venerdì 14 settembre 2012

DA ANTIGUA A LARROCHE


La prima bestemmia di Tobaco Steerz fu per il suo magro rancio –una brodaglia melmosa che puzzava più dei nostri piedi-, portatogli via da un topo.

Tobaco Steerz, in realtà, non si chiamava davvero così, ma qualcosa tipo Hermann o un altro nome crucco; Tobaco era il nome che aveva preso quaggiù nei Caraibi, quando, naufragato sulla costa meridionale di un’isola delle Antille, trovò un intero campo di piante di tabacco. Si mise in accordi con il proprietario, un indigeno con la pelle color arrosto bruciato, e rilevò il terreno, iniziando a rifornire i Caraibi del suo tabacco di altissima qualità, diventando presto il più importante trafficante di fumo della regione.

All’altro tizio andò altrettanto bene, dopo essersi preso quattro o cinque pistolettate da Steerz, fu recuperato da una nave sulla quale era imbarcato un dottore, che lo imbalsamò e lo fece diventare una star negli spettacoli di vaudeville macabre a Nancy e dintorni, nella vecchia Europa.

Per diversi anni, Tobaco Steerz, fu una sorta di autorità indiscussa, rispettato sia da filibustieri che dalla Marina, tanto da farsi costruire una capanna di canne a tre piani nella sua isola (che divenne letteralmente sua, dopo aver dato il giusto compenso a tutti i locali che lo richiesero, se mi capite), alla quale in molti correvano a chiedere favori.

Poi arrivarono gli inglesi, e portarono nel mercato la loro roba, erba fina coltivata in Giamaica, e il regno di Tobaco Steerz andò disgregandosi, e lui perdendo di peso nella società caraibica.

Ma, se era finito in quella topaia umida, giù nella prigione di Antigua, lo doveva, a suo dire, alla sua più grande invenzione: combinando foglie di diverse piante, con una macinazione sopraffina e una carta che si era fatto portare appositamente dall’Egitto da un suo cugino mercante, aveva creato il più grande e potente sollazzagente della storia, quello che lui chiamava el Grande Cigarro.

Ovviamente, diceva sputazzando qua e là, gli inglesi non potevano permettersi che lui mettesse el Grande Cigarro sul mercato, o avrebbero perso il loro potere, così diedero ordine alla Marina di arrestarlo.

E, raccontando per la quarta volta dall’inizio della mattinata quella storia, bestemmiò per la seconda volta.

La storia di come io capitai nel suddetto cesso con le sbarre d’acciaio, invece, si ricollega ad un’assurda caccia al tesoro che intrapresi più per mancanza di fondi che per reale interesse, assieme ad un tale, Teddy Crocker-Tilly, che si credeva un pirata ed invece era solo un cazzone.

Il suo piano, che se noi dell’equipaggio avessimo conosciuto col cazzo che ci saremmo imbarcati, era di andare a depredare le isole Cayman, terra franca dove i grandi pirati del passato, un volta arricchitisi a sufficienza, venivano a svernare e a godersi il frutto dei loro dobloni dorati (non senza, sia chiaro, l’immancabile presenza di ex-governtori coloniali o capitani di Marina, divenuti tutti amici fraterni nelle isole della libertà). Quelle isole, purtroppo per lui (e per noi), erano più protette della passera della regina di Francia in tempo di guerra, e l’impresa si rivelò per noi un massacro: quasi tutto l’equipaggio morì una volta scesi a terra; di quelli che si salvarono, il capitano auto-nominato Teddy Crocker-Tilly, in arte Barbafucsia (poiché, al momento di scegliere il nome, quello era l’ultimo colore da barba senza copyright), fu riportato a Bristol e impiccato per le palle, all’usanza di Haiti. Altri due o tre, se non erro, sopravvissero alla battaglia, e divennero probabilmente schiavi di qualche nobiluomo delle Cayman.

Io, con il coraggio che da sempre mi contraddistingueva, scatarrai un paio di parole in spagnolo, e mi dichiarai prigioniero politico. Non avendo documenti con me, ma non volendo rischiare un incidente diplomatico, i compatrioti inglesi mi scaricarono nella discarica umana della prigione di Antigua, il cui pavimento era tappezzato dalle carni imputridite dei miei predecessori.

Quel fetido cane bavoso di un olandese che divideva con me quella fogna bestemmiò ancora, ma stavolta si trattava solo di un suo modo per iniziare un nuovo discorso.

