mercoledì 25 luglio 2012

Ogni sostanza è come un mondo a parte- Parte I


Introduzione

Il presente elaborato ha come punto di partenza la constatazione di un profondo legame tra la filosofia leibniziana e il barocco, inteso quest'ultimo non come periodo storico, ma piuttosto considerando i suoi aspetti peculiari dalla filosofia all'architettura, dall'arte alla musica. Il mio scopo principale è proprio quello di mostrare perché Leibniz è barocco, e viceversa perché il Barocco è leibniziano, argomento certamente vastissimo, che non potrà quindi essere interamente affrontato in questo elaborato, frutto di una selezione di testi e di temi.

Per quanto riguarda i testi, mi sono basata su due opere di Leibniz, Discorso di metafisica1 e Monadologia2 e uno scritto di Deleuze La piega3, in cui l'autore francese percorre approfonditamente le similitudini che uniscono l'opera del filosofo tedesco e il Barocco.

Ho diviso il mio lavoro in due capitoli: il primo si concentra sul Barocco, affronta il problema della sua effettiva esistenza e ne presenta le principali caratteristiche; il secondo espone tre fondamenti della filosofia leibniziana quali l'incompossibilità dei mondi possibili, il principio di individuazione e la libertà, sotto una luce barocca, evidenziandone gli aspetti che ci portano a sottolineare la pienezza di elementi e le infinite pieghe nell'opera del filosofo tedesco, esattamente come nel Barocco.

Le età moderna e contemporanea hanno visto un forte sviluppo dei concetti barocco-leibniziani nell'architettura, nella tecnologia e nella musica. Nella conclusione mi sono concentrata proprio sull'aspetto musicale: qualcosa del leibnizianesimo rimane perché si continua a riempire e piegare, anche se con nuovi involucri.

Capitolo 1: Che cos'è barocco?

    1. Il Barocco esiste (?)

I più importanti commentatori e studiosi del Barocco hanno avuto dei dubbi sulla effettiva consistenza della nozione di “Barocco”, dato che il concetto rischiava di estendersi indefinitamente, legandosi a qualunque cosa riguardasse una tensione-contrapposizione tra esterno ed interno, facciata e camera oscura, mondo e monade per dirla con termini leibniziani. La domanda che allora è giusto porsi è relativa al modo di intendere il termine “Barocco” e quindi ricavarne l'esatta determinazione e la giusta estensione.

La nozione di Barocco è stata prima estesa, poi ridotta a un solo genere o a una determinata selezione di periodi, fino ad arrivare alla totale smentita: il Barocco non era mai esistito4. Perché questo totale annullamento? Certo non si può parlare di esistenza del Barocco, come dell'esistenza di un concetto dato; bisogna vedere se può esserci una nozione capace di conferirgli esistenza ed inserire sotto la sua estensione un numero di elementi opportunamente caratterizzanti, al di là di un determinato campo o periodo storico. Come sottolinea Deleuze, «il concetto operatorio del Barocco è la piega, in tutta la sua comprensione ed estensione: piega secondo piega»5. Ma cosa bisogna intendere per “piega”?

La piega può essere definita come il mezzo tramite cui è possibile conservare l'unità nella molteplicità: per esempio quando “pieghiamo in due” un foglio, facciamo una differenza nel foglio stesso, tra la parte destra e quella sinistra, o tra la parte in alto e quella in basso, ma la sua unità non viene messa in discussione6. Nel mondo ci sono infinite pieghe, se pensiamo che ogni organismo e ogni meccanismo è costituito da un'infinità di elementi, energie e forze.

Ampliando il concetto, la piega è punto di vista sul mondo, sugli oggetti e ogni punto di vista rappresenta una variazione e una prospettiva: il mutamento del punto di vista tuttavia non ci fa considerare l'oggetto dell'osservazione come diverso, anzi il cambiamento diventa la condizione di possibilità per ricostruire attivamente la sintesi della cosa unitaria e conferirle così un'identità. Per questo Deleuze può parlare di prospettivismo in Leibniz come condizione per cui appare al soggetto la verità della variazione e considerare così il punto di vista come una potenzialità, il segreto delle cose, la condizione per la manifestazione autentica del vero7, come affermerà Husserl nell'elaborazione della sua fenomenologia, certamente in parte condizionato dalle riflessioni leibniziane8: «il mondo intero è solo una virtualità, esistente attualmente nelle pieghe dell'anima che l'esprime»9.

Usando la piega come nozione base e nel contempo punto limite di mutamento e variazione, si può estendere il Barocco oltre i limiti storici e le discipline artistiche. Possiamo così considerare parimenti barocchi Tintoretto, che dipinge il Giudizio universale, (fig.1) in cui i corpi si piegano in balia della propria pesantezza, le anime si chinano nei ripiegamenti della materia10, e Mallarmé, che nel poema Herodiade parla di ventaglio (l'unanime piega) che fa scendere e salire tutti i granelli di materia11; o ancora Il Greco, che nel Battesimo di Cristo (fig. 2) riesce a comunicare alla gamba un'ondulazione infinita usando le pieghe di ginocchio e polpaccio, mentre la nuvola in mezzo appare quasi come un ventaglio12, e lo stesso Leibniz, il quale afferma che le monadi devono «racchiudere una molteplicità nell'unità»13, perché la molteplicità è la base del cambiamento e senza mutamento le monadi sarebbero indistinguibili l'una dall'altra, perdendo così la propria identità.


fig. 1

Giudizio universale,

Tintoretto,

Chiesa della Madonna dell'Orto Venezia,
1562-1563, particolare.





Fig.2

Battesimo di Cristo, il Greco, 1597-1600 Museo del Prado, Madrid





1G. W. Leibniz, Discorso di metafisica in Scritti filosofici vol 1, Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino, 2004

2G.W. Leibniz, Monadologia, SE, Milano, 2007

3G. Deleuze, La piega: Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino, 1990

4Cfr. Ivi, p. 51

5Ibidem

6Cfr. Ivi, p. 17

7Cfr. Ivi, p. 32

8Per approfondire la questione del prospettivismo in Husserl e Leibniz, nell'ottavo capitolo de La piega, intitolato I due piani, Deleuze presenta un puntuale ed approfondito confronto tra i due filosofi tedeschi.

9Ivi, p. 34

10Cfr. Ivi, p. 45

11Cfr. Ivi, p. 46

12Cfr. Ivi, p. 53

13G. W. Leibniz, Monadologia, cit., p. 14

>>FEDE

domenica 22 luglio 2012

Narciso e la sua superficie- Parte III

3. Lo specchio

Trattando dello specchio si compie un passo spedito verso il tema della presente tesina. Lo specchio è ambito di studio privilegiato per chi si occupa di simbolismo, e il mito di Narciso in questo ha un ruolo non da poco1. Si dice che persino gli elefanti rifiutano di fare il bagno in acque pulite perché hanno imparato la lezione di Narciso ed evitano così saggiamente tentazioni che potrebbero portarli alla stessa fine. Lo specchio ci fa vedere qualcuno che a noi è identico, ma al contempo diverso, un qualcuno che è me stesso senza esserlo del tutto, una sorta di presenza inquietante che, non si può mai sapere, può sopravvivere anche a colui che di fronte allo specchio si pone. Peraltro che lo specchio e il suo campo collegato metta in mostra tale pericolo vitale lo si è visto anche sopra quando si accennava al fatto che Eros non potesse svilupparsi e crescere senza che il suo doppio, Anteros, fosse messo alla luce da Afrodite. Di più, lo specchio mette in campo pesanti questioni ontologiche, legate alla verità ed esistenza di ciò che l’immagine mostra e di ciò che è originale autentico dell’immagine stessa. L’artista, supremo creatore e giocatore con questioni di tal fatta, passa costantemente sul ciglio del discrimine tra immagine e realtà, tra finzione e verità. Pigmalione, grande scultore, era talmente capace nella sua arte da innamorarsi perdutamente di una delle sue statue e da richiedere e ottenere da Afrodite in persona di rendere di carne e ossa la sua opera. Tutte queste tematiche il mito di Narciso è in grado di svilupparle. Basta qui riportare una frase di Leon Battista Alberti: «Che altro è dipingere, se non appunto abbracciare la superficie di quella fonte?»2.

Come si vede, la complessità e pluristratificazione della questione è di portata notevole. Si cerca ora di fare un poco d’ordine grazie a un breve saggio di Umberto Eco, Intorno e al di là dello specchio. Tra le molte definizioni che dell’uomo si sono date, Eco sceglie quella di animale catottrico3, ovvero l’uomo è un animale che vive in rapporto profondo con l’esperienza dello specchio. Senza prendere posizione definitiva, è lanciata la suggestione per cui l’esperienza dello specchio è alla base di una serie di altre esperienze, quali quella del doppio, dell’indiscernibile, della percezione, della rappresentazione iconica.

L’immagine speculare è una riproduzione, e permette di fare i conti con la dimensione semiotica, ovvero di significato e di comunicazione4. Ciò che vedo allo specchio sono consapevole non trattarsi di realtà, non bevo la bibita che in esso si riflette. Lo specchio permette l’entrata nell’universo presemiotico in quanto l’immagine che esso produce dà delle informazioni. Informare è l’azione dello specchio. E se la suggestione di Eco è corretta, il comunicare, il dare significato, il dare una forma visibile a un contenuto, sono aspetti a partire dai quali leggere anche i fenomeni del doppio, della rappresentazione artistica, del riconoscimento percettivo.

