giovedì 19 dicembre 2013

COMPRENDERE,RICREARE,SPERIMENTARE:PIERO GOBETTI E LE RESPONSABILITÀ MORALI DELLA TRADUZIONE LETTERARIA

La traduzione di opere letterarie russe in Italia ha una storia tanto particolare quanto affascinante, anche agli occhi di chi non ha alcuna dimestichezza con la lingua e la storia letteraria di questo paese. Senza la pretesa di ricostruirla nel suo complesso, impresa che, per quanto interessante, esula dallo scopo di questo articolo, è opportuno farvi qualche accenno, al fine di comprendere le motivazioni e gli scopi che, tra la fine degli anni Dieci e la prima metà degli anni Venti del Novecento, guidarono le interessanti riflessioni sulla traduzione del giovanissimo torinese Piero Gobetti.
Tra il Diciannovesimo e i primi anni del Ventesimo secolo numerose riviste e case editrici si prodigarono, come altre volte era successo in Italia per opere in lingue straniere, nella pubblicazione di traduzioni di racconti, romanzi, drammi o, molto più spesso, semplici estratti delle opere dei più grandi autori della letteratura russa ottocentesca, oltre che, soprattutto dall'inizio del Novecento, di autori contemporanei. L'attenzione fu tale che nel 1869 la torinese «Rivista contemporanea» pubblicò, addirittura in anteprima mondiale, alcuni estratti del romanzo tolstojano Guerra e pace, ancora incompiuto allora e tradotto direttamente dal russo dalla cugina di Bakunin, Sof'ja Bezobrazova. Fu uno dei rari casi di traduzione condotta direttamente sul testo originale, probabilmente perché realizzata da una madrelingua. Non avvenne lo stesso, invece, in occasione della prima traduzione italiana di Anna Karenina (1877) sulla «Gazzetta di Torino» nel 1885: completamente ignaro del testo originale, il traduttore aveva infatti preso spunto da una precedente versione francese, anonima e piena di tagli e rivisitazioni culturali. Sulla scia di simili interventi, anche gli italiani si resero protagonisti di numerosi casi di riadattamento e amputazione di diverse parti dei testi: ne è un esempio la traduzione, anonima e probabilmente non diretta, di Memorie da una casa dei morti (1862) di Fëdor Dostoevskij, pubblicata da Treves tra il 1887 e il 1891 con un titolo che intendeva inserire l'opera nella tradizione letteraria italiana, attraverso una citazione dalla Gerusalemme Liberata di Tasso: Dal sepolcro dei vivi. Inoltre, ricordiamo che nel 1901 la stessa casa editrice diede alle stampe una traduzione de I fratelli Karamazov (1880) dopo aver espunto un intero episodio, che comparve poi come racconto autonomo presso un altro editore (F. Dostoevskij, I precoci, Sonzogno, Milano, 1914). Esattamente come era successo in Francia nel 1888, quando la traduzione del romanzo e quella dell'episodio espunto furono pubblicate quasi contemporaneamente da due case editrici diverse.
