo a corpo presente nel gioco è fenomenale dal semplice coltello alla mirabolante spada a catena (una vera e propria spada con lama a motosega) all’ascia bipenne  fino al potentissimo martello tuono. Il corpo a corpo è una componente molto importante e molto curata, i pelle verde infatti sono sempre e comunque in sovrannumero, una vera e propria orda senza fine, inutile dire che trovarsi a corto di proiettili è una costante, perlomeno giocando a livello di difficoltà dal medio in su, inoltre essendo piuttosto scarsi in quanto a mira i nostri simpatici amici tendono a caricare e a questo punto la vostra fedele arma da corpo a corpo vi può solo essere utile.  Gameplay classico quindi come si è detto ma realizzato con grande cura, una nota di merito va al passaggio da armi da fuoco a corpo a corpo, veramente intuitivo. Non manca poi qualche chicca come le sezioni col jet pack stile morte dall’alto, che non vi descriverò per non rovinarvi la sorpresa.

Detto ciò passiamo alla grafica, niente di eccezionale per quanto riguarda i dettagli delle textures, come ci hanno abituato oramai quasi tutti i titoli sviluppati su console, textures pulite senza troppi fronzoli ma funzionali. Massimo dei voti invece per quanto riguarda le animazioni e i modelli poligonali, sia gli orki che gli space marine si muovono  e combattono in modo molto fluido, inoltre il motore grafico permette di muovere un numero di modelli veramente alto contemporaneamente senza subire perdite di framerate. Buonissime anche la animazioni facciali, molto naturali e fluide. Insomma una grafica pulita funzionale e non troppo pesante e bella da vedere, niente di eccezionale ma di sicuro un buon lavoro. Una menzione particolare va all’occhio di riguardo usato per le scene cruente, il gioco ne è intriso e sono realizzate veramente bene, tanto che realizzare delle combo particolarmente sanguinarie è l’unico modo per recuperare vita, il tutto ovviamente con una tavolozza di colori molto fumettosa che ricorda parecchio quella usata per le miniature del gioco da tavolo.

Fin qui un titolo come ce ne sono a bizzeffe sul mercato, e francamente sotto questi due punti di vista ne girano anche di migliori, e allora perché acquistare proprio il lavoro di Relic? Beh prima di tutto perché sfrutta una licenza che dire che si presti a un gioco del genere è riduttivo. Per quelli che non sanno cosa sia Warhammer 40.000 stiamo parlando del gioco di strategia di miniature più venduto al mondo probabilmente, e vi consiglio caldamente di farvi un giro qui: http://www.games-workshop.com 

In breve ci troviamo in un futuro lontano quanto oscuro, il quarantunesimo secolo non è certo un tempo da mammolette, orde di alieni minacciano l’imperium del genere umano assieme alle preponderanti forze del caos. Unico baluardo dell’Imperium sono gli Adeptus Astardes, gli space marine, guerrieri modificati geneticamente che non invecchiano non si ammalano e che passano la loro eterna esistenza laddove la battaglia è più cruenta. Nel gioco di Relic ci troviamo ad interpretare per la precisione il ruolo del Capitano Titus degli Ultramarine. Che assieme alla sua divisione è stato distaccato su Graia, enorme pianeta fabbrica di armi per l’imperium, che è stato recentemente attaccato dagli orki, razza aliena che ricorda molto da vicino la sua controparte fantasy. Enormi rozzi e verdi sono potenti quanto stupidi e si riproducono a una velocità spaventosa.  Detta cosi sembra una classica trama da fantascienza di serie B, e invece no, le ambientazioni  in cui ci si trova a camminare sono curate nei minimi dettagli e riescono a rendere perfettamente l’idea alla base del gioco, i personaggi sono caratterizzati ottimamente ognuno con il suo proprio carattere e le sue idee. Non mancano i colpi di scena giocati piuttosto bene anche se un pochino telefonati. Infine l’epicità che permea l’intera storia non può fare a meno di incollare allo schermo e far spingere l’acceleratore fino alla fine che ve lo anticipo non delude per niente.

In definitiva Warhammer 40000: Space Marine è un gioco come tanti sotto tutti gli aspetti tranne uno, che però va a sorpassare tutto il resto, semplicemente non si vedeva uno sparatutto con una trama scritta cosi bene da tantissimo tempo. Se a questo aggiungete il fatto che il suo gameplay sarà pure classico ma è realizzato perfettamente e non annoia per niente, anzi diverte e parecchio, beh non so come potete fare a meno di giocarvelo.

Paolo Gabbiani

domenica 11 dicembre 2011

Episodi di Medioevo

Il seguente articolo rientra nella nuova sezione “Discorsi Tesi”, il cui obiettivo è presentare in breve il risultato di una ricerca, appunto la tesi di laurea, per fornirvi interessanti spunti da seguire per saperne di più sul tema trattato: ovviamente i pezzi non hanno lo scopo di darvi un quadro esauriente (che sarebbe impossibile fornire in poche righe, dato che ci è voluta un'intera tesi) ma dare il là per vostre future ed eventuali ricerche. Iniziamo con il discorso della laurea triennale di Andrea Danile, del 2009. Buona lettura!