Ora, è da osservare che lo specchio non fornisce informazioni circa gli oggetti, quanto piuttosto è chi si pone davanti ad esso a leggere nella sua immagine delle informazioni. Inoltre questa attività del ricercare informazioni è un’attività per così dire mentale, semiotica appunto, diretta da processi conoscitivi che si pongono di fronte a oggetti al fine di conoscere, sia pure il conoscere ben più ampio della conoscenza razionale e computazionale rigorosa. Trattare delle immagini speculari come un qualcosa che fornisce informazioni significa porsi da un punto di vista che riguarda la conoscenza, e che, a meno di ritenere l’ambito conoscitivo come esaudiente lo spettro di possibilità umane, è parziale.

L’ambito semiotico è posto da Eco alla base anche dei processi percettivi5. Il primo dei cinque paragrafi presenti nel saggio si apre spiegando come «Noi riconosciamo le cose», e tale riconoscimento si basa sul «fenomeno della costanza della percezione»6. A sua volta il fenomeno della costanza percettiva è compatibile sia con una teoria della conoscenza speculare, per cui si è passivi nel percepire e conoscere, sia con una teoria costruttiva per cui la mente si costruisce modelli interiori di quanto si percepisce. Eco in ogni caso sembra protendere per questo secondo modo di intendere il percepire. Grazie alla costanza della percezione è possibile riconoscere l’identico, ciò che è indiscernibile, singolo, unico. Il cane che ho visto ieri è lo stesso che ho visto oggi. Ma posso anche riconoscere come identica una persona che non vedo da molti anni, nonostante il suo volto possa facilmente presentarmi caratteristiche diverse. Questo si deve ad un fatto pratico-culturale, ovvero la tendenza umana è quella di tenere in conto caratteristiche che nel riconoscimento facilitano l’operazione stessa; ci sono dunque dei criteri che vengono stabiliti a livello culturale, pratico, sociale, a seconda che essi siano funzionali agli scopi prefissi, nel caso presente riconoscere una persona. Rilevante è che nel riconoscere ciò che vedo oggi come identico a ciò che ho visto ieri non si procede confrontando le due occorrenze specifiche che sono avvenute nel percepire. Infatti quando un occorrenza si presenta ai sensi, la mente costruisce un modello mentale dell’oggetto percepito, e quando percepisco di nuovo l’oggetto, ovvero quando l’occorrenza si ripropone, la si confronta con il tipo che si è ottenuto mediante astrazione, col modello mentale. Questo procedimento è simbolico nel senso triadico di Pierce: Primità è l’avvenire di una sensazione bruta, Secondità è presentarsi un oggetto estraneo di fronte, Terzità è il comprendere come quell’oggetto là fuori è dello stesso genere, dello stesso concetto di un’occorrenza che è già venuta ai sensi, quindi nella Terzità avviene il paragonare.

Si è presentato per quanto possibile nei dettagli questo passaggio del testo di Eco perché è sintomatico di un modo di intendere la percezione. Percepire un oggetto vorrebbe dire riconoscerlo, conoscerlo. Il percepire è soggetto alla legge della costanza della percezione, e la legalità è oggetto classico della conoscenza. Addirittura quanto si vede viene da Eco immediatamente ricondotto all’immagine mentale che si produce mentalmente mediante astrazione. È evidente che Eco parla di processi di conoscenza, ma non si vede perché l’operare dei sensi debba essere ridotto a processi di conoscenza. Lo scopo è presentare una legalità che riguarda l’uomo, ma appunto legalità è l’oggetto del conoscere, non dei sensi. Io non vedo la legalità, ma ciò che i sensi vedono. Che poi ci siano livelli di interazione con livelli conoscitivi, questo è innegabile ma anche discorso del tutto diverso. Significativo è che Eco in chiusura di paragrafo faccia riferimento al procedimento simbolico di Pierce, perché mette in mostra che simboleggiare è un modo del conoscere, nel caso presente del riconoscere, ovvero simboleggiare significa istituire collegamenti, nessi, legami, legalità, (in modo ovviamente diverso da quello duramente scientifico). Una questione interessante riguarda l’applicazione di tali osservazioni a Narciso. Narciso prima non si riconosce, poi si riconosce. Ma nell’uno e nell’altro caso si guarda. Di più, continua a guardarsi anche nella sua dannazione eterna nello Stige. È il guardare, non il riconoscere, ciò che fa Narciso. E vien da chiedersi se tutto l’aspetto cui sopra si è accennato circa il conoscere, il simbolo, siano aspetti che appartengano costitutivamente al guardare o non piuttosto applicazioni dell’ambito semantico in un ambito che semantico non deve essere per forza, quale quello delle sensazioni e del guardarsi.

Quanto Eco mostra riferirsi al percepire va inteso in senso specifico come modo in cui sensi e mente si relazionano. Il percepire allora va tenuto distinto dal sentire, il quale si può distinguere dal primo in quanto non crea legami, leggi, bensì sente, non si riferisce, e se riferisce, riferisce a sé. Questo significa anche uscire nel trattare il sentire dal considerarlo come modo immediato di conoscere contrapposto al modo mediato del rappresentare in tutte le sue forme. Nel momento in cui si concettualizza, non si sente, e anche l’immediatezza è un concetto. Assolutamente corretto vedere nella percezione un procedimento astrattivo, e questo lo mostra molto bene uno psicologo della Gestalt come Rudolf Arnheim7. Ma appunto il percepire astrae in virtù del suo essere un modo misto di sentire e conoscere. Che questo possa essere detto anche del sentire, significa sottintendere che tutti gli ambiti e i modi di essere della persona sono considerati come aventi una legalità, che tutti i modi siano modi di relazione. Il che può essere sostenuto, ma bisogna saper guardare alle conseguenze, soprattutto se si osserva che il ricercare leggi è ciò che fa la scienza, la quale peraltro sente questo ambito come suo esclusivo.

Narciso guarda lo specchio d’acqua e vede un’ immagine, che poi riconosce essere la sua propria. Si cerca di capire ora cosa veda su quella superficie, facendo attenzione a diverse versioni che duemila anni di vita del mito hanno mostrato.

1 Ivi, pp. 156-62.

2 L. B. Alberti, De pictura, lib. II 26, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p.162.

3 U. Eco, Intorno e al di là dello specchio, p. 25.

4 Ivi, p. 24.

5 Ivi, pp. 20-2.

6 Ivi, p.20.

7 Si veda su tutti R. Arnheim, Il pensiero visivo, Einaudi, Torino, 2011.


Andrea Togni

mercoledì 18 luglio 2012

Raymond Aron e la guerra fredda- Parte II


Per evitare quella che Clausewitz chiamerebbe “l’ascesa agli estremi”, il segretario della Difesa statunitense in carica dal 1961 al 1968, Robert MacNamara, propose quella che oggi viene ricordata come “dottrina MacNamara” o della ritorsione graduata, basata su tre principi fondamentali: l’elevazione della soglia atomica, cioè la volontà di usare l’uso di armi nucleari solo una volta superato un determinato confine; l’aumento dell’uso di armi convenzionali per risolvere le questioni diplomatiche riamaste in sospeso, e l’uso di una strategia contro-forza anche in secondo colpo, per evitare attacchi diretti alle città. Lo sforzo teorico di MacNamara non venne particolarmente apprezzato dagli europei: essi temevano una disatomizzazione del proprio territorio con il rischio una guerra con armamenti classici, guerra che non potevano comunque sostenere, considerato come l’Europa era uscita dalla Seconda Guerra Mondiale; gli europei preferivano una strategia di risposta totale, terrorizzati dal fatto che gli U.S.A. non avrebbero rischiato Boston per salvare Londra o Parigi; le reazioni negative alla dottrina MacNamara, si legano a quella volontà di autonomia che gli unilateralisti inglesi ma soprattutto i gollisti francesi sostenevano: solo con una forza autonoma ed indipendente l’Europa si sarebbe potuta difendere. L’idea di Aron è che la Francia può possedere un “deterrente minimo”, cioè una forza sufficiente a dissuadere, ma non una forza sufficiente a dissuadere da qualunque cosa: per questo all’interno dell’Alleanza Atlantica, una potenza nucleare parziale, come quella francese, aumenterebbe solo il rischio di attacco da parte dell’U.R.S.S., che potrebbe sentirsi minacciata da una nuova forza, anche se inferiore: per questo motivo, Aron spera che la Francia possa accettare un ruolo subordinato agli U.S.A. per la sicurezza di tutti.

Nel rapporto Stati Uniti-Russia, c’è sempre stato un grande timore nei confronti dell’avversario da una parte e dall’altra. I due nemici sono sempre stati consapevoli dell’impossibilità di attaccare l’altro senza rischiare una guerra totale: è l’asimmetria tra i due Grandi, cioè l’incomprensione imperfetta, unita ai sospetti degli europei nei confronti degli americani, a far evitare la guerra; questi due elementi implicano infatti l’assenza di una chiara visione strategica e la conoscenza solamente parziale della strategia del nemico, con il rischio del bluff sempre alle porte: è un duello in cui «gli americani giocano a scacchi e i sovietici a poker. I sovietici detengono però il titolo di campione del mondo di scacchi ed è a Princeton che sono state inventate le regole del poker»: ciò vale in modo particolare per la teoria della “risposta graduata” degli U.S.A., che molto somiglia al gioco degli scacchi e dall’altra parte la strategia della “risposta totale”, che più si adatta al rischio del poker. La domanda che Aron si poneva e la risposta che auspicava era relativa alla possibilità che la Russia applicasse la strategia americana della risposta graduata, che presentava vantaggi non solo perché si evitava l’ascesa agli estremi, ma anche per la posizione geografica dei russi, che potevano controllare le reazioni degli europei.