Simili interventi naturalizzanti furono ispirati, in molti casi, da un saggio realizzato nel 1886 dal diplomatico francese De Vogüé, intitolato Le roman russe. Conoscitore diretto della cultura e della lingua russa, grazie a un viaggio condotto nel 1877 in qualità di terzo segretario dell'ambasciata francese, De Vogüé fu a sua volta traduttore di romanzi russi (ricordiamo Delitto e castigo (1866), Treves, Milano, 1891, tradotto per la prima volta in lingua italiana) e, anche grazie al suo saggio, contribuì in maniera decisiva a far conoscere Turgenev, Tolstoj e Dostoevskij in Italia. Tuttavia, fu proprio a causa della sua mediazione che si diffuse in Italia il pregiudizio che la lingua e la letteratura russa, e in particolar modo quelle del “pensatore” Dostoevskij, fossero troppo prolisse e primitive, motivo per cui andavano addomesticate tramite la lingua francese, che rappresentava i canoni della cultura occidentale, cui ogni lingua e letteratura avrebbero dovuto adeguarsi per migliorare. Partendo da questo presupposto, senza alcuna cura per i testi originali, i letterati, i traduttori e gli editori italiani, in particolar modo le maggiori case editrici del tempo, Treves e Sonzogno, mosse dal desiderio di attirare una fascia cospicua di lettori appena affacciatisi al mondo della lettura e di vendere quante più copie possibili, continuarono a pubblicare traduzioni perlopiù “indirette” delle opere russe, amputandole di diverse parti, italianizzandole il più possibile e non curandosi, in molti casi, di segnalare né il nome del traduttore, per risparmiare sui diritti d'autore, né i vari interventi apportati al testo, spacciando per integrali e “dirette” le loro traduzioni.
Consapevole di questo modo di procedere, il giovane Gobetti, che sin dai tempi della Rivoluzione d'Ottobre aveva cominciato a interessarsi alla cultura e alla realtà politica russa, si propose di operare una vera e propria revisione dell'utilità e delle modalità del tradurre a partire dall'analisi di questi prodotti culturali, mettendone fortemente in discussione la qualità. Dal 1918 aveva infatti intrapreso lo studio della lingua russa sotto la guida della moglie di Alfredo Polledro, la profuga russa di origine polacca Rachele Gutman; essendo inoltre convinto della capacità e del dovere per la letteratura di partecipare e rappresentare la realtà politica, sociale e culturale di un paese, Gobetti studiò con passione le opere della letteratura russa in lingua originale, al fine di comprendere le ragioni storiche che avevano portato alla Rivoluzione bolscevica. Vista come un atto squisitamente liberale, poiché aveva causato la nascita di un nuovo stato dopo lo zarismo, Gobetti desiderava capirla e importarne almeno gli aspetti positivi in Italia, così da poter sperare di ottenere un domani lo stesso risultato e contribuire al rinnovamento politico, economico e culturale della nuova Italia.
Rivestendo il ruolo dell'intellettuale di responsabilità ormai trascurate, tra cui proprio quella di partecipare attivamente alla realtà del proprio tempo e contribuire a migliorarla, attraverso un'opera divulgativa con cui combattere ogni forma di individualismo estetizzante, di ignoranza e di superficialità, Gobetti si sentì chiamato in prima persona a questo compito di revisione morale dell'attività letteraria e culturale, che per lui riguardava anche e primariamente la traduzione, per quanto non fosse affatto considerata un'attività degna di attenzione dai più. Secondo l'esempio di Giuseppe Prezzolini, che sulla «Voce» fu tra i primi a mostrare sdegno nei confronti della superficialità con cui si traduceva dal russo, dal 1919 Gobetti iniziò quindi a pubblicare sulla sua prima rivista, «Energie Nove», articoli e traduzioni realizzate con la futura moglie Ada Prospero.