Inizialmente non prestai molta attenzione, finché quel topaccio rinsecchito, da sotto quella barba di lana di vetro, blaterò di un modo per fuggire. Disse che, prima che lo prendessero, aveva dovuto fare una consegna speciale della sua merce su un isolotto non meglio identificato nelle Grenadine, in quel territorio che era ormai diventato terra di nessuno, da quando i francesi si erano accorti di avere ben altri problemi nel loro recinto per poter anche badare a quelle palme lontane. Stava lì, infatti, la base della banda di Guichardaz Larroche, mangiarane puzzolente nato da qualche parte nel golfo del Messico, che aveva assunto una certa fama nei Caraibi per essere riuscito a comporre un più che dignitoso equipaggio solo con i bastardi che gli erano nati dalle varie puttane dei Sette Mari.

Steerz mi rivelò che, in cambio di una percentuale sui suoi prossimi affari, Larroche sarebbe dovuto intervenire a liberare l’olandese defecante in caso di arresto, e che, quindi, i rinforzi erano in arrivo.

Non passò molto prima che i cannoni della Bernarda Lussuriosa, la nave di Guichardaz Larroche, iniziarono ad echeggiare nella notte di Antigua, quasi come le note del celebre pirata-musicista Tramontana Steves.

Buttandoci a terra, riuscimmo ad evitare la palla di cannone che abbatté il muro esterno della nostra prigione, aprendoci la strada per la libertà.

Steerz, urlando come un novizio alla sua prima scopata, si lanciò di sotto, verso il mare. Io preferii calarmi con maggiore cautela, reggendomi ai mattoni sporgenti della facciata esterna del carcere. Tutt’attorno a me, cannonate e rumore di bitume che si sgretolava, qua e là qualche urla di un figlio di un cane che veniva spazzato via da una bombarda.

Arrivato al termine della mia discesa, salutai per l’ultima volta Tobaco Steerz, la cui carcassa si era volgarmente sfracellata contro gli scogli acuminati, e mi buttai in mare, nuotando verso la libertà.

Nella foga della fuga, se mi passate il gioco di parole tipicamente marinaresco, mi avvidi troppo tardi di aver commesso un piccolo errore: mi ero scordato di non saper nuotare.

Annaspando come una vongola nell’olio sfrigolante, nel giro di pochi istanti mi ritrovai a sprofondare inesorabilmente sul merdoso fondo del mare, quando una sirena all’improvviso mi afferrò per il colletto della sudicia camicia, e mi trascinò su. Il mio innato senso della ragione, però, mi portò subito a capire che la mia benefattrice non poteva essere una creatura fantastica, anche perché per tutta la risalita non schiodai gli occhi da quel magnifico paio di chiappe sode, che di simili ne avevo viste solo alcune, quando lavoravo per i portoghesi e traghettavo giovani indossatrici dalle coste del Brasile al porto di Marsiglia.

Vomitando acqua salmastra, mi trascinai sul ponte di coperta della Bernarda Lussuriosa, mentre una delle poche figlie femmine di Guichardaz Larroche, alle mie spalle, mi mollò prima due sganassoni e poi una slinguata per averle fissato così insistentemente il culo.

Sei tu Tobaco Steerz, mi chiese Cariba Larroche, soffiando fuori quelle parole da due labbra talmente carnose che, se avessi voluto, avrei potuto usarle in tutta sicurezza come imbarcazione per tornarmene a Portorico. Fissai i suoi occhi da gatta in calore per quasi tre minuti, prima di accorgermi che mi avrebbe tagliato le palle se non le avessi risposto presto. E ovviamente dissi di sì, che certa gente, se contraddetta, è anche capace di incazzarsi.

La nave dalle vele rosse virò, sparando altri tre colpi verso la prigione, che ormai poteva contenere a malapena la puzza del suo direttore, e fece dietro front, vittoriosa.

Fui portato, allora, verso prua, e sbattuto ai piedi del glorioso capitano Guichardaz Larroche.

Piedi…si trattava piuttosto di due bastoni di legno piantati nelle cosce! E non era finita qui: alzandomi in piedi, notai che entrambe le mani del capitano erano, in realtà, due uncini d’acciaio a cinque punte; l’occhio destro era coperto da una benda verde muschio, mentre il sinistro era adornato con un monocolo dai bordi fluorescenti, e gli mancava l’orecchio sinistro.