La riflessione del pensatore francese porta alla conclusione di un rovesciamento delle prospettive tradizionali: non esistono più né la guerra né la pace, ma esistono la minaccia di guerra e la dissuasione; le alleanze non possono più essere intese in senso tradizionale: le grandi potenze non proteggono i paesi minori se questi possono far scattare l’apocalisse. «Le alleanze o evolveranno verso forme comunitarie o si scioglieranno», esisteranno quindi alleanze in cui solo uno stato sarà incaricato alla gestione della guerra e della pace, gli altri, se vogliono essere protetti, devono sottomettersi: è questa per Aron l'essenza della guerra fredda.


>>FEDE


domenica 15 luglio 2012

LA NOTTE DELLE LANTERNE

Ernesto impiegò sette secondi più del solito a chiudere la sua ventiquattrore, quella sera.

Pensieri e dubbi assillavano la sua testa, li aveva rimandati per tutto il giorno, lasciandosi assorbire, come al solito, dal suo lavoro. Avevano fatturato un miliardo e mezzo, non una giornata eccezionale, ma di cui sicuramente nessuno in società poteva lamentarsi.

Percorrendo gli ariosi corridoi del settantaduesimo piano, gremiti di uomini in divisa da dirigente -le teste alte e fiere, il passo svelto-, poteva percepire la soddisfazione e i complimenti dei colleghi per il lavoro svolto in quella giornata da quel ritmico rumore di passi che echeggiava tra le pareti di marmo color latte.

In realtà, un fino osservatore avrebbe notato quella lieve ed impercettibile ruga di insicurezza sul volto: come tutti, era stato educato fin dalla più tenera età a non mostrare alcuna debolezza, se proprio non fosse possibile non averne. Non era davvero convinto che tutti, in quel grattacielo celeste, fossero felici per lui, che tutti lo stimassero e che apprezzassero il suo lavoro. Dio! Non sapeva nemmeno se avesse davvero fatto un bel lavoro quel giorno!

Era bravo a nascondere tutti questi strani dubbi, però. Sapeva che stava implicitamente infrangendo la regola principale della società: lo spirito di gruppo, la solidarietà e la fiducia nei proprio colleghi dovevano essere davanti a tutto.

Si lasciò sfuggire un leggero sospiro, appena entrato nell’ascensore assieme a tutto il codazzo di dirigenti. L’apparecchio richiuse le porte dolcemente davanti ai loro occhi; non sembrava neppure che si muovesse, talmente era silenzioso e confortevole, ma stava rapidamente percorrendo tutti i piani dell’edificio, scendendo verso il basso. Un uomo alla sua sinistra, un dirigente di quinto livello coi capelli biondi a spazzola, si fece educatamente largo fino al frigo bar, traendone un bicchiere di spumante: probabilmente aveva sete, doveva aver fatto qualche presentazione o condotto le fasi preliminari di qualche trattativa e gli si era seccata la gola.

Ernesto si domandava distrattamente come potesse davvero essere sicuro che, anche solo in quell’ascensore, tutti lo conoscessero e lo stimassero. Il cameratismo su quale si fondava la loro società era solo una facciata, un modo per mostrarsi forti e compatti nel confronto dei rivali? O esisteva davvero, e lui era quello storto?

Al piano terra, una musica soave segnalò agli occupanti dell’apparecchio che erano giunti a destinazione, e dopo un attimo, le porte si aprirono con la stessa dolcezza con la quale si erano chiuse, rivelando la maestosa hall del grattacielo.

Ernesto sfilò con passo austero, valigetta stretta nella mano destra con una tale naturalezza che poteva sembrarne un prolungamento, attraverso il colonnato lastricato di velluto che conduceva verso l’uscita.

Erano nove giorni che aveva ormai capito che qualche cosa in lui si era rotto, un qualche ingranaggio doveva essersi danneggiato, e ora aveva come iniziato ad avvertire l’assurda insostenibilità della sua situazione.

L’aria fresca della sera gli baciò le guance appena varcò la soglia, e la folta legione di uomini in giacca e cravatta si diradò come una nube di fumo appena uno ci soffia sopra. Nemmeno in quel momento, la fine della settimana lavorativa, riusciva a sentirsi un poco sollevato: la sua mente non poteva che pensare che quel lieve bacio non poteva essere un premio per i suoi sforzi o una consolazione per le sue delusioni, perché l’aria della sera baciava con la stessa dolcezza tutti gli uomini che uscivano da palazzo della sua società.

In quei nove giorni, aveva lentamente iniziato a sentirsi, dapprima, strano, e poi, quando ebbe iniziato a scavare dentro il suo cuore, alla lucida ricerca del motivo di quella malinconia, inadatto. Ma non era inadatto la parola che poteva descrivere i suoi sentimenti, il guaio era semmai che non sapesse quale fosse la parola giusta.

La soluzione, piuttosto, gli era apparsa chiara fin da subito. Ma ci era voluta più di una settimana per decidersi ad adottarla, perché Ernesto temeva le implicazioni morali che avrebbe comportato. Era nato e cresciuto in una famiglia devota e, sebbene la vita da adulto avesse attenuato l’influenza degli insegnamenti infantili, quell’idea non poteva che generare all’interno del suo animo già tormentato una forte sensazione di disagio.

La soluzione era, ovviamente, una puttana.

Aveva subito deciso che, se proprio doveva pagare una donna per fare quella cosa sporca che la morale comune mal tollerava, sarebbe stato meglio accadesse di venerdì sera, al termine della settimana lavorativa e quando lo stress aveva raggiunto il suo apice, oltre ad avere la possibilità di riposarsi il giorno seguente e riflettere sul suo gesto e la sua effettiva utilità.

Ma era ormai mercoledì, e il venerdì gli pareva troppo vicino. Non ce la fece, non ne ebbe il coraggio. Così, Ernesto decise che avrebbe stretto i denti, nascosto il suo malessere per più di sette giorni, fino al venerdì della settimana seguente. Era certo, con così tanti giorni a disposizione, non avrebbe avuto problemi a riflettere a fondo su quella decisione, a valutarla e a trovare il coraggio di recarsi davvero da una puttana.

Mentre stava comodamente seduto sul morbido sedile posteriore della limousine nera che lo era venuto a prendere, come di consueto, davanti al grattacielo della società per la quale lavorava, tornava coi pensieri a quegli ultimi giorni: non aveva fatto nulla di ciò che si era prefissato, anzi aveva evitato il più possibile di pensare a quella sera, facendo finta che non avesse deciso nulla, che tutto fosse come al solito. E quel giorno, si era svegliato con la paura di arrivare alla sera. Fu sul punto di rinunciare, cercando di autoconvincersi che il suo era solo un accumulo di stress, che se ne sarebbe andato con una bella vacanza in qualche località esotica, ma alla fine non poté che guardare in faccia la realtà: aveva bisogno di quella puttana, e non poteva più rimandare.

L’auto percorreva sicura l’interstatale, diretta verso casa sua, ed Ernesto in almeno tre occasioni dovete farsi forza per trattenere una crisi di pianto. Si sentiva regredito all’infanzia, quando piangere era l’unico modo per convincere sua madre a non fargli fare qualcosa che lo ripugnava, benché fosse consapevole che era necessaria.

Poi, tutto d’un fiato, come la prima volta che bevi del whisky, pigiò il tasto dell’interfono e disse al suo autista di portarlo a fare un giro sulla Duecentosedicesima.

L’uomo dall’altro lato del vetro insonorizzato, che mai Ernesto aveva visto in faccia e di cui mai aveva udito la voce, voltò leggermente il capo, lasciando appena appena intravedere i folti baffi grigi scuri e gli occhiali neri, e con un cenno fece sapere al cliente che aveva recepito.

La limousine lasciò la lussureggiante interstatale sopraelevata, torno di sotto, nella città, ed iniziò a gironzolare superba tra le vie del centro. Poi, prese la Bisettrice, una lunga strada in rettilineo a quattro corsie che congiungeva il centro con il quartiere limitrofo del Settore C, il terzo più grande dei sei distretti della città.

Lungo quel percorso, cercò di non pensare a nulla, si impose una serie di respiri regolari al fine di distendere i muscoli. Gli stessi esercizi ai quali venivi educato fin da bambino, per contenere le emozioni e palesare la più salda sicurezza in te stesso.

Ma la sua mente non rispondeva più al suo volere, la tensione di quei giorni era stata troppo alta per permettergli di mantenere il completo controllo delle sue facoltà psico-fisiche. Come si abbordava una puttana? Come ci si comportava con lei? Come avrebbe potuto o dovuto fare? Non ne aveva la più pallida idea, e forse la cosa lo preoccupava ancora di più delle problematiche morali che il suo gesto comportava.

Lo spaventava a morte l’idea di mostrarsi debole, insicuro, imbranato, davanti ad una misera puttana.