Roby <^>

giovedì 28 marzo 2013

VisioniAlternative: Le nevi del Kilimangiaro (2011)





Michel e la moglie Marie – Claire sono una felice coppia di mezz’età che conduce una vita tranquilla in un quartiere popolare di Marsiglia. Sposati da trent’anni, innamorati profondamente e circondati dall’affetto di figli e nipotini, non hanno mai avuto ragione per non essere soddisfatti di quello che la vita ha offerto loro. Fino a che il nome di Michel, insieme a quello di diciannove compagni che lavorano con lui nel porto cittadino, viene estratto dall’urna che deciderà chi di loro dovrà andare in cassa integrazione. In realtà, come non perde occasione di ricordargli il cognato Raoul, suo collega e grande amico, il nome di Michel non avrebbe dovuto affatto essere nell’urna, in qualità di rappresentante sindacale. Ma Michel, uomo mosso da un’incrollabile fede nei principi di giustizia sociale, non ha voluto concedersi privilegi.


La vita di marito e moglie continua senza scossoni, con grande semplicità e umiltà che è sinonimo di felicità. I due festeggiano trent’anni di matrimonio circondati dai loro cari, e il regalo dei figli è un viaggio “nella terra dei Masai, ai piedi del Kilimangiaro” (da qui viene il titolo, ispirato alla canzone omonima che ritorna continuamente nella colonna sonora del film). Il mondo semplice e perfetto di Michel e Marie – Claire è però destinato a crollare quando i due vengono aggrediti in casa da degli sconosciuti durante una serata in compagnia della sorella di lei e del marito Raoul, e derubati di tutti i loro soldi e degli agognati biglietti del viaggio …




Le nevi del Kilimangiaro (titolo originale: Les neiges du Kilimandjaro) di Robert Guédiguian sembra affrontare di petto il tema caldissimo della crisi del lavoro nei primi minuti per poi virare abilmente sul progressivo disfacimento del piccolo mondo privato dei due protagonisti e sulla perdita delle certezze. Alla preoccupazione, tutto sommato di poco conto, del lavoro che non c’è si sostituisce presto la perdita di ogni certezza e ogni punto di riferimento nella vita, che segue l’esperienza traumatica della rapina. (ATTENZIONE SEGUE PICCOLO SPOILER!!!) A questo si aggiunge la terribile scoperta del male che si manifesta nella forma di una faccia familiare: l’autore della rapina non è un delinquente qualunque, ma un bravo ragazzo, operaio, ex-collega di Michel licenziato insieme a lui, che si prende cura dei fratelli più piccoli senza l’aiuto di nessuno. Il passo successivo per Michel e Marie – Claire è dunque la crisi d’identità: chi siamo noi? Che senso hanno le lotte portate avanti per anni al sindacato e i valori e i principi su cui abbiamo fondato la nostra esistenza e che abbiamo trasmesso ai nostri figli?

Allo spaesamento segue però la riscossa: l’unico modo per ripartire dal nulla è mettere in secondo piano sé stessi e dedicarsi completamente agli altri, rivalutando le proprie priorità. Dalla crisi più profonda possono quindi nascere delle nuove possibilità. Basta sapersi mettere in discussione e riscoprire la bellezza e il valore dei rapporti tra le persone e dei piccoli gesti che si davano per scontati, e che invece sono belli e veri proprio perché devono continuamente essere riaffermati con convinzione giorno dopo giorno. 




Robert Guédiguian è definito da molti il “Ken Loach francese”. Il suo cinema affronta temi sociali di una certa rilevanza e attualità senza mai perdere di vista e mettendo in primo piano innanzitutto l’essere umano, le sue debolezze e le sue virtù. I suoi personaggi appartengono a un mondo, quello della classe operaia di Marsiglia, al quale lui stesso è molto legato, e che riesce a rappresentare abilmente nella sua evoluzione storica e sociale. Emergono allora nel film le distanze tra due generazioni: quella dei “genitori”, che possiamo immaginare incarni il punto di vista dello stesso regista, che hanno vissuto il periodo delle lotte sociali e delle rivendicazioni sindacali e conservano una profonda coscienza del proprio ruolo e della propria dignità di uomini e lavoratori, e quella dei figli, che non hanno condiviso tutto ciò e paiono frastornati, incapaci di comprendere e reagire di fronte a situazioni che avvertono profondamente ingiuste. È incredibile come di fronte a quello che è facile interpretare come l’accanimento di un destino avverso, marito e moglie non perdano mai la consapevolezza di possedere molto, anche quando sembrano aver perso tutto. I rapporti famigliari e di amicizia vengono in aiuto proprio nelle circostanze più difficili a ricordarci che la felicità si può raggiungere dimenticandosi dei propri rancori e recriminazioni personali e ricordandosi di essere parte di una collettività solida e affiatata. 


