domenica 9 settembre 2012

Narciso e la sua superficie- Parte IV

   4. Cosa vede Narciso su quella superficie?

Un breve ritorno sulle versioni di Conone e Ovidio prima di procedere con le loro modificazioni e stravolgimenti. Del breve racconto di Conone cui si è accennato, è da sottolineare che mentre Narciso si guarda nella fonte, il giovane diviene «assurdamente amante di se stesso». Conone non cerca spiegazioni che sviino dal fatto che l’immagine nella fonte è quella del giovane stesso, né dice nulla sul fatto che egli ne sia o meno consapevole, (e si presume perciò che Narciso ne sia consapevole). Tuttavia è assurdo che Narciso ami la propria immagine, è questo un atto che trasgredisce le leggi dell’amore le quali impongono di direzionare il proprio amore su un altro essere umano. L’amore di sé suscita dunque la giusta punizione di Eros.

Ovidio invece muove Narciso tra due momenti, nel primo non si riconosce nel giovane che compare nella fonte, nel secondo capisce il terribile inganno cui è stato costretto, nondimeno la sua anima continua per l’eternità a rimirarsi nelle acque dello Stige. Narciso rimane intoccato e intoccabile nel suo atteggiamento, Eco non lo poteva nemmeno abbracciare quando era in vita, e ora sembra che nemmeno la dolorosa e triste morte possano far nulla nel distoglierlo dal suo intento.

Questo atteggiamento eufemisticamente testardo ha colpito notevolmente fin dall’inizio i cultori che si sono dedicati a rielaborare il racconto.

Il retore del III d.C. Filostrato il Vecchio ha lasciato un testo dal titolo Immagini, che vuol cimentarsi nella descrizione a parole di quadri che forse erano realmente presenti sulle pareti di una villa nei pressi di Napoli, e tra questi anche uno raffigurante Narciso1. Mentre procede nella descrizione, Filostrato si pone una domanda retorica circa quello strano giovane che rimira affascinato il suo riflesso: «Ebbene, pensi forse che la fonte si metterà a discorrere con te?». Incredulo e quasi divertito sembra Filostrato nel porre una domanda che evidenzia come Narciso quasi neanche si renda conto di ciò che sta facendo. Deviazione significativa dal testo ovidiano che invece mostra che il giovane alla fine ha compreso il suo abbaglio iniziale. Il guardare di Narciso non è compreso, è ritenuto folle. Filostrato prova a mettere in parole il quadro della villa, eppure il guardare di Narciso sfugge ai concetti, al linguaggio, è qualcosa di folle, strano, di non compreso e non comprensibile.

La necessità di trovare una spiegazione all’atteggiamento del giovane cacciatore ha tenuto occupati diversi intellettuali. Pausania è un viaggiatore del II d. C. che ha lasciato uno scritto periegetico, con lo scopo cioè di raccogliere informazioni circa popoli e luoghi, in particolare quelli greci. Tra i luoghi anche quelli intorno la città di Tespie, in particolare un canneto chiamato «fonte di Narciso»2 dove un «idiota» si guarda nello specchio d’acqua e si innamora dell’immagine, incapace di distinguere tra uomo e immagine di uomo. Narciso è talmente «idiota» che la storia così com’è non può essere veritiera, quindi Pausania riferisce una versione più attendibile. Narciso ha ora una sorella gemella a lui del tutto identica, spesso cacciano insieme, se ne innamora. Quando Narciso si disseta alla fonte, vede in essa la propria immagine, lo sa, ma gli è di consolazione vedere in essa quella della sorella amata. Ecco così che il comportamento di Narciso è comprensibile, ha un senso! La modificazione dell’immagine nella fonte o l’accentuazione di ciò che Narciso crede di vedere rispetto a ciò che vede hanno lo scopo di dare una spiegazione e una costruzione teorica sostenibile della situazione. Si tratta di uno schema che non ha nel solo Pausania il fautore.