La Duecentosedicesima strada era una nota traversa del Settore C, lungo la quale pattugliavano puttane di ogni genere ed età. La limousine nera rallentò e passò per quella via come una modella ad una sfilata, ammirata e richiamata da tutto il pubblico.

Donne gracili e vestite di due stracci, financo sporche, con gli occhi completamente vuoti…per trovarne qualcuna in carne dovevi puntare le vecchie obese che stavano in fondo alla strada, e che ad Ernesto mettevano i brividi ad ogni disgustoso movimento delle loro forme raggrinzite.

L’autista della limousine mosse leggermente il capo, immaginando da dietro il finto specchio il volto deluso e raccapricciato del suo cliente.

Per la prima volta in carriera, l’uomo accese l’interfono per primo, suggerendo ad Ernesto che, se glielo consentiva, poteva portarlo in un posto migliore. Stavolta, fu il dirigente in giacca e cravatta a fare un nervoso cenno d’assenso con la testa.

Non sapeva se rallegrarsene o rabbuiarsene: certo, ora sarebbe stato condotto in un luogo sicuramente più adatto alla sua classe, ma era anche vero che quel misero autista adesso aveva una posizione più forte, nel delicato equilibrio sociale che vigeva in quella spaziosa macchina di lusso.

Durò solo un secondo, e poi anche quel pensiero andò a far fondo nella mente di Ernesto, lasciando in superficie il dilemma del comportamento che avrebbe dovuto adottare di lì a pochi minuti.

La fiamma nera riprese per qualche tratto vie conosciute e ben frequentate, poi imboccò la Cinquantesima, la percorse per circa tre quarti, e svoltò a destra nella Centoquattordicesima.

Non conosceva quella zona della città, Ernesto, ma apprezzava il fatto che le sue architetture docili non lo mettessero a disagio.

La via principale, che poi pareva essere l’unica, visto che tutte le altre erano dei viottoli senza uscita, era illuminata da un doppio filare di lanterne, su entrambi i lati. Le ragazze pattugliavano i due marciapiedi con tranquillità, quasi fossero ad una comunissima passeggiata serale.

Ernesto, appiattendosi contro il vetro del finestrino, poté notare l’aspetto naturalmente seducente di quelle fanciulle, i loro fisici delicatamente perfetti, l’abbigliamento pulito ed insieme sexy ed elegante. Non c’era dubbio: il suo autista aveva scelto il posto giusto.

Molto più discrete, le ragazze di lì non assaltavano la vettura cercando di farsi trascinare via con essa, costi quel che costi, ma piuttosto parevano quasi infischiarsene. Si accorgevano della costosa ospite del quartiere con la coda dell’occhio e, distrattamente, la salutavano con un ammiccante guizzare delle dita della mano. O almeno, pensò Ernesto, erano brave a fingere così.

Dopo nemmeno un minuto in quel curioso paradiso di onesta immoralità, l’uomo in giacca e cravatta adocchiò una fanciulla, dai capelli lunghi biondi e lisci, che le arrivavano fino infondo alla schiena, la pelle chiara e due grandi occhi glaciali. Pensò dovesse trattarsi di una ragazza dell’est.

Indossava un cappottino grigio chiaro dal quale spuntava della calda pelliccia; una corta gonna attillata, rossa splendente, le copriva il sedere e le parti intime, rivelando due lunghe gambe snelle, che affondavano in un paio di stivali, rossi anch’essi, con un tacco lungo e sottile. Faceva roteare la minuscola borsetta blu scura ornata di finti gioielli di vetro colorato con una tale sensualità, che Ernesto per poco non rimase ipnotizzato da quel movimento.

Ordinò all’autista di fermarsi accanto a quella giovane meraviglia: aveva fatto la sua scelta.

Sforzandosi di apparire uomo di mondo, Ernesto la invitò a salire. La ragazza sorrise, quindi si lasciò scivolare all’interno della limousine.

Ernesto era ora palesemente nervoso, e si passava le mani l’una nell’altra, per asciugarne il sudore. La ragazza stava attendendo con un sorriso dolce e disinteressato accanto a lui, quando le domandò quale fosse la tariffa.

Candidamente, rispose che erano duecento soldi, pagamento anticipato.

Ernesto pagò subito, con uno scatto. Appena la ragazza prese la mazzetta di banconote, mettendosele nella borsetta, Ernesto riprese ad espirare ed inspirare nervosamente, nel vano tentativo di calmarsi.

La ragazza, notato il suo imbarazzo, non si scompose, non doveva essere il primo a comportarsi così in sua presenza. Gli appoggiò una mano sulla spalla, si sbottonò il giubbottino, appoggiandolo sul sedile di fronte, poi si mise a sedere frontalmente al suo cliente. Quindi, con voce calma e mielosa, gli disse:

-Va bene, allora: di cosa vuoi parlare?

Parlare. Una parola che quasi non aveva più significato in quel mondo.

Istintivamente, la mente di Ernesto corse a ritroso nel tempo, cercando l’ultima volta che quel trentunenne di successo aveva veramente parlato con qualcuno.

-Come ti chiami?- interruppe i suoi pensieri Ernesto.

-Lavinia. Ti piace?

-Molto…è il tuo vero nome?

-Certo, è a questo che serve il pagamento anticipato.

Ernesto dilatò le labbra in un sorriso nervoso, inchinando il volto in basso e verso destra, per sfuggire all’emozionante spettacolo di quegli occhi di vetro pregiato.

Per un attimo fu silenzio; Lavinia restò a guardarlo senza apprensione, lasciandogli il tempo che la sua timidezza richiedeva.

-Come è stata la tua giornata?- gli domandò poco dopo cogliendolo di sorpresa.

La sua giornata. Nessuno gliel’aveva mai chiesto.

Ernesto, lentamente, rispose alla domanda, praticando una piccola crepa nella sua naturale ritrosia. Col passare dei minuti, mentre l’auto procedeva lentamente tra tutte le vie di quella gigantesca città, la crepa si allargò, ed Ernesto divenne un fiume in piena.

Non ci volle molto, alla ragazza, a capire quale fosse il suo problema. Lo lasciava parlare, e ogni tanto commentava. E non erano sempre commenti di circostanza, banali e scontati, o accondiscendenti; dopo che la loro conoscenza fu un poco più approfondita, Lavinia si permise anche di dissentire con Ernesto su alcune cose, con educazione e gentilezza.

Nonostante ciò, quell’uomo non poteva che sentirsi stranamente a suo agio con quella bellissima estranea, che non faceva altro che il suo immorale lavoro, ma lo faceva con una tale bravura e con così tanta delicatezza, che sembrava poter ingannare le menti di tutti, così da farsi percepire con la più stretta e fedele conoscente e confidente.

Le parlò del suo lavoro, e Lavinia si trovò piuttosto interessata, e domandava maggiori dettagli, ed Ernesto, per la prima volta in vita sua, fieramente glieli forniva. Più di una volta, alla sua testa affiorò il pensiero che quella dolce puttana doveva essere stata a parlare con chissà quanti dirigenti come lui, gente che faceva il suo stesso lavoro, magari nella sua stessa società, e sicuramente doveva averne la testa piena di quei particolari tecnici, che gli stava mentendo a fingersi interessata. Ma il suo cuore scalciava e respingeva quei noiosi ed inutili dubbi in fondo allo stomaco, e si abbandonava al piacere puro e peccaminoso della conversazione.

Alla fine, dopo aver ascoltato la storia di quell’accordo con la finanziaria che Ernesto aveva chiuso praticamente da solo, contro ogni pronostico, Lavinia gli disse una frase semplice, ma che non riuscì mai più a togliersi dalla testa:

-Molto astuto, davvero.

Sorrideva, mentre lo diceva, un sorriso sincero e per nulla ironico.

Astuto. Doveva essere un complimento.

Ernesto aveva sempre pensato che i complimenti fossero parole come "bravo", "soddisfacente" o "corretto", ma quel termine che aveva usato la ragazza era diverso: prima di tutto lo aveva sentito davvero, e non era stato costretto ad immaginarlo, o a dedurlo; in secondo luogo, quella parola era penetrata sotto alla sua giacca, si era scavata un varco sotto la sua pelle pallida, e aveva trovato un posto confortevole attorno al suo cuore, scaldandolo.

Ma forse si stava illudendo, una puttana è pagata per farti piacere, anche se non te lo meriteresti.

-Lo pensi davvero?- si lasciò sfuggire Ernesto.

-Certamente. Non lo dico perché mi hai pagato, ma lo penso davvero. Se non fossi d’accordo, avrei a disposizione almeno una ventina di metodi per fartelo sapere senza lo stesso causarti un dispiacere.

Ernesto non poté che guardarla con sguardo perdutamente ammirato, mentre la limousine, tornata lungo la via delle lanterne, rallentava, fino a fermarsi a lato della strada, nel punto in cui Lavinia era entrata nella vita di quel trentenne disperato.

-L’ora è terminata.- disse, sempre sorridendo.

Riprese il suo giubbotto, se lo infilò e ne allacciò i bottoni, prima di scendere dall’auto.

Ricominciò a camminare e a far roteare la sua borsetta, come quando era stata avvistata, un’ora e due minuti prima e, quando la limousine nera metallizzata ripartì, passandole nuovamente accanto, Lavinia affidò un sensuale bacio al vento, che raggiunse il finestrino accanto ad Ernesto, ne oltrepassò il freddo vetro, ed andò a posarsi sulla sua mano destra, alzata in segno di saluto.