Guédiguian usa comunque uno stile molto asciutto e per nulla accondiscendente verso lo spettatore. Il suo è un approccio rigoroso e realista nei confronti dei personaggi e dei fatti narrati, che lascia aperto uno spiraglio di speranza senza mai cadere nella retorica di un ottimismo fine a sé stesso. “Le nevi del Kilimangiaro” ci presenta in fondo personaggi che avvertiamo così vicini a noi, piccoli uomini e donne divisi tra slanci di egoismo e di apertura verso i propri simili, tra la consapevolezza dei propri limiti e il desiderio di uscire da sé e avvicinare modelli ideali e molto spesso irraggiungibili, come quelli di Michel: Jean Jaurès, mito del socialismo francese, e Spiderman.

Una pellicola che riesce a coniugare piacevolmente impegno sociale e leggerezza, autorialità e intrattenimento, realismo e lirismo senza eccessive pretese, e conferma senza dubbio l’ottimo stato di forma del cinema francese.


/Fabio/










lunedì 18 marzo 2013

Axel Honneth: lotta per il riconoscimento. Proposte per un'etica del conflitto


Obiettivo: sviluppare una teoria sociale normativa a partire dalla

teoria hegeliana della lotta per il riconoscimento.



Sviluppo argomentazione:

- presentazione delle tre forme di

riconoscimento (amore, riconoscimento

giuridico, solidarietà) attraverso le opere

di Hegel e Mead;

- trattazione delle corrispettive tre forme di

misconoscimento (integrità fisica,

privazione dei diritti, umiliazione sociale);

- esperienze storiche di misconoscimento

e lotte sociali;

- elaborazione di un nuovo concetto di eticità

formale.







Parte I
Ricostruzione storica: l’idea originaria di Hegel



  • Premesse della filosofia moderna: lotta per l’autoconservazione in Machiavelli e Hobbes basata

su un’antropologia pessimistica, il timore e la sottomissione al

sovrano.





  • Hegel:

- critica Hobbes e Machiavelli per le loro considerazioni “atomistiche” e per la necessità di

porre l’unità etica dall’esterno, tramite una costruzione artificiosa come il Contratto

Sociale;

- recupera l’ideale della polis e dell’ethos pubblico: la comunità realizza il singolo;

- dinamizza il modello fichtiano di riconoscimento secondo un processo in cui a fasi

positive si alternano fasi negative;

- “Sistema dell’eticità” (1802) presenta l’eticità in tre momenti, accogliendo positivamente la

teoria del riconoscimento: 1. ETICITà NATURALE = amore familiare e rapporti contrattuali

2. DELITTO = uno dei due partner non si sente completamente

riconosciuto e cerca di farsi riconoscere come

morale ingaggiando una lotta per la vita e per la

morte;

3. PURA ETICITà = riconosciutisi come esseri morali si crea

tra i partner una base comunicativa di valori

intersoggettivi, nasce la comunità.



- “Frammenti” (1803/04) si concentrano sulla filosofia della conoscenza, incentrando l’analisi

sullo sviluppo dello spirito e abbandonando l’intersoggettività in senso forte. Lo spirito si

sviluppa in tre fasi in cui prende consapevolezza di sé essendo altro da sé.

«L’uomo è riconosciuto ed è riconoscente, è il riconoscere»

1. SPIRITO SOGGETTIVO = dimensione concettuale per comprendersi come forza

negativa che oggettiva + dimensione pratica (volontà) che

si manifesta nell’attività lavorativa e nel rapporto con altro

sesso: si riconosce concettualmente e praticamente un

obbligo alla reciprocità;

2. SPIRITO REALE = si passa alla generalizzazione del rapporto, la società, dove si

realizzano I diritti con un accordo comunicativo che esprime la

volontà universale; il non rispetto implica la colpa: l’individuo

incolpato non si sente riconosciuto e si ribella. E’ un caso di

misconoscimento e pena, indicando con quest’ultima la comunanza

normativa e la partecipazione affettiva della comunità nel fermare il delinquente;

3. SPIRITO ASSOLUTO = autoriflessione sullo stato, dove la volontà universale si

unifica attraverso pochi uomini carismatici, che mantengono

l’obbedienza sociale. Il cittadino è il bourgeois.