Fra documenti e documentari. Episodi di Medioevo
Ciò che mi ha spinto ad interessarmi a questo – a detta di molti – “inconsueto argomento” è dovuto al semplice fatto che, da diverso tempo, ritengo doveroso che si debbano affrontare tutte quelle problematiche e questioni legate alla divulgazione ed al linguaggio. Quella che dapprima mi pareva come una mera passione e curiosità verso il documentario storico, nel corso degli anni trascorsi nell’ambiente universitario, è maturata in una vera e propria “missione personale”, consistita nella ricerca di un legame saldo tra film didattico e disciplina accademica.
Portando a termine questo lavoro, non solo mi sono reso conto dell’esistenza di tale legame, ma persino che esso riguarda qualunque altra disciplina, aldilà di quella storica: oramai è un dato di fatto che il documentario annoveri fra le sue molte proprietà che possiede quella didattica.
Percorrendo questa strada, la mia primaria necessità è consistita nell’imbattermi in diverse fonti, sia per natura che per argomento trattato, le quali – plasmandole – mi hanno permesso di riscontrare risultati interessanti – ben lungi dalle mie aspettative.
Oltre alle classiche fonti scritte (biografie e voci enciclopediche su Carlo Magno e Riccardo Cuor di Leone; oltre che un manuale sulla Storia del Documentario) – indispensabili per “fare Storia” – decisiva è stata la visione dei ventiquattro filmati della serie “Il Medioevo – Discovery Channel”.
Fondamentali, da ultimo, sono stati quei siti web da cui ho carpito informazioni su famosi programmi contenitore (come “Atlantide” e “Ulisse”) e canali tematici (come “History Channel” e “Discovery Channel”) dedicati alla divulgazione storica (medievale, nel nostro caso, ma non solo).
Avendo prima accennato ai risultati conseguiti nel corso della ricerca, prima di concludere, è necessario che illustri in breve le salienti tappe che mi hanno consentito di completare il lavoro: esordendo con le definizioni assunte dal documentario fino ad oggi, passando ad alcuni precursori del genere (con alcune famose serie italiane);
Dopo aver sintetizzato le lunghe fasi che mi hanno permesso di stabilire la possibilità di una Storia insegnata col sussidio di video, ciò che finalmente ho ricavato da questa esperienza è il fatto che questo affascinante metodo – seppur in fase embrionale – potrà in futuro affermarsi, specie nella scuola dell’obbligo, sfruttando il potenziale magnetico della televisione.

Andrea Danile

venerdì 9 dicembre 2011

SISTEMA DI CRISI (Parte III)


Premessa: sono da sempre convinto che il lettore vada stimolato a cercare notizie, ad informarsi. Ecco perché ogni link che ho inserito a questo articolo non è una semplice nota in fondo alla pagina, una fonte di cui fa bene conoscere l’esistenza e basta. Tutti i link contengono informazioni aggiuntive agli argomenti trattati, leggerli ed approfondire è vostro diritto e vostro dovere.