Una sensazione di rilassamento e di pace albergava ora sotto la pelle di Ernesto, che sprofondava nella pelle sintetica degli interni della vettura, sospirando.

Finché visse, non scordò mai quella sera, in cui una puttana gli aveva salvato la vita.

Valerio Moggia

giovedì 12 luglio 2012

Narciso e la sua superficie- Parte II

2.  Elementi simbolici

Cogliere le diverse simbologie espresse dal mito di Narciso significa nel presente caso seguire due vie: anzitutto si cerca di riferirsi ai nuclei tematici definiti dai due racconti, e ci si muoverà pertanto tra simboli e informazioni; successivamente si vedranno elementi simbolici nel senso più stretto, ovvero a prescindere dallo stretto contenuto informativo, in modo da lasciare maggiore spazio alle finestre e ai rimandi che i simboli stessi allacciano.

Lo psicologo della Gestalt Arnheim definisce col termine microtema1 un elemento di una rappresentazione pittorica, posto solitamente nel centro di essa, che ha la funzione di riassumere in sé la vicenda, i contenuti e le forme di quanto avviene nel complesso della composizione. È possibile adattare l’espressione microtema a quanto Ovidio ci racconta della ninfa Eco. L’affascinante ninfa sembra in qualche modo ripetere in piccolo le turbative mimetiche di Narciso2, e permette a Ovidio di affiancare il tema del riflesso visivo con quello del riflesso acustico, importando un elemento almeno in parte sinestesico. Ovviamente non si può pensare ad una coincidenza assoluta tra i due termini posti in paragone, in quanto balza subito all’occhio che Eco non si innamora della propria immagine bensì del giovane cacciatore. Tuttavia la presenza della storia di Eco permette a Ovidio di giocare sul tema del riflesso in più livelli concentrici seppur non coincidenti.

Peraltro la storia di Eco così come si declina nella Metamorfosi è una novità, un pezzo di bravura dello stesso poeta3. Eco era stata coinvolta in precedenti trame mitologiche in tresche amorose che prevedevano la non corresponsione dell’amore. L’episodio più significativo vede Eco rifiutare l’amore del dio boschereccio Pan4, in quanto Eco ama Satiro che però a sua volta è innamorato della ninfa Lide. In questa diversa versione ricompaiono alcuni motivi che Ovidio rielabora, quali quello del rifiuto di un corteggiamento e della aurea regola dell’amare chi t’ama, in quanto in caso contrario si incappa in sventure di cui Narciso può essere testimone.

Peraltro Ovidio racconta nei Fasti della ninfa Lara5, la quale minaccia Giove di raccontare a Giunone delle sue tresche amorose con le ninfe sue sorelle. Al che Giove risponde strappando la lingua a Lara. Ancora una simmetria con il racconto delle Metamorfosi dove però è Giunone che punisce Eco perché la distrae dal controllare Giove. Si ha a che fare con la mutazione ed evoluzione di un tema, aspetto tipico del mondo del simbolo. E si può anche aprire la considerazione per cui Eco e Lara passano attraverso un prima e un dopo, un sé per così dire integro e un sé mutilato, mostrando ancora ulteriore assonanza con un Narciso volto tutto a conoscere e non comprendere il rapporto tiranno con la fonte e la sua immagine.

Eco è certamente mutilata dalla punizione di Giunone, ma dimostra di saper ben sfruttare la situazione6. Quando Narciso stanco di essere seguito le grida «Huc coecamus», «Incontriamoci qui», Eco prontamente ribatte «Coecamus», che in latino significa incontrarsi, e anche facciamo l’amore. O ancora, allo sdegnoso Narciso che le intima «Possa io morire, prima che ti sia largito il mio corpo» Eco ribatte: «ti sia largito il mio corpo». Riecheggia il tema dell’amore e della relazione all’altro che è nucleo decisivo del racconto. Elemento talmente centrale che è da Narciso rifiutato: Narciso rifiuta di riconoscere Eco, l’altro da sé, l’altro come oggetto d’amore che manca per completarsi. Narciso non vuole essere toccato, con-fuso con Eco. Narciso non vuol far la fine di Ermafrodito, sua perfetta antitesi, che con-fonde in sé i corpi del maschio e della femmina abbracciantesi7. Narciso nelle acque dello Stige guarda se stesso, continua nella sua opera più pazza: specchiare sé e non riconoscere altri che sé. Quasi la negazione di ogni rimando, di ogni Eco, di ogni simbolismo. Pellizer afferma che Eco è «espressione di una pura vocalità senza corpo e senza immagine, la cui esistenza stessa è solo aurale, è incapace di articolare un linguaggio autonomo, ma sa solo produrre un riflesso acustico privo di senso (o esposto a un senso combinatorio affidato al caso o all’interpretazione dell’enunciatario): non a caso viene dunque evocata come simbolo di questa crisi della comunicazione»8. Il simbolo, che ha un suo carattere chiave nella comunicazione di senso, diviene in Eco, simbolo dell’assenza di simbolo.

Altro nucleo tematico e simbolico può rintracciarsi nella maledizione che Conone dà in garanzia a Eros e Ovidio a Nemesi9. Particolarmente interessante è il riferimento a Eros e a una particolare storia mitica raccontante la sua nascita10. Temisto, retore del IV d.C., racconta come la dea Themis abbia ingiunto a Afrodite, la quale ha messo al mondo Eros, di partorire anche il suo doppio, Anteros, in quanto senza di lui Eros avrebbe potuto sì essere generato, non però crescere. I due fratelli hanno identica natura e sono l’uno la causa dell’altro. Amore è riferimento all’altro da sé, è sentirsi limitati, aver bisogno di, sentire la mancanza di. Sembra di sentir riecheggiare il racconto che l’Aristofane del Simposio dipinge di Androgino11, dell’uomo tagliato a metà che ricerca la parte mancante. Il che ancora può richiamare la tavoletta che spezzata va ricongiunta con la metà (da cui deriva l’etimologia greca del symballein), e che sarebbe diabolico (diaballein) considerare come eternamente divisa e alienata da essa. (Come diabolica è la fine di Narciso, intoccato contemplatore di sé nelle acque dello Stige).

Va da sé che parlare d’amore porta con sé notevoli problematiche soprattutto nel caso in cui l’amore non sia corrisposto. E così nelle due versioni classiche del mito ritroviamo una maledizione, eseguita da Eros o Nemesi12. Maledizione che nulla ha a che fare con immoralità di un amore omosessuale che problemi non creava nell’antichità greco-romana (se si eccettua il problema di un giusto rapporto d’età tra amante attivo e passivo, più giovane). La maledizione è legata piuttosto all’incapacità di Narciso di vedere e riconoscere sé, di staccarsi dall’ammirazione per il proprio corpo. La colpa che costa la morte a Narciso è colpa contro la reciprocità amorosa. Una colpa scontata mediante una morte che i diversi compilatori delle diverse versioni declinano in modi diversi13. Ovidio lascia che Narciso si consumi nel suo rifiuto di cibo e riposo; altri parlano di annegamento, come Plotino, ma anche Caravaggio il cui Narciso tende il braccio nell’abbracciare la figura e sembra sul ciglio del precipizio; o ancora Narciso può essere fatto morire mediante un colpo di spada autoinfertosi, in una duplicazione della sua crudeltà contro l’Aminia di Conone. Questi gli esempi più diffusi.

Si passano ora in rassegna una serie di nuclei simbolici senza un’aderenza così stretta alle fasi dei racconti come nei passi precedenti.

Anzitutto interpretazioni di stampo psicanalitico hanno contribuito a evidenziare il carattere sessuale della vicenda. Così l’amor di sé che ha in Narciso la sua incarnazione può esser letto come «paradigma dell’autoerotismo» o come «etiologia della masturbazione»14. Interpretazioni che portano poi a porre l’accento anche sull’omosessualità di Narciso. Tuttavia non si può non sottolineare come l’ambito della sessualità assuma colorazioni peccaminose in un’epoca cristiana cui anche la psicanalisi appartiene. Il contesto greco in cui si svolge la storia di Narciso appartiene a parecchi secoli prima della venuta di Cristo, e questo va tenuto in debita considerazione. Applicare analisi di solo stampo sessuale al racconto può (forse) essere fatto solo con ampie precisazioni sui contesti cui ci si va a riferire, contesti che riflettono mentalità, costumi, relazioni sociali, diversi.

Discorso in parte diverso lo si può fare circa la nudità eroica15. Un breve saggio di Gualerzi16 mette in evidenza le valenze sociali in Grecia dello stare nudi. In particolare, la nudità tra maschi era ammessa solo se vi era parità di condizione, ovvero se tutti erano nudi, come alle terme o in gare sportive, in quanto in caso contrario colui che non portava i vestiti era da considerarsi in una posizione subordinata a chi era vestito. E ancora nudo un uomo non poteva certo esserlo nei confronti di una donna vestita, in quanto in questo caso si dava potere a chi, come le donne, nella società greca potere non avevano. Zanker, storico dell’arte romana, mette in evidenza come la comparsa in epoca tardo repubblicana di statue onorarie nude di stile ellenistico, era da porre in netto contrasto con l’usanza segnata dal mos maiorum romano che vedeva nell’uomo in divisa ufficiale l’unica possibilità di ritratto, in quanto l’uomo nudo esibiva una personalità più legata alla sua particolare persona che non alla carica statale ricoperta17. Come si vede da questi pochi accenni, intorno alla nudità tutto il mondo antico ha messo in gioco riflessioni fondanti. Tuttavia è complesso sostenere che sia proprio la nudità eroica ciò che mette primariamente in mostra il mito di Narciso. Di certo gli studi di Freud sul narcisismo e sulla necessità di esporre la propria immagine hanno un ruolo decisivo18. Ma da tenere conto è che Ovidio parla di un Narciso vestito, che semmai si batte il petto nudo, ma solo quello.