Parte II
Attualizzazione sistematica: la struttura dei rapporti sociali di riconoscimento



  • Errore di Hegel: convinzione metafisica sulla vicenda globale della ragione, con il 900 lo spirito è

stato demetafisicizzato e la ragione secolarizzata.



  • Della proposta di Hegel dobbiamo conservare:


- l’idea del rapporto intersoggettivo come evento

empirico del mondo sociale tramite una nuova

PSICOLOGIA SOCIALE EMPIRICA;

- le tre modalità del riconoscimento attraverso una

FENOMENOLOGIA EMPIRICA;

- la lotta morale per una conferma sociale

costruendo una LOGICA MORALE

DEI CONFLITTI.





  • Mead: - CONCEZIONE PRAGMATICA = soggetto si imbatte in difficoltà, riflette su propria

condotta e comprende il significato delle sue azioni e degli effetti che hanno sugli altri.









Nascita di una nuova comunicazione umana in una prospettiva ECCENTRICA, dove l’individuo è

consapevole di sé solo oggettivandosi= carattere dialogico dell’esperienza interiore: l’ IO è il soggetto,

ME è l’oggetto.

Progressivamente si ha la generalizzazione del me: da immagine pratica dell’io come concreto

riferimento comportamentale alle attese normative di carattere generale fino alla concezione dei diritti

come pretese individuali che l’altro generalizzato rispetterà.

Se il me diventa quindi l’altro generalizzato, stabilendo un controllo normativo, l’io continua la sua

spinta verso impulsi individualistici limitati da rigide norme: si evita il conflitto morale perché l’io si

realizza in una dimensione futura idealizzata in cui verrà esteso il suo diritto. Ciò porta ad uno sviluppo

della società che lentamente si adegua a sempre nuove pretese normative: la comunità si estende

perché aumenta gli spazi per l’individuo e il numero di soggetti che possono accedere ai diritti.

Elemento centrale è la divisione del lavoro, dove l’individuo si apprezza personalmente e come

socialmente utile; ma la divisione del lavoro non può essere il punto di partenza perché presuppone la

condivisione intersoggettiva di etiche vincolanti.





  • Le tre forme del riconoscimento:

- AMORE nel senso più neutrale del termine: il soggetto amando

ed essendo amato conquista gradatamente l’autonomia

e la consapevolezza dell’interdipendenza (Winnicott presenta in

questo senso il rapporto madre-bambino);

- RICONOSCIMENTO GIURIDICO va garantito a prescindere

dalla stima sociale, è un rispetto universalizzato per cui ognuno

viene riconosciuto come persona giuridica, che ha dei diritti. Dal

punto di vista storico Marshall divide i diritti in tre tipi: liberali,

conquistati nel XVIII sec. = proprietà, libertà morali, religiose;

relativi alla partecipazione politica, raggiunti nel XIX sec; sociali

conquistati nel XX sec = diritti positivi in ambito sociale;

- SOLIDARIETà = stima simmetrica tra soggetti con

partecipazione affettiva; non connessa a nessun privilegio

(Weber descrive lo sviluppo progressivo della solidarietà basata

sulla dignità umana e la capacità autorealizzativa del singolo

possibile nella società moderna, non più gerarchica ma

orizzontale e aperta).





  • Le tre forme di misconoscimento:

- INTEGRITà FISICA se violata genera non solo dolore fisico

ma anche l’impossibilità del controllo del corpo e di imporre la

propria volontà; le conseguenze sono la perdita di fiducia in sé

e la difficoltà nell’interazione con gli altri.