 
Il nuovo governo Monti, che dovrebbe portare l’Italia fuori dalla crisi, si compone di personaggi che hanno forti legami con le banche: Elsa Fornero, Ministro del Welfare e delle Pari Opportunità, è stata vicepresidente del comitato di controllo di Intesa SanPaolo[1]; Francesco Profumo, Ministro dell’Istruzione, è stato nel cda di Unicredit Private Bank[2]; Piero Gnudi, Ministro dello Sport e del Turismo, già famoso per essere il suocero di Antonio Albanese, è stato membro del cda di Unicredito Italiano[3]; Corrado Passera, Ministro dello Sviluppo e delle Infrastrutture, ex amministratore delegato del Banco Ambrosiano Veneto e di Intesa SanPaolo, noto per la sua pessima gestione delle Poste Italiane (con tanto di accusa della Corte dei Conti) e per il suo ruolo decisivo nella recente vendita Alitalia.[4]
Gente competente, dicono i più informati, come il neo Ministro dell’Ambiente Corrado Clini, più volte coinvolto in indagini sulla gestione dei rifiuti, e accusato dall’associazione Greenpeace di essere legato alle industrie[5], nonché sostenitore del nucleare[6]; o anche l’attuale Ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, che, da prefetto, negò l’esistenza della mafia a Genova, dimenticandosi delle numerose inchieste della magistratura a riguardo, e che fu anche sotto inchiesta per abuso d’ufficio, nell’ambito della gestione del Teatro Bellini di Catania.[7]
Dal conflitto d’interessi di Berlusconi, passiamo al conflitto d’interessi colossale del governo tecnico Monti, dal quale non è esente neppure il Ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, ammiraglio e Presidente del Comitato Militare della Nato, un militare al governo, particolarità che si era verificata solamente nel governo tecnico Dini nel 1995.[8]
Ci sono, poi, le responsabilità dell’Unione Europea, dalla politica della Bce, oggi presieduta da Mario Draghi, delle fondamenta stesse dell’Unione, che presentano grossi deficit di democraticità: l’espressione più alta di ogni sistema democratico è il parlamento, eletto dal popolo e detentore del potere legislativo, ma in Europa il parlamento conta ben poco, mentre il potere è nella mani del Consiglio e della Commissione, i cui membri non sono eletti ma nominati. Piuttosto lontana da ogni standard democratico è stata anche l’approvazione del Trattato di Lisbona, una costituzione europea di fatto, che supera in valore quelle nazionali e, per tanto, sarebbe da recepire tramite referendum in ogni Stato. Dopo le critiche e gli iniziali “no” di Francia e Olanda, il Trattato fu sottoposto a referendum in Irlanda, dove fu respinto con il 53,4% di voti contrari.[9] Subito dopo, il Paese sprofondò nella crisi economica, il referendum fu riproposto e, poco prima del voto, il Commissario Europeo Barroso fece visita in Irlanda, promettendo, in caso di approvazione del Trattato, aiuti per 14,8 milioni di euro.[10] Ovviamente, vinse il “sì”.
È notizia recente la proposta dei presidenti del Consiglio e della Commissione Europea, Herman Van Rompuy e José Manuel Barroso di un piano per rafforzare l’Europa, dando potere di veto e di modifica, da parte della Ue, sulle leggi finanziarie nazionali, e permettendo all’Unione di sanzionare gli Stati membri che non rispettino le norme europee in materia economica con la sospensione del diritto di voto in Consiglio o con il blocco dei finanziamenti.[11]
C’è, poi, un gruppo di “ribelli” all’interno della Ue stessa, ma non cantate vittoria troppo presto: non si ribellano per la scarsa democrazia del sistema, si ribellano per il suo eccesso. Stiamo parlando del cosiddetto Gruppo di Francoforte, guidato da Nicolas Sarkozy e Angela Merkel, leader delle due principali potenze europee, che, stanchi delle lungaggini di Bruxelles, hanno deciso di prendere in mano la situazione. “Se vogliamo considerare la crisi come un'opportunità, dobbiamo essere pronti ad agire più rapidamente e in modo non convenzionale" ha detto la Merkel.[12] Non è un caso che, dopo aver annunciato di indire un referendum, così che la cittadinanza greca potesse scegliere se accettare o no i sacrifici imposti dall’Europa, il premier Papandreu sia diventato bersaglio della stampa e della politica internazionale, costretto a dimettersi dopo l’incontro con il Gruppo di Francoforte, durante il G20.
Stessa sorte è toccata a Berlusconi, anche lui saldamente ancorato alla sua poltrona fino al sopracitato summit.
A questo punto, il bravo scrittore dovrebbe concludere con un bel finale da editorialista, ma tutta questa vicenda non è ancora conclusa, la parola fine deve ancora giungere.


P.S. Per maggior informazioni sui lati oscuri del Trattato di Lisbona, si rimanda all’articolo in merito di Paolo Barnard.[13]
Per comprendere gli effetti delle politiche Neoliberiste in Sudamerica potrebbe essere utile visionare il documentario Diario del saccheggio di Fernando E. Solanas.[14]
Per saperne di più sulla crisi in Grecia, si consiglia la visione del documentario Debtocracy di Katerina Kitidi e Aris Hatzistefanou.[15]
Se, invece, siete interessati alla crisi attuale da un punto di vista più tecnico, è consigliata la lettura dell’articolo di Sebastiano Putoto Era meglio Silvio? Governi e cadute ai tempi della crisi.[16]
In merito alla crisi e al Neoliberismo, può risultare utile la lettura del saggio di Paolo Barnard Il più grande crimine.[17]

P.S.S. La sera di martedì 22 novembre, su Canale5, è andata in onda una puntata di Matrix dedicata al tema del complotto e della crisi economica, con ospiti Giulietto Chiesa, Claudio Messora, Paolo Barnard, Claudio Costamagna e altri. La tesi sostenuta dai primi tre è stata ridicolizzata al livello di una paranoia sui templari e chissà che altro, davanti alla faccia divertita di Claudio Costamagna, ex-dirigente di alto livello di Goldman Sachs. Occorre far notare che Costamagna era responsabile di tutti i team di banchieri della società in Europa[18], nello stesso periodo in cui Goldman Sachs è accusata di aver iniziato le sue operazioni truffa coi conti pubblici greci.[19]

Valerio Moggia


[19] Vedi nota 4 della parte I