Il fuoco può in modo tangenziale essere considerato nella simbologia del mito, in relazione al tema dell’amore che accende i fuochi della passione. Ma per l’appunto tangenziale ne va considerata la portata nel caso qui preso in esame19.

L’acqua svolge un ruolo di primo piano20. Narciso è figlio del fiume Cefiso e della ninfa delle fonti Lirìope, la fonte è l’elemento chiave in cui Narciso vede svolgersi il suo innamoramento. Il tutto apre alla considerazione della tematica dello specchio, che però si tratterà a parte tra poco. Si segnala l’accostamento che talvolta si è fatto tra il nome Narciso e il nome greco della torpedine di mare, nàrke, animale marino che provoca stordimento, e di qui il collegarsi alle etimologie di narcotici, filtri e pozioni d’amore responsabili di amorose passioni. Tuttavia in questo caso si tratta di assonanze che possono colpire la fantasia, ma poco utili sono nella comprensione complessiva del mito21.

Una categoria che merita di essere citata è quella chiamata da Vidal-Naquet «cacciatori neri»22, i quali sono dei giovani che per divenire adulti devono superare una serie di prove, cosa affatto scontata e che in effetti vede spesso il cacciatore soccombere. Un celebre episodio a riguardo è quello di Adone, il quale in una battuta di caccia viene colpito all’inguine da una zanna di cinghiale e vede così frustrato il tentativo di conquistare l’agognato corretto rapporto col genere femminile. Il sangue sgorgato dalla ferita mortale di Adone si dice abbia visto sorgere la prima rosa rossa. Assonanza non da poco con il fiore di narciso nascente nel luogo di morte di Narciso. Simbolismo del fiore che qui si è citato solo per due dei casi più celebri ma che subisce una declinazione di storie e racconti davvero ragguardevole.

1 Si veda ad esempio il testo R. Arnheim, Il potere del centro, Abscondita, Milano, 2011

2 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp.56-58.

3 Ivi, p. 58.

4 Ivi, p. 59.

5 Ivi, p. 60-1.

6 Ivi, p. 62-4.

7 R. Mugellesi, S. Landucci, Lo specchio infelice, in Artedossier n.274, pp. 20-5, Giunti, Firenze, 2011.

8 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p. 93.

9 Ivi, p. 64-6.

10 Ivi, p.144-6.

11 Platone, Simposio, pp. 139 sgg., BUR, Milano, 1997.

12 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp. 66-8.

13 Ivi, pp.73-6.

14 Ivi, pp.150-1.

15 Ivi, p.151.

16 S. Gualerzi, Il peccato negli occhi. Il tabù della nudità femminile nel mondo classico, in Il corpo e lo sguardo. Tredici studi sulla visualità e la bellezza del corpo nella cultura antica, pp.67-96, a cura di V. Neri, Pàtron, Bologna, 2005.

17 P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, ad es. pp. 7-11, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.

18 Peraltro bisogna intendersi su cosa voglia dire narcisismo. Se con esso si vuol semplicemente indicare la necessità di esibirsi agli altri, francamente è difficile capire come ciò possa essere posto in relazione al racconto ovidiano. Narciso non vuole mostrarsi agli altri, né agli amanti, né tanto meno a Eco, che anzi sdegnosamente scaccia quando ella tenta di abbracciarlo. Narciso vuol vedere se stesso, e anche quando ha capito ciò, continua non di meno a rimirare se stesso nello Stige e per l’eternità. Forse l’amore, l’esibizione, la comunicazione con gli altri non sono le tematiche fondanti che Narciso col suo mito mette in campo.

19 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp. 153-4.

20 Ivi, pp. 151-3.

21 Ivi, p.154.

22 Ivi, pp.155.


Di Andrea Togni

lunedì 9 luglio 2012

Una guerra dimenticata

Se si dicesse che l’Italia nel 1968 ha combattuto una guerra, nessuno ci crederebbe o comunque la si interpreterebbe senso metaforico. In effetti definire “guerra” i fatti che sono avvenuti a fine giugno 1968 al largo delle coste riminesi è forse eccessivo ma così la definisce Giorgio Rosa, protagonista di quelle vicende, aggiungendo: “l’unica che l’Italia sia stata capace di vincere”. Ma andiamo con ordine: lo “stato” sconfitto in questa guerra era l’Isola delle rose o per meglio dire Insulo de la Rozoij. Non si trattava di una vera isola: era infatti una piattaforma artificiale posta a 11,615 Km al largo della costa riminese, quindi (per le leggi di allora) fuori dalle acque territoriali italiane. L’isola fu voluta dall’ingegnere bolognese Giorgio Rosa e realizzata dalla SPIC (Società Sperimentale per Iniezioni di Cemento), costituita proprio con quello scopo e diretta dalla moglie di Rosa.  Lo scopo originario era di creare un posto turistico libero dai tanti impedimenti burocratici italiani; l’isolotto doveva contenere un bar e un’osteria oltre ad altre attività turistico commerciali. L’idea venne all’ingegnere nel 1957 ma i lavori cominciarono solo nel 1964 e si completarono nel 1968 ( benchè l’isola fosse stata aperta al pubblico il 20 agosto 1967). Durante i lavori le autorità italiane si opposero alla costruzione della piattaforma poichè si diceva che il territorio su cui sorgeva era affidato all’Eni. Per non avere più nulla a che fare con l’Italia il I maggio 1968 Rosa e alcuni suoi collaboratori tennero consiglio per formare un  governo e dichiararono l’isola indipendente: la forma di governo era una repubblica con tanto di presidenza del consiglio e cinque dipartimenti, primo presidente della repubblica fu lo stesso Giorgio Rosa. Per rimarcare la distanza dall’Italia si scelse come lingua ufficiale l’Esperanto e come valuta il Mill il cui cambio era di 1:1 rispetto alla lira italiana. L’isola non emise mai monete ma i Mills circolavano sotto forma di francobolli; era dunque nata l’Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj . In quel periodo era già successo che una piattaforma in mezzo al mare fosse dichiarata stato autonomo: è il caso di Sealand residuo di una fortezza marittima Munsell usata dalla Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale. Posta a circa 10 Km al largo del Suffolk fu occupata il 2 settembre 1967 dal pirata radio inglese Roy Bates che ne dichiarò l’indipendenza facendo nascere il principato del Sealand. Questo stato è tuttora esistente (benchè non sia riconosciuto ufficialmente da alcun paese) nonostante abbia avuto un colpo di Stato, poi sventato con una vera e propria azione militare con tanto di un elicottero da guerra e mercenari. L’azione ha comportato un caso diplomatico con la Germania: il responsabile del colpo di stato era un cittadino tedesco che fu trattenuto come ostaggio.  Al contrario di questo principato l’Isola delle rose ebbe una vita molto breve.  Infatti il 25 giugno 1968 la guardia di Finanza fece un blocco navale intorno alla piattaforma e la occupò insieme coi carabinieri. Piero Civata e consorte, al momento le uniche persone che si trovavano sull’isola, furono riportate in Italia. L’isola delle Rose divenne oggetto di diverse incheste parlamentari: un rappresentante del MSI parlò di violazione del suolo patrio. Altri fecero ipotesi che oggi diremmo uscite dalla mente dei teorici del complotto: secondo i servizi segreti era una base per l’attracco di sommergibili sovietici, secondo Zangheri, futuro sindaco di Bologna, si tratterebbe di un’azione destabilizzante da parte del leader albanese Hohxa. Alla fine fu presa la decisione di distruggere la piattaforma nonostante un telegramma diretto al presidente Saragat in cui Rosa chiedeva lo sgombero dell’isola, e altri tentativi legali per salvare il ministato. L’11 Febbraio 1969 gli artificieri fecero esplodere una prima carica che danneggiò la struttura senza però farla inabissare, due giorni dopo ci fu una seconda esplosione e l’isola si piegò senza affondare secondo il più classico Flangar non flectar. Come molto spesso accade ciò che non riesce all’uomo lo compie la natura e così il 26 febbraio una burrasca fece affondare l’isola. La breve esperienza della Repubblica esperantista dell’isola delle rose ebbe così fine. Di lei rimane qualche tubo rinvenuto nel 2008 da alcuni sommozzatori e diversi francobolli ma soprattutto rimane l’ingegner Rosa, tutt’ora vivente a Bologna. Non è più tornato a Rimini e non esercita più il diritto di voto (eccetto che nel ’94 e nel ’99 entrambe le volte deluso da chi aveva votato). Non era giovanissimo all’epoca dei fatti(essendo nato nel 1925) e nemmeno di sinistra, definendosi un liberale indipendente, ma è stato l’unico a compiere un atto davvero rivoluzionario costruendo dal nulla più assoluto un piccolo stato contro il parere dei potenti. Il sogno è finito presto ma come recita uno dei francobolli emessi dall’Isola delle Rose Hostium rabies diruit opus non ideam.