- PRIVAZIONE DEI DIRITTI che implica anche la negazione

della capacità morale di intendere e volere generando la

perdita del rispetto di sé.

- PRIVAZIONE DEL VALORE SOCIALE cioè offesa e pubblica

umiliazione, la cui conseguenza è il non potersi riferire al

proprio ideale di vita come qualcosa di positivo.







Con la sua PSICOLOGIA PRAGMATICA Dewey spiega come i sentimenti non siano qualcosa di

interiore ma espressione del successo o del fallimento delle nostre azioni nel confronto con gli altri.

L’insuccesso genera sensi di colpa e/o indignazione morale che sono le principali forze motivazionali

per la lotta al riconoscimento.





Parte III
Prospettiva di filosofia sociale: morale e sviluppo sociale



  • Marx: RICONOSCIMENTO E UTILITARISMO = l’uomo trova la sua realizzazione nel lavoro non

alienato ma ciò genera conflitti per gli interessi

del singolo seguiti da una lotta per l’auto-

affermazione.

Il lavoro è quindi un medium importante per la

lotta per il riconoscimento.

  • Sorel: SOCIALISMO ETICO = inserisce le norme etiche non solo nella dimensione affettiva ma

anche nell’ambito pubblico, specialmente politico.

Il misconoscimento è in questo senso una reazione emotiva ad un

ordinamento giuridico che dà spazio solo al potere, tralasciando le

minoranze, è una questione assiologica.

  • Sartre: NEVROSI = distorsione unilaterale del rapporto di interazione tra soggetti. Inserita in una

cornice esistenziale, la lotta per il riconoscimento è fondamentale per lo

sviluppo dell’autocoscienza. Finisce per con-fondere riconoscimento e

misconoscimento.



Tutte e tre le analisi si concentrano su un solo aspetto della lotta per il riconoscimento



  • Una logica morale dei conflitti sociali: - Punto di partenza = riconoscimento come esperienza

morale interattiva del torto subito secondo un modello

morale-utilitaristico;

- Thompson: la protesta sociale è data dall’aspettativa

morale estensione dei rapporti di riconoscimento nella

storia + concezione del misconoscimento come elemento

ritardante o accelerante delle lotte + criterio normativo di

uno sviluppo sociale + situazione intersoggettivamente

comunicativa.

  • Un nuovo concetto di eticità formale: - base da garantire = rispetto per tutti

- via di mezzo tra etica kantiana ed etiche comunitaristiche:

morale = norme generali (Kant) + autorealizzazione singolo

senza inibizione o coazione ed inserimento punti dello

sviluppo storico (etiche comunitaristiche);

- eticità post-tradizionale in cui amore è il presupposto, il

riconoscimento giuridico è universale, la stima aperta e

pluralista che implica l’integrazione di valori etico-solidali.


lunedì 4 febbraio 2013

VisioniAlternative: Io sono Li (2011)




È la prima volta che parlo di un film italiano su questo blog. Inutile nascondere che il nostro cinema non se la passa molto bene negli ultimi tempi, anche se ultimamente qualche bella sorpresa è venuta fuori. Il problema dell’Italia di oggi a mio parere è uno, applicabile in tutti i settori: per trovare idee fresche, originali bisogna dare spazio ai giovani e scovare i talenti, quelli veri. E l’Italia sembra essere un paese di vecchi e per i vecchi. Ed è un peccato, perché le idee e anche le persone per realizzare qualcosa di innovativo e produrre film di qualità ci sarebbero anche. Ma sono per lo più oscurati, boicottati e penalizzati da un sistema produttivo e peggio ancora distributivo a dir poco scandaloso, che punta solo ai soldi facili e concede spazio e pubblicità a un cinema leggermente più “impegnato” solo quando ci sono di mezzo i soliti nomi noti. Mentre invece si potrebbe e dovrebbe investire su nomi nuovi e emergenti. Comunque, come dicevo, non tutto è da buttare: in Italia di film belli se ne fanno ancora. Bisogna solo impegnarsi un po’ di più per scovarli.
Questo in particolare l’ho trovato di una sensibilità e una delicatezza eccezionali, davvero poco “italiche”, oltre che di pregevole fattura. Da sottolineare che questa pellicola ha vinto a fine 2012 il Premio Lux assegnato dall’Unione Europea ogni anno al film europeo che meglio di tutti incarna gli ideali di solidarietà, incontro e cooperazione tra culture diverse che sono alla base dell’Unione.