In pratica, l’unica cosa che gli funzionava, in quell’ammasso di protesi, era il suo ben noto batacchio, che varie voci descrivevano ancora attivo nei bordelli più apprezzati da noi capitani di ventura.

Conciato com’era, non fu in grado di mettere in dubbio la mia identità, anzi mi trattò come un socio d’affari e si mise a parlare con me del glorioso futuro della nostra società. Parole alle quali io risposi con dei vaghi cenni d’assenso, pensando a un modo per cavarmi fuori da quella situazione.

Guichardaz Larroche, muovendosi macchinosamente sulle sue due grucce, si voltò e mi indicò la porta dall’altra parte del ponte, dicendomi che potevo pure andare a riposarmi e mangiare qualcosa.

La sua nave era la più terrificante imbarca-calamari che si potesse vedere in quegli anni per i Caraibi, piena zeppa dei ricordi di ognuna delle mille fottutissime avventure del suo capitano, dalla punta di uno scoglio delle Bermuda, agli ombrellini da cocktail dell’Avana; il suo equipaggio il peggio assortito guazzabuglio di filibustieri che avesse mai solcato i mari, i già citati figli illegittimi del capitano Larroche, nati in ogni fottutissima insenatura tra le cosce dei Sette Mari in cui il suo piratesco uccello fosse abilmente approdato.

Non ebbi il tempo di abituarmi alla puzza multiculturale che si respirava sulla Bernarda Lussuriosa, che le mani di Cariba Larroche, alla maniera dei polipi giganti che abitavano il Pacifico, mi agguantarono selvaggiamente, e mi trascinarono giù in cambusa.

La giovane figlia del capitano, tenendo fede alla fama paterna, quasi senza parlare iniziò a spogliarmi, forse sovraeccitata dall’eroismo del salvataggio, pronta ad abusare più e più volte di me. Ed io, ovviamente, le diedi l’impressione di avere la situazione (e non solo quella) in mano, e la lasciai fare.

Quando avevamo ormai fatto quasi completa conoscenza, la porta della cambusa si spalancò, facendo emergere la figura del tremebondo Merceo Larroche, fratello maggiore di Cariba, nonché cuoco di bordo, nonché segretamente innamorato proprio della sorella (la quale, va detto, non tanto segretamente si era concessa a Merceo, durante le lunghe traversate del mare).

Colpa della sfiga, la prole di Guichardaz Larroche poteva vantare appena cinque donne, contro una miriade di maschi. E, a causa dell’autarchica scelta del capitano di comprendere nell’equipaggio solo i suoi bastardi, quelle cinque femmine erano una risorsa preziosa e piuttosto contesa sulla nave.

L’idea che la mia sirena dai capelli corvini e le forme predatrici avesse già giaciuto in così tanti letti, per giunta dei suoi stessi fratelli, non mi dava il benché minimo fastidio, tanto che mi diedi da fare per riprendere da dove avevamo terminato. Ma Merceo Larroche, vomitando vocaboli tra il francese e lo spagnolo dei Caraibi (che, parola di un mio vecchio compagno di ventura, è alquanto simile alla lingua che si può udire nei pressi del porto di Bari, nella Vecchia Europa), sfogò tutta la sua alacre gelosia e, scagliandoci contro un affettaporco, ci costrinse a separarci e rimandare ad altro momento i nostri convenevoli.

Rotolando all’indietro e ricadendo dietro al bancone, potei solo udire le urla nella stessa ignobile lingua di Cariba, che finì per prendere la sua pistola a sparare al fratello in pieno petto.

Merceo Larroche fu sbalzato indietro, sfondando il muro di legno e fermandosi contro i barili di polvere da sparo nella stiva, facendoli cadere l’uno contro l’altro, ed innescando una reazione a catena in tutta la stiva, fino a far cadere gran parte del contenuto dell’ultimo barile in uno dei cannoni.

Ma il cuoco di bordo era colpito ma non sconfitto, si rimise in piedi con una scorreggia, mentre tutt’attorno il resto dell’equipaggio s’affollava a scommettere sul vincitore dello scontro, e prese un’altra mannaia dal suo cinturone.

Dal buco che aveva fatto nella parete, si affacciò l’incazzatissima Cariba, pronta a sparare il secondo colpo.