Siti consultati




venerdì 6 luglio 2012

La manomissione delle parole

Il seguente articolo rientra nella sezione "Discorsi Tesi", il cui obiettivo è presentare in breve il risultato di una ricerca, appunto la tesi di laurea, per fornirvi interessanti spunti da seguire per saperne di più sul tema trattato: ovviamente i pezzi non hanno lo scopo di darvi un quadro esauriente (che sarebbe impossibile fornire in poche righe, dato che ci è voluta un'intera tesi), ma dare il la per vostre future ed eventuali ricerche. Ecco il discorso della laurea triennale di Mariangela, maggio 2012. Buona lettura!


L’argomento sul quale ho incentrato il mio elaborato mi è stato suggerito da un testo di Gianrico Carofiglio intitolato "La manomissione delle parole". Ho infatti trovato molto interessante la spiegazione che l’autore ha dato del titolo scelto per il suo romanzo. Il termine manomissione è appunto stato utilizzato per il suo duplice significato: esso è sinonimo di alterazione e danneggiamento e, allo stesso tempo, è anche sinonimo di liberazione e riscatto. La manomissione nell’antico diritto romano era, infatti, la cerimonia che permetteva a uno schiavo di essere liberato. Le parole manomesse possono infatti dare un senso nuovo alla nostra esperienza, oltre che a ciò che sappiamo, che crediamo e che vorremmo: la parola riesce a definire il mondo in termini nuovi creando quella che noi chiamiamo la realtà.

La povertà della comunicazione si esprime, infatti, in povertà d’intelligenza e in soffocamento delle emozioni, quando manca la capacità di nominare le cose e le emozioni, infatti, manca anche il controllo sulla realtà e su se stessi: se non si hanno nomi per esprimere la propria sofferenza, allora la si trasforma in violenza. Anche il linguaggio oppressivo è una forma di violenza, questo genere di linguaggio, infatti, confina la conoscenza impedendo a chiunque di opporsi alla lingua del potere o anche solo di interrogarla. Viceversa la capacità di articolare correttamente le parole nei loro molteplici significati è condizione di dominio sul reale e diventa uno strumento di potere molto forte perché permette di sviluppare la propria capacità critica.

Partendo da questo spunto ho orientato dunque il mio elaborato nella direzione dell’analisi dei termini, che nel corso del tempo sono stati manipolati e hanno assunto significati poco rispondenti a quelli per i quali erano nati. Le conseguenze dell’uso scorretto che facciamo delle parole sono innumerevoli, ma quelle che hanno maggiormente attirato la mia attenzione e mi hanno spinta ad approfondire l’argomento sono quelle riguardanti la manipolazione che, tramite le parole, si può attuare sulle persone o sulle popolazioni. Partendo dalle considerazioni fatte a proposito del testo di Carofiglio, il mio interesse si è dunque focalizzato sul potere che il linguaggio e le parole hanno sull’uomo. Per comprendere appieno questo potere è stata fondamentale la lettura del testo di Philippe Breton, La parola manipolata. L’ autore presenta la manipolazione come il tentativo di imporre una posizione facendo, però, credere all’interlocutore di essere già d’accordo con essa. Analizzando le tecniche di manipolazione della parola, la negatività di ogni atto manipolatorio è risultata evidente: anche nel caso in cui si utilizzi un atto manipolatorio per raggiungere scopi positivi, infatti, si impedisce all’interlocutore di esercitare la libertà di scelta che dovrebbe essergli garantita in uno stato democratico e lo si costringe, quindi, a piegarsi alla volontà del manipolatore.

Nell’indagare la manipolazione Breton riconosce tre registri che costituiscono la parola: l’espressione, l’informazione e la persuasione. Questi tre registri, propri unicamente dell’uomo, lo distinguono dagli altri esseri esistenti in natura come gli animali e le macchine.

L’unica caratteristica delle macchine, quella per cui sono state programmate, è quella di informare. L’animale invece oltre ad avere la capacità di informare attraverso segnali scambiati all’interno della specie o percepiti dall’ambiente circostante, è anche in grado di esprimere sentimenti quali, per esempio, piacere, dolore e rabbia: l’unico essere vivente che è in grado di esprimere i propri sentimenti e il proprio punto di vista elaborando progetti, è l’uomo. La parola dell’uomo, essendo autonoma dall’ambiente che la circonda al punto di poterlo anche modificare, ha anche la peculiarità di poter dire il contrario di quello che il suo autore pensa. Perciò l’uomo è anche l’unico essere vivente in natura capace di mentire poiché sia l’animale sia la macchina, essendo unicamente in grado di scambiare informazioni, non possono mai né sbagliare né ingannare. L’uomo attribuisce, infatti, un senso di volta in volta diverso a tutti gli avvenimenti che gli si presentano, la sua parola non è affatto informativa, quanto piuttosto argomentativa.

Abbiamo identificato la manipolazione con un’argomentazione coercitiva, ma per indagarla a fondo Breton suggerisce di procedere imparando a conoscere le tecniche di persuasione che agiscono sugli affetti, e intervengono sulla forma del messaggio, e a distinguerle da quelle che influiscono sulla dimensione cognitiva, modificando la struttura interna del messaggio; mentre le prime fanno appello ai sentimenti, le seconde sono trucchi del ragionamento.

Dopo aver analizzato la parola e le tecniche di manipolazione tenta di elaborare un desiderio normativo che sia in grado di liberare la parola, e dunque la società, dalle costrizioni cui viene costantemente sottoposta. Lottare contro la manipolazione non significa dunque isolarsi dal mondo per non esserne influenzato, ma, al contrario, aprirsi al mondo con uno sguardo diverso che permetta di andare oltre le pratiche manipolatorie cui siamo continuamente sottoposti. "Se si vuole permettere a ognuno un migliore accesso alla vita pubblica, alla vita sociale tout court, l’esercizio della parola dovrà assumersi le sue responsabilità". Per conferire nuovamente responsabilità al linguaggio è indispensabile, però, che i sistemi educativi interagiscano tra loro per creare un vero e proprio insegnamento dell’utilizzo della parola. Questa speranza di normalizzazione e regolamentazione della parola non è affatto un desiderio innovativo, anzi è sempre esistita fin dall’antichità. Nell’antica Grecia, infatti, l’insegnamento della retorica era estremamente diffuso e guidava gli uomini nell’educazione morale e civica. Il modello antico è, appunto, quello che Breton vuole riproporre, adattandolo alle condizioni della nostra epoca, per rendere l’uomo nuovamente responsabile nell’utilizzo delle parole.

Questo desiderio di Breton non è, però, sorto dal nulla, nel corso degli anni, infatti, sono state elaborate diverse teorie di regolamentazione del linguaggio. Nell’ultimo capitolo del mio elaborato mi sono soffermata su una di queste teorie: la Significs, elaborata da Victoria Lady Welby intorno al 1890. Pur essendo nata con uno spiccato intento pedagogico, rivolto sia ai letterati sia alla gente comune, la Significs non è riuscita ad avere risultati duraturi. Dopo essere stata ripresa, e profondamente modificata, nel corso delle guerre del XX secolo per resistere ai tentativi manipolatori dei regimi, è stata sempre più accantonata ed è finita per essere studiata, insieme a molte altre teoria di analisi del linguaggio, solo da una ristretta cerchia di studiosi specializzati.

Come afferma Breton, "oggi, molti di noi sono ormai sensibilizzati alla manipolazione e non sono più disposti a lasciare che essa si dispieghi liberamente", ma deve essere la nostra società a proteggere i suoi membri più fragili dall’esposizione a questi tentativi manipolatori, e l’unico modo per riuscirci è quello di promuovere l’educazione del corretto utilizzo del linguaggio. In un mondo in cui le nostre parole sono state svuotate, consumate e rese prive di significato, solo smontandole e ricostruendole si potrà nuovamente conferire loro senso e consistenza.

Per manomettere il linguaggio, e poter, così, realizzare appieno le premesse di libertà individuale promesse all’uomo dalla democrazia, è indispensabile dunque favorire lo sviluppo di un’educazione specifica che insegni il corretto utilizzo delle parole e faccia rinascere, come valore fondante dell’individuo, una coscienza collettiva in grado di far sentire l’uomo responsabile degli atti a cui le sue parole conducono gli altri individui e la società. Per arrivare a questo è, però, indispensabile un grande impegno da parte della società che deve diffondere lo studio di questa "nuova retorica", come la definisce Breton, non solo all’interno di specifici percorsi di studi universitari, ma anche nel percorso educativo affrontato da tutti.