Io sono Li di Andrea Segre è il film che segna l’esordio del 36enne regista veneto alla regia di un lungometraggio di fiction, dopo una lunga esperienza come documentarista. E soprattutto è un film davvero splendido, un’opera ricca di poesia e sentimenti genuini. La storia della profonda e tenera amicizia tra la cinese Shun Li, immigrata clandestina in Italia, e Bepi, pescatore slavo, sullo sfondo della laguna di Chioggia è raccontata con mano ferma e senza retorica. Ogni sguardo e silenzio dei personaggi è in grado di trasmettere emozioni pure e autentiche allo spettatore. Il regista sceglie di adottare uno stile sobrio, dosando i dialoghi al minimo e lasciando spazio ai non detti, alle emozioni discrete e mai esasperate che traspaiono dai volti dei protagonisti e agli scenari che fanno da contorno alla vicenda. Le splendide e prolungate inquadrature della laguna veneta, che testimoniano la grande esperienza del regista come documentarista, non sono mai fini a sé stesse ma rispecchiano sempre gli stati interiori dei personaggi.





Sorprende in un regista giovane, anche se non certo alle prime armi, la grande cura dell’immagine e la capacità di fondere insieme toni lirici e simbolismo con un rigoroso realismo. Particolarmente felice  in questo senso la scelta di usare il dialetto veneto insieme al cinese entrambi accompagnati dai sottotitoli, che accentuano l’impostazione quasi documentaristica della vicenda. La rappresentazione della provincia lagunare e dei “tipi” umani che la popolano non scade mai negli stereotipi e nella resa macchiettistica dei personaggi, tutti profondamente veri e sinceri. Emergono così in modo molto veritiero pregi e difetti del popolo chioggese (che si erge a simbolo di una precisa realtà provinciale tipicamente italiana) caratterizzato da una grande laboriosità e una spontanea generosità e apertura al prossimo, eppure in qualche modo frenato da certi pregiudizi duri a morire. Dall’altra parte troviamo invece una donna orientale dal carattere forte che tira avanti con grande fermezza per la sua strada, pur aggirandosi spaesata e malinconica in un paesaggio che conosce bene, venendo da una zona di mare, eppure così “straniero” e ostile.


“Io sono Li” è un film intriso di poesia e di delicati simbolismi (l’opposizione costante mare/laguna ritorna lungo tutto il film a rappresentare la “prigione” della quotidianità dalla quale Shun Li aspira al mare sconfinato, alla libertà). L’unica via d’uscita concessa alla donna dal grigiore del bar dove lavora è la poesia, che irrompe nel film attraverso la festa tradizionale cinese del Poeta con le sue luci, e attraverso la figura di Bepi, che è conosciuto da tutti come “Il poeta” per la sua abilità con le rime. Il vecchio pescatore si dimostrerà davvero poeta nell’animo, accogliendo Shun Li nella sua vita e trovando a sua volta nella donna un punto di appoggio. Il film in fondo non racconta altro che l’incontro tra due solitudini che finirà per influenzare drasticamente non solo la vita dei due protagonisti, ma anche di tutti coloro che sono intorno a loro, al punto da essere portatore di rottura all’interno di un mondo che sembra perfetto proprio in quanto immutabile.