Nel 1550 Jean Ruz pubblica un poemetto in versi, Description poetique de l’histoire du beau Narcissus3. Ruz pensa a Narciso come talmente bello e pieno di fascino, che nessuno, nemmeno Giove (che per lui avrà in odio persino Giunone) e Venere sanno resistergli. Venere, colpita dalle frecce del figlio Cupido, cerca in ogni modo di fare colpo, si traveste persino da cacciatrice, ma il bel giovane ha altre idee e la disdegna , addirittura fa finta di non vederla. Ma Venere non è dea da arrendersi facilmente, perciò riesce a nascondersi nella fonte dove Narciso era solito rimirarsi; mentre egli si chiede cosa ci sia di non proprio uguale sulla superficie riflettente, Cupido lo colpisce con la freccia. Ma Narciso non si innamora di Venere celata, ma della propria ombra. L’unico risultato che ottiene la dea è perciò quello di far soffrire d’amore Narciso, un poco consolante “mal comune, mezzo gaudio”. Così Narciso, prima dell’incantesimo di Cupido, guarda la propria immagine, affascinato ma non proprio innamorato, in quanto amore lo avrà solo per la propria ombra. Grazie o a causa di Cupido Narciso entra a far parte del mondo dell’amore non ricambiato, quando in precedenza se ne stava nel suo guardarsi a sé stante, rifiutante relazioni e contatti invasivi da parte di altri.

Altra evoluzione del tema si ha con Calderòn de la Barca, uno dei grandi drammaturghi dell’età barocca. Tra le sue commedie, Eco y Narciso, del 16614. Lirìope, che questa volta si unisce con Zefiro, va dal mago Tiresia per avere una profezia sul nascituro: egli sarà bellissimo ma morirà per aver udito o veduto una bellezza, per odio o per amore. Il consiglio del mago è quello di impedire a Narciso di vedere e udire. Lirìope, che riesce a proteggere il figlio per una dozzina d’anni, è una maga dall’aspetto mostruoso che vive isolata; viene però catturata da una comunità che festeggia il compleanno di Eco, e così racconta loro la sua storia. Ma quando tornano nelle caverne in cui vivono, Narciso è scomparso. Ed è ovviamente Eco a ritrovarlo, lui se ne innamora grazie alla di lei voce ma scappa ricordando i moniti della madre. Lirìope toglie la voce a Eco tramite un filtro. Narciso nel frattempo trova una pozza d’acqua e si innamora della sua immagine ancor più di quanto avesse appena fatto con Eco, tuttavia crede che si tratti di una ninfa d’acqua, non di sé. La mossa di Eco è quella di porsi alle sue spalle, e così Narciso cade nella confusione visiva e uditiva più totale: vede una ninfa d’acqua, e Eco ha due corpi! Ma è Lirìope a fargli comprendere l’errore, a sua volta piazzandosi alle spalle del giovane, che capisce così che la bellezza che tanto ama non è che la propria. Si tratta di un intrigo molto complesso, sfaccettato, dove Narciso si trova in balìa degli eventi non appena entra in contatto con quel mondo da cui la madre su consiglio di Tiresia l’aveva tenuto lontano. Nella fonte il giovane vede qualcun altro, una ninfa, Eco, Lirìope e solo alla fine se stesso. È l’amore a prevalere in lui, il relazionarsi all’altro, sia pure quest’altro una persona in carne ed ossa o il suo riflesso. La morte che coglie Narciso in seguito a un terremoto pone fine alla confusione di cui è preda. Calderon mette in mostra una trama che si staglia su diversi livelli, e questo è indice dell’inventiva poetica che si sviluppa a partire da una tematica di base arcinota. Narciso nella fonte riconosce il proprio riflesso solo nell’ultimo e drammatico atto, e ciò lo porta alla morte, una morte da cui sorgerà il classico fiore, ma non un continuare a guardarsi nell’aldilà come in Ovidio. Il gioco tra sensazioni, conoscenze, sentimenti, raggiunge un grado molto complesso.

La volontà di trasformare il guardarsi di Narciso in una storia d’amore non è esclusiva di Caleròn. Basti citare il compositore tedesco Gluck5, che conclude il suo dramma lirico su Narciso con un trionfo d’amore, per cui Eco resuscita dagli Inferi, Narciso evita per un soffio di suicidarsi col pugnale, e si giunge così a un gioioso lieto fine. Ma casi come questo rappresentano uno slittamento dalla tematica fondamentale che vede il giovane specchiarsi nella fonte, per accentuare il lato dell’innamoramento. Si tratta di un indirizzo preciso che viene affibiato al racconto in modo da farne una storia d’amore. Ma lo specifico di Narciso sta forse, come Landucci e Mugellesi mostrano6, nel fatto che Narciso rifiuta proprio questo fondersi con l’altro. La storia di Narciso non può essere ricondotta tout court a una storia d’amore, in quanto quello che in essa viene rappresentato è lo «scandalo logico»7 di un innamoramento della propria persona; se di amore si tratta è un amore non convenzionale, che trascende gli schemi classici, e che ha un suo momento fondamentale nell’ammirarsi di un fanciullo in una superficie riflettente.