Mariangela Lentini

martedì 3 luglio 2012

Narciso e la sua superficie - Parte I

Introduzione

Il presente lavoro nasce dall’esigenza di approfondire una tematica con cui non sono, nel corso degli studi, entrato in rapporto diretto: il mito di Narciso. Il primo scopo che si riflette nel testo è quello di proporre una visione globale, inevitabilmente riassuntiva, di alcune delle versioni e modificazioni che si sono venute a creare nel corso dei secoli. Una particolare attenzione è dedicata alle versioni più antiche conosciute, quelle di Conone e Ovidio; il passaggio attraverso esse è decisivo per comprendere anzitutto di cosa si parla e per cercare una base a partire dalla quale le complesse riflessioni successive si sono sviluppate. Come complemento, si è attraversato un breve saggio di Umberto Eco, al fine di entrare in un vocabolario e in un modo di parlare che avesse nelle percezioni, nel doppio, nello specchio, alcuni tra i punti cardine. Tale parte introduttiva è stata necessaria per avere un minimo di dimestichezza e di strumenti con cui approfondire la tematica specifica della tesina: che cosa Narciso vede nell’acqua della fonte, il rapporto con la superficie, tra sensi e immagini. Questo lavoro è stato compiuto a partire dall’intersecarsi di diverse opere letterarie prima e pittoriche poi, le quali non sono state trattate da un punto di vista cronologico, storico-artistico o letterario, ma con il solo scopo di comprendere che cosa i diversi autori e pittori vedessero riflesso sulla superficie della fonte di Narciso. L’aspetto di parzialità che ne deriva è inevitabile, così come inevitabile è l’arbitrio nella scelta delle opere da analizzare, considerando che il materiale cui attingere si dipana su un lasso di tempo di duemila anni. Pertanto non la completezza storica o teorica, quanto un primo confronto con una tematica di portata enorme è ciò che nel testo può venire alla luce.

  1. Le versioni fondamentali del mito di Narciso: Conone e Ovidio

Anzitutto sono da menzionare le circostanze di tempo e luogo in cui prende forma il mito di Narciso. Esso è certamente uno dei miti che hanno segnato la storia del pensiero, dell’arte e della cultura occidentale1, eppure le fonti letterarie a riguardo sono particolarmente recenti. La più antica fonte greca di cui vi è conoscenza rimanda a Conone2, scrittore erudito di dubbie origini ateniesi, vissuto in età augustea a cavallo tra i secoli spartiti dalla nascita di Cristo. Le narrazioni di Conone sono giunte riassunte insieme ad altri scritti nelle compilazioni di Fozio di Costantinopoli3 del IX d.C. La fonte più celebre cui si rimanda per lo studio del mito sono Le Metamorfosi di Ovidio4, ultimate intorno all’8 a.C. Data l’incertezza sulla data di stesura del testo di Conone non è possibile stabilire con parola definitiva quale delle due versioni sia antecedente, in ogni caso stupisce già questo primo dato cronologico, in quanto se è vero che la storia di Narciso rimanda a tempi più arcaici, lo stesso non può dirsi delle fonti mitografiche; si tratta di un dato non comune ad altre casistiche comparabili.

Quanto al luogo di svolgimento della vicenda, un indizio decisivo lo si ha con la genealogia di Narciso5, che rimanda quanto ai genitori al dio fluviale Cefiso e alla ninfa delle acque Lirìope. Il fiume Cefiso è situato nella Beozia, e nasce dal monte Parnaso, associato al culto di Apollo e delle nove Muse; ciò ha un’assonanza, magari arbitraria e a posteriori ma non per questo meno forte, con lo sviluppo che il mito di Narciso ha in riferimento alle arti.

Conone ambienta il suo racconto nella città di Tespie, dove nasce un giovane di bellissimo aspetto, Narciso, il quale però rifiuta di continuo i numerosi corteggiamenti che gli si rivolgono. Addirittura Narciso manda in dono a uno dei suoi corteggiatori, Aminia, un spada, affinché si trafigga e dimostri davvero il suo amore con tale estrema prova. Aminia in effetti si trafigge, non prima però di aver invocato il dio Eros per la vendetta. La punizione si palesa quando Narciso si specchia in una fonte, si innamora di se stesso e capendo l’assurdità di ciò si uccide disperato. La vicenda ha grande eco a Tespie che da allora in avanti si distingue ancor di più quale città votata al culto di Eros. Inoltre diviene credenza comune che dal sangue versato di Narciso nacque il fiore omonimo. Questo in sintesi il racconto di Conone, il quale peraltro dà ben pochi elementi di identificazione geografica ad esempio della fonte in cui specchia Narciso, e rende ancor meno semplice capire in quale epoca si svolge la vicenda, dato che il culto di Eros a Tespie è solo intensificato dalla vicenda raccontata e dunque affonda le radici in un tempo antico indeterminato, così come di poco aiuto è il riferimento all’amore greco pederotico, èros paidikòs, di cui vi è traccia sicura fin dal VII a.C.6

Non è però quella di Conone la versione del mito che più ha “fatto scuola”. Questa capacità va riferita a Ovidio, il quale inserisce nelle sue Metamorfosi un racconto di 172 versi, dove è molto complesso capire il grado di rielaborazione e reinvenzione messo in campo dal poeta rispetto alle fonti di cui disponeva e di cui si sa ben poco. Alcuni commentatori di Virgilio, come Servio Onorato che scrive nel IV d.C., alludono a possibili riferimenti del poeta di Mantova ai fiori di narciso come da leggere in chiave mitica, in una versione di cui peraltro si riesce a immaginare ben poco7. Ma anche se così fosse, cosa affatto scontata, il mito di Narciso è poco conosciuto nella Roma di Augusto. Si può immaginare che Augusto nella sua opera di rinnovamento culturale abbia creato un clima per cui erano presenti a Roma numerosi filologi e bibliotecari che hanno preso in mano il racconto di Conone o di altre fonti greche e magari ne hanno accennato a Ovidio il quale poi ha aggiunto una notevole dose di rielaborazione personale. Ma siamo nel campo delle congetture8.

Si cerca ora di proporre un breve riassunto della vicenda che si ritrova nelle Metamorfosi. Ovidio apre con un riferimento al celebre indovino Tiresia che, interrogato dalla ninfa Lirìope che le chiede un responso sulla durata della vita del bambino che ha partorito a seguito della violenza di Cefiso, sentenzia: vivrà a lungo «se non conoscerà se stesso»9. La presenza di Tiresia è già una prima novità rispetto alla versione di Conone, e verrà declinata in diversi modi nelle rielaborazioni che il mito subirà. Ovidio salta a descrivere un Narciso quindicenne che forte della sua bellezza e superbia rifiuta ogni corteggiamento provenga esso da fanciulli o fanciulle10. Narciso si distingue perché non si fa toccare da nessuno, elemento che si dovrà tenere in considerazione nella analisi che seguirà. Tra le fanciulle innamorate di Narciso un ruolo di primo piano è svolto dalla ninfa Eco, il cui uso della voce viene troncato da Giunone che la punisce in quanto con le sue chiacchiere ha tentato di distrarre la regina degli dei dalle scappatelle di Giove. Così Eco segue di soppiatto Narciso, che è turbato da una presenza che non riesce bene a localizzare e che parla ripetendo le ultime parole pronunciate da Narciso stesso. Eco tenta di abbracciare l’amato, il quale sdegnato le grida che preferirebbe morire piuttosto che darsi a lei (ancora, Narciso rifiuta ogni contatto, ogni intrusione altrui). Eco così distrutta deperirà fino ad esistere solo come voce priva di corpo. Narciso però continuando a rifiutare gli amanti si attira la maledizione, come in Conone, di uno di essi, punizione portata avanti questa volta da Nemesi. La punizione si materializza quando il giovane guarda la propria immagine in uno specchio d’acqua durante il riposo da una battuta di caccia, immagine di cui si innamora inconsapevole del fatto che si tratta del proprio riflesso. Così egli cerca di abbracciare la misteriosa creatura, di baciarla, di abbrancarla, e sembra che anche l’immagine lo voglia tanto è vero che risponde alle mosse compiute da Narciso! Ma ecco che Narciso capisce, e comprende che colui che vede altri non è che se stesso. Sembra avere quel che desidera e proprio per questo ne è irrimediabilmente distante. Narciso sofferente comincia così a battersi il petto nudo che percosso si arrossa. Non può più mangiare né curarsi di sé, e si avvia alla morte per consunzione, morte cui assiste anche Eco. Naiadi (ninfe d’acque dolci, sorelle perciò di Narciso) e Driadi (ninfe delle querce) preparano una sorta di rito funebre. Il corpo di Narciso scompare e compare un fiore bianco. Notevole l’aggiunta di Ovidio: Narciso dannato agli inferi continua a contemplare se stesso nelle acque dello Stige. Non c’è redenzione per il peccatore, verrebbe da dire.

Si è avuta la necessità di riassumere sinteticamente le due versioni più antiche del mito in modo da avere un quadro di riferimento all’interno del quale poter muovere l’analisi specifica sul tema preso qui in esame, ovvero alcune varianti che le diverse versioni del mito mostrano circa la visione che Narciso ha nella fonte. Prima di giungere al punto è però necessario inquadrare anche alcune possibili visioni simboliche generali che il racconto propone.

1 Tale riferimento al mondo occidentale si p soliti ritenerlo nel suo senso più largo e indeterminato, trattando di miti che attraversano millenni e luoghi geografici disparati.

2 M. Bettini, E. Pellizer, Il mito di Narciso. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, p.46, Einaudi, Torino, 2003

3 Conone, Narrazioni XXIV [= Fozio, Biblioteca, 186.134b. 28-135°.4], riferimento da M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p.181.

4 Ovidio, Metamorfosi III 339-510, riferimento da M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p.182.

5 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp.46-48.

6 Ivi, pp.47-49.

7 Ivi, pp-79-82.

8 Ivi, pp. 82-85.

9 La vicenda si svolge in Aonia, regione montuosa della Beozia, e non precisamente a Tespie come era per Conone.

10 Come in Conone non v’è problema nell’ammettere tanto amanti maschi che femmine, la pratica era da considerare comune nel mondo antico greco-romano.


Andrea Togni