Da applausi l’interpretazione di tutto il cast (su tutti la splendida Zhao Tao premiata con il David di Donatello e il croato Rade Serbedzija nel ruolo dei due protagonisti) per un piccolo gioiello del cinema italiano che porta la firma di un giovane autore assolutamente da tenere d’occhio.





/Fabio/

domenica 13 gennaio 2013

RADIO ARGO

Vorrei rendervi partecipi di una straordinaria esperienza culturale che ho vissuto grazie a uno spettacolo teatrale veramente eccezionale, a cui ho avuto la fortuna di assistere il 21 ottobre scorso al Teatro Parenti di Milano. L'attore e regista ha fatto già diversi lavori, tra cui "Carabinieri" per la tv, ma è molto più di questo...leggete e capirete.


Radio Argo: un titolo che unisce il moderno con l’antico. Radio Argo, per la regia di Peppino Mazzotta, unico attore in scena, e basata su una riscrittura dell’Orestea firmata Igor Esposito, eclettico docente di Storia dell’arte napoletano.

Il sacrificio della dolce, piccola, innocente Ifigenia per propiziare le divinità e consentire ad Agamennone di conquistare la gloria a Troia; l’ira e la vendetta di una madre e di una donna abbandonata; l’assassinio di un re vittorioso ma padre egoista e la vendetta di un figlio che si trova tra due fuochi ma alla fine sceglie il dovere e per questo viene assolto: ci sono tutti, ad esclusione di Elettra, gli ingredienti di una trilogia che dimostra come il desiderio di potere e gli affetti, soprattutto quelli familiari, siano spesso in contraddizione.

Recuperando una prassi del teatro antico, che non prevedeva donne in scena e si limitava a evocare gli eventi senza inscenarli, Mazzotta interpreta con maestria sia personaggi maschili sia personaggi femminili: con un trucco pesante, che richiama l’antinaturalismo delle maschere, si muove con una sedia a rotelle da una parte all’altra di un palco che, con pochi elementi scenici, riesce a evocare spazi aperti come stanze chiuse.

La vicenda prende avvio con l’esasperante cantilena di Ifigenia, innamorata alla follia del padre e vestita di un impermeabile rosso sangue che preannuncia il suo destino di morte. Segue lo straordinario sdoppiamento tra Clitemnestra ed Egisto, la cui parlata marcatamente siciliana è un utile e divertente strumento per veicolarne le qualità negative. Ma questa scelta risulta poco coerente con il codice linguistico prevalente: un italiano medio della conversazione che contribuisce a rendere comprensibile e attuale il mito anche per chi non lo conosce. Eccezionale invece l’invasamento di Cassandra, che col volto coperto interamente da un velo e una voce artificiale, accompagnata da movimenti quasi epilettici, si fa medium di una realtà ultraterrena ed è senz’altro il personaggio più riuscito.

Il tutto è intervallato dai continui aggiornamenti di un radiocronista, che funge da coro e nel contempo ci riporta ai nostri giorni, ai tempi dei mass media e dei comizi politici. E una conferenza sembra anche il discorso di Agamennone tornato vittorioso da Troia per ingraziarsi il popolo e giustificare l’assassinio della figlia: un santone in giacca e occhiali scuri, che con atto benedicente predica la logica del potere.
Chiude il cerchio un inedito Oreste, incerto sul da farsi come non è mai stato per Eschilo e, diversamente da tutti gli altri, non toccato dalla sete di potere: non a caso è l’unico personaggio che per muoversi non ha bisogno della sedia a rotelle, eloquente emblema di malattia.

La sala A come A del Teatro Parenti di Milano si è dimostrata perfetta per questa “Orestea pop”, come è stata definita: le dimensioni ridotte e il buio hanno contribuito a far sentire coinvolto un pubblico non molto numeroso ma molto caloroso, tanto che non riusciva più a smettere di applaudire.


Eccovi un assaggio di ciò che è statao lo spettacolo:


Roby<^>