Wilde propone una variazione sul tema dell’amore che va tenuta in considerazione8. Nelle Short stories, la fonte, dopo la morte di Narciso, si chiede se il giovane che in lei si specchiava fosse poi tanto bello. Domanda particolare, dato che proprio lei avrebbe dovuto sapere dell’aspetto di chi passava tante ore in sua compagnia. Ma l’amore della fonte per Narciso supera in audacia quello di Narciso stesso: infatti la ninfa d’acqua amava crogiolarsi nel di lui sguardo solo in quanto vedeva riflessa nei suoi occhi la propria bellezza. Un atteggiamento più realista di quello del re. L’accento cade sul vedere la propria bellezza da parte della fonte, momento che non può ridursi al solo innamoramento. Vedere se stessi in un oggetto altro, in questo caso Narciso, vedere quell’oggetto come proprio, distinto da sé, ma a sé riferito, in un rapporto che non può essere studiato mediante i mezzi del conoscere quale che sia la sua declinazione: qui si tratta di vedere, non di porsi di fronte ad un oggetto con il quale si instaura un rapporto di legalità conoscitiva o simbolica.

Ma essendo un racconto mitico, quello di Narciso ha visto nascere le più diverse interpretazioni. In ambito psicanalitico McDougall non crede che Narciso guardi semplicemente il suo riflesso9. Più che se stesso, egli sarebbe alla ricerca di un qualcosa di perduto, di anelato, di non più in suo possesso. Questo oggetto è lo sguardo della madre, uno sguardo in grado di renderlo soggetto all’interno del mondo, una sguardo che parla. Si delinea una spiegazione nei termini di complesso edipico, di desiderio del genitore del sesso opposto. Ciò che sembra mancare in spiegazioni di questo tipo è la capacità di fermarsi alla superficie, per cercare invece un qualcosa di profondo, misterioso. Ma lo specchio d’acqua è piatto, la superficie di un quadro è piatta, è in due dimensioni, e il ricercare una dimensione ulteriore può essere segno della volontà dell’interprete di leggere in un certo modo una situazione.

Lo scandalo provocato dall’amore di sé di Narciso è stato fin da subito ritenuto paradigmatico e pertanto trasformato in proverbio. Clemente Alessandrino nel II d.C. riferisce che è comune il detto «In molti ti odieranno se amerai te stesso»10. La ricerca di una spiegazione per lo scandalo ha impegnato non poco gli autori cristiani. Un particolare intervento sull’originale ovidiano è portato da Boccaccio nelle Genealogiae deorum gentilium11. Qui Narciso non rifiuta più le attenzioni di ragazzi e ragazze, ma solo quelle di esponenti del sesso maschile, il momento della maledizione si trasforma in una preghiera alle ninfe, e addirittura nello specchio della fonte non vede più la propria immagine ma una ninfa della fonte. Narciso non può nemmeno più passare attraverso il travaglio del rinsavimento e del riconoscimento, è invece turbato, confuso, dimentico di sé. Si tratta di una completa rivisitazione del testo ovidiano tale da adattarlo a dettami che siano adeguati alla morale cristiana. I normali corteggiamenti omosessuali presso i greci divengono ora motivo di ribrezzo da parte di Narciso, il quale non può nemmeno scorgere il proprio riflesso, in quanto amore è amore solo se lo è per una bella ninfa. Così il momento del turbamento, del riconoscere la propria immagine, del continuare a guardare vengono persi. Peraltro Boccaccio propone anche una ricostruzione allegorica della vicenda12 per cui Eco si identifica con la Fama e Narciso con tutti gli uomini che rifiutano gli onori morali del mondo sociale per cadere vittime delle voluttà dei sensi, cosa che pàgano trasformandosi giustamente in un fiore (che della vanitas e della caducità è l’oggetto rappresentato per eccellenza). Si tratta quindi di una condanna del mondo sensibile in un atteggiamento platonico-cristiano, si pone la lettura morale e pedagogica come indispensabile per un racconto che voglia avere una positiva influenza sociale. Le interpretazioni del mito nel senso di allegorie o riferentesi in ogni caso a questioni morali, sociali, educative, sono in verità la maggioranza e derivano da un atteggiamento che ha nella svalutazione del sensibile la radice profonda, svalutazione che ha per fine la ricerca di una verità che sta in un mondo altro, simbolico, o anche estetico ma solo nel caso della costruzione di rapporti legali d’amore. Che tutto ciò dia il giusto resoconto di cosa sia il guardare di Narciso, è affermazione che non può essere accettata tout court.