Merceo non ci penso su troppo e lanciò la sua arma attraverso tutta la stanza, centrando esattamente in mezzo agli occhi Cariba, la quale, zampillando sangue come una fontana dalla fronte, in un cazzutissimo spasmo muscolare, premette il grilletto, centrando in pieno la miccia del cannone, più corta della gonna di una puttana delle Barbados.

Il cannone sparo una bombarda che si sentì fino in Melanesia, scattando all’indietro e colpendo Merceo Larroche. Sentii distintamente il rumore delle sue ginocchia sbriciolarsi come una galletta spagnola, mentre quella massa ormai informe fu sbalzata dall’altro lato della stiva, sfondandone l’altra parte e finendo fuoribordo, in acqua.

L’odiosa quanto violenta perdita di due dei figli più amati del capitano, fece pericolosamente precipitare i miei rapporti col temibile Guichardaz Larroche, il quale urlò con tutta la voce che aveva in corpo di trascinarmi sulla passerella.

Un essere umano sano di mente pensa a solo due cose, in un momento simile: al vestito che sta indossando, e speriamo che per gli squali sia giorno di riposo oggi.

Sfortunatamente per me, sotto il bordo di quell’asse di legno cigolante si era già formato un circolo di pescecani famelici, e la mia camicia era sudicia e vecchia di sei mesi.

Nel frattempo, la palla di cannone che era partita nella colluttazione di prima, aveva attraversato il cielo dei Caraibi, in direzione di Caracas, dove si era concessa al rocambolesco abbraccio di uno dei galeoni della Marina spagnola, che era colato a picco come un savoiardo nel latte.

Alla scena assistette il pappagallo Gomez, uno dei volatili della scuderia di Chavez Pizquàn, un balordo di Panama che aveva creato una sorta di agenzia di informazioni dei Caraibi tramite dei pappagalli spia sparsi in tutta la regione. Il pappagallo Gomez, in realtà a libro paga di Larroche, svolazzò più forte che poté verso la nostra nave, arrivando giusto in tempo per salvarmi il culo.

Distraendo il capitano con l’avviso dell’approssimarsi della flotta della Marina spagnola, mi diede il tempo di spostarmi dalla passerella e mescolarmi tra la folla.

Quando Guichardaz Larroche si voltò, non vedendomi, afferrò il primo che si trovò a tiro e, scambiandolo per il sottoscritto, lo piombò e lo diede in pasto agli squali. A nulla valsero le proteste degli altri membri dell’equipaggio, come il povero Bartolomew Larroche che, cercando di attirare l’attenzione del padre su di me, si sentì dare del cane putrefatto e vendifratelliatradimento, prendendosi una palla in fronte dall’inviperito genitore.

Disceso nuovamente nella stiva, prima che i bastardi senza sbornia venissero a farmi quel che non era riuscito a fare il capitano Larroche, recuperai una ciambella di salvataggio, trofeo di una scorribanda lungo le coste di Los Angeles, nella quale Larroche aveva depredato i bungalow dei ricchi villeggianti, mi lanciai in mare, usando un pezzo di legno come remo.

Alle mie spalle, poco dopo, potei udire i rumori della battaglia: la Marina spagnola doveva aver raggiunto la Bernarda Lussuriosa, ed aveva iniziato a mettere alla prova il suo nome con i suoi cannoni superdotati.

Non saprei dire a chi avesse arriso la sorte, ma, considerando l’ingegno affinato dalla difterite del capitano Larroche, la sproporzione delle forze in campo, e il fatto che l’acqua nella quale sguazzavo si colorò presto di un rosso scarlatto, sono portato a pensare che la giustizia dei Caraibi avesse reclamato un altro bucaniere.

Del Grande Cigarro non si seppe più nulla, anche se leggende narrano di una spedizione dal Canada per recuperarlo e barattarlo in cambio di una stufa coi vicini inglesi.

Per quanto riguarda me, dopo quella volta mi ripromisi che mi sarei dato alla legalità e avrei abbandonato ogni tipo di peregrinazione marinara.

Un mese dopo, a onor del vero, mi imbarcai come rattoppavele su di una nave di piratesse lesbiche in cerca di misteriosi giocattoli sessuali Inca di oro massiccio, riuscendo a farmi accettare, unico uomo a bordo, raccontando loro di essere stato ordinato sacerdote e di poter, eventualmente, officiare matrimoni tra le componenti dell’equipaggio.

Ma questa è un’altra storia.

Valerio Moggia

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