sabato 15 febbraio 2014

UN PICCOLO OMAGGIO A UNO STRAORDINARIO RAGAZZO NORMALE: PIERO GOBETTI (19/06/1901-15/02/1926) 


Come fa notare Marco Gervasoni nel suo studio L'intellettuale come eroe (2000),[1] la figura di Piero Gobetti non smette mai di incuriosire, di suscitare interesse e ammirazione in chi, di volta in volta, si accinge a studiarla in occasione di corsi universitari, o semplicemente a ricordarla «ogni qual volta nella società italiana si presentano trasformazioni di un qualche rilievo».[2]

In particolare, data la natura essenzialmente sociale e politica della maggior parte delle riflessioni che Gobetti fece durante la sua instancabile attività pubblicistica, è proprio quest'ultimo aspetto a destare spesso un risveglio nelle coscienze degli italiani: anche grazie al Centro Studi Piero Gobetti, inaugurato a Torino nel 1961 in quella che fu la casa di Gobetti e della moglie Ada Prospero, è possibile rimanere costantemente in contatto con l'operato di questo giovanissimo antifascista, la cui acutezza d'ingegno e lungimiranza politica non smettono mai di stupire.
Proprio pochi mesi fa, il quotidiano «La Repubblica» ha segnalato un interessantissimo convegno, che il Centro Studi ha promosso a Parigi assieme alla Maison d'Italie, sugli ultimi giorni di Piero Gobetti, vissuti nella capitale francese durante quello che Gobetti non definì mai un esilio, ma che al contrario visse come opportunità di far sentire la propria voce dall'estero e continuare ciò che aveva intrapreso in Italia, per poi ritornare quando lo avesse ritenuto opportuno.[3] È grazie a simili iniziative, tra cui il progetto di fondare una casa editrice di respiro europeo proprio a Parigi, le cui propaggini si sarebbero sparse in tutta Europa secondo i progetti del torinese, che la figura di Gobetti affascina e al contempo stordisce, data la grandezza dei suoi piani e la forza morale non comune, da cui si lasciava guidare in ogni sua iniziativa. E forse era destino che il giovane terminasse i suoi giorni a Parigi, centro culturale e politico di grande influenza, allora come nel passato: emblema di quell'europeismo di cui Gobetti fece costantemente il proprio punto fermo e la propria meta.
Al di là di tutto ciò che egli fece per la politica italiana (conosceva approfonditamente sia la storia politica del passato, sia quella a lui contemporanea, e possedeva una lucidità d'analisi e un bagaglio di conoscenze che potrebbero mettere tuttora in imbarazzo perfino i politologi più qualificati), al di là del suo importantissimo contributo per la comprensione e la modernizzazione della società, seppur con le inevitabili sconfitte e delusioni, ciò che più ha suscitato il mio interesse è stato il suo impegno culturale, in particolar modo quello relativo alla traduzione di opere in lingue straniere.
Avendo una passione viscerale per le lingue, che mi sono sempre sembrate specchio di una forma d'arte, la musica, che ritengo il più immediato ed espressivo mezzo di comunicazione, e provenendo da un liceo linguistico, in cui ho imparato a leggere i testi in lingua originale, a tradurli più fedelmente possibile e a considerare la comunicazione interlinguistica come qualcosa di naturale, non avevo alcuna idea di quanto la traduzione fosse stata osteggiata in diversi periodi della storia culturale italiana, tra cui proprio quello fascista, né di come venissero selezionati e tradotti i testi stranieri importati in Italia.
Sono stati illuminanti in proposito due laboratori e due corsi frequentati durante questi anni universitari. I primi due, l'uno dedicato alla traduzione letteraria, l'altro ai classici del teatro antico portati sulle scene contemporanee, sono stati utilissimi per conoscere gli aspetti pratici della traduzione; i corsi di Storia della cultura contemporanea e di Letterature comparate, invece, mi hanno permesso di conoscere in modo più diretto il ruolo di Gobetti come mediatore, traduttore e teorico della traduzione nell'Italia fascista. Le riflessioni emerse durante le lezioni di Storia della cultura contemporanea mi hanno subito fatto ammirare l'operato gobettiano riguardo alla traduzione: la giovane età e l'impegno morale che Gobetti metteva nel tradurre, come in qualsiasi aspetto della sua attività culturale, mi hanno fatto sentire molto vicina alle sue idee e mi hanno subito incuriosita. In particolare, dopo averne sentito parlare nuovamente al corso di Letterature comparate, ho deciso di approfondire le mie conoscenze riguardo a questo giovane sostenitore delle letterature straniere, fautore in prima persona di traduzioni dirette, integrali e fedeli.
Lungi dal voler sostenere che l'unica modalità corretta di tradurre un testo straniero sia rispettarlo fedelmente,[4] è però evidente che Gobetti, con le sue riflessioni teoriche, basate sull'onestà dell'impegno traduttivo, e con il suo modo di concepire la traduzione come un'attività pionieristica, che andasse sempre alla ricerca del nuovo, sia dal punto di vista delle opere da tradurre, sia dal punto di vista delle interpretazioni testuali, abbia dato un contributo significativo per smuovere le coscienze dei traduttori di allora e abbia messo in evidenza, come pochi avevano fatto prima, la natura artistica e le responsabilità della traduzione, fino ad allora concepita per lo più come una pratica temporanea, che servisse ad aspiranti letterati unicamente per fare gavetta, poiché ritenuta priva di qualsiasi dignità, sia economica,[5] sia letteraria.
Nonostante, con mio grande rammarico, non mi sia potuta concentrare sugli aspetti pratici dell'esperienza traduttiva gobettiana, dato che non ho mai avuto l'occasione di studiare la lingua russa, che egli prediligeva tra tutte in quanto, a suo parere, proprio dalla Russia l'Italia avrebbe potuto imparare a modernizzarsi, le sue riflessioni mi hanno avvinta a tal punto da volerle approfondire, per comprenderne tutti gli aspetti e contestualizzarle.
Ma questa è un'altra storia...
Grazie Piero per tutto quello che ancora significhi per noi giovani italiani.

Roby <^>



[1]    M. Gervasoni, Introduzione a L'intellettuale come eroe: Piero Gobetti e le culture del Novecento, La Nuova Italia, Scandicci, 2000, pp. 5-16.
[2]    Ivi, p. 5.
[3]    Cfr. M. Novelli, Gli ultimi giorni di Gobetti, in «La Repubblica», 38, 94, 23 aprile 2013, p. 38.
[4]    Si pensi, ad esempio, alle traduzioni infedeli e non integrali di diverse opere dello scrittore americano Hemingway realizzate da Vittorini: molte volte il romanziere siciliano eliminò intere parti presenti nei testi originali, in particolare quelle che rendevano conto dei pensieri dei personaggi, poiché le riteneva troppo cerebrali e pensava che appesantissero il testo. Altre volte, invece, ritenne necessario aggiungere parole o modificare del tutto la costruzione di alcune frasi, che però in questo modo persero la loro immediatezza e la loro pregnanza, nonché l'ironia che Hemingway era riuscito a ricavarne. Infine, non mancarono da parte di Vittorini interventi tipicamente naturalizzanti, atti a familiarizzare realtà, luoghi, usanze sconosciuti ai lettori italiani. Un approccio completamente diverso, quindi, rispetto a quello di Gobetti, sostenitore di un costante impegno di fedeltà nella resa dello stile dell'autore.
[5]    Questo aspetto, purtroppo, è ancora presente nella nostra editoria: i traduttori sono certo più tutelati rispetto al passato, ma non sono ancora adeguatamente ricompensati per il loro lavoro.