Per ultimo si è lasciata la lettura che Plotino fornisce circa il mito. La sua attenzione si focalizza sul rapporto sensi-anima, e per questo sfrutta la tematica dello specchio. Anzitutto un passaggio legato indirettamente a Narciso è quello dello specchio di Dioniso13: si tratta di un giocattolo che ha distratto l’attenzione del dio-bambino permettendo ai Titani di prenderlo prigioniero per poi farlo a pezzi. L’allusione di Plotino è all’anima di che si lascia ingannare dai sensi, da oggetti superficiali, perdendo così la propria essenza divina. Specchio è lo strumento che lega l’anima al mondo sensibile impedendogli di cogliere la vera e trascendente bellezza nel mondo altro cui appartiene. Nelle Enneadi14 si invita ad andare in direzione della bellezza interna del santuario, abbandonando la vista esteriore e superficiale degli occhi. Gli occhi vanno limitati nel loro fermarsi alle bellezze materiali che sono «immagini, orme e ombre», legate ad un elemento oscuro che non permette di vedere la luce superiore. Chi, sostiene Plotino, si perderà nella contemplazione di bellezze materiali come fossero la vera realtà, farà la fine di quel povero ragazzo che si inabissò nelle acque e scomparve. La pena che la supremazia dell’occhio sull’anima porta insita è quella di costringere a sprofondare con sé anche l’anima la quale proviene invece dal mondo della vera verità, di cui quello sensibile non può essere più che ombra ingannevole. In ambito neoplatonico il sensibile ha la funzione fondamentale di iniziare la scala che porta alla contemplazione della bellezza sovrasensibile, dell’idea di bellezza. Vi è uno stacco tra bellezza sensibile e bellezza ideale ma la prima ha una sorta di valore iniziatico, non si tratta di un completo misconoscimento. Eppure il principio che la tradizione neoplatonica e cristiana in questo modo afferma è quello della tensione, dell’anelito di ciò che riguarda i sensi a una dimensione altra in cui si rivela la verità. I sensi possono alludere simbolicamente a un mondo trascendente in cui possono essere riscattati. L’uomo cristiano-platonico è un uomo sensuale, sensibile, il quale anela ad una purificazione di sé, ad un rinnegamento della dimensione sensibile slegata dal riferimento a un mondo altro. Che poi il mondo altro sia caratterizzato dalla trascendenza divina, da un ideale morale, da una necessità di porre la conoscenza in primo piano, si tratta pur sempre di trattare i sensi come da direzionare eteronomamente verso una verità di cui magari sono partecipi ma che non deriva dai sensi il principio fondamentale. Narciso è in qualche modo peccatore, perché non si fa direzionare eteronomamente, perché capisce che sta guardando, che sta guardando sé, eppure continua imperterrito nel suo guardare, senza ricercare in altro il suo principio, senza anelare. Narciso utilizza i propri occhi e questo sembra a lui bastare. Il problema di conoscere l’oggetto che guarda, e che dal punto di vista della spiegazione e della ragione e anche del sentimento amoroso sono momenti di tensione logica, non impedisce a Narciso di continuare a fare quello che fa, guardare, guardare un superficie, e sulla superficie rimanere. Che Narciso sia il mito fondativo della pittura, dell’arte delle due dimensioni, dell’arte della superficie, è questione che merita approfondimento di per sé, senza riferimenti a questioni morali, conoscitive, simboliche, che poco riescono a cogliere dell’arte e dei sensi.

1 Filostrato, Immagini, 23, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp.189-90.

2 Pausania, Guida della Grecia, III 31, 7-8, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p.189.

3 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp. 121-4.

4 Ivi, pp. 124-9.

5 Ivi, p.132.

6 R. Mugellesi, S. Landucci,, op. cit.

7 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p. 136.

8 Ivi, pp. 142-3.

9 Ivi, pp. 104-6.

10 Ivi, p. 111.

11 G. Boccaccio, Genealogiae deorum gentilium, LIX, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp. 194-5.

12 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p. 149.

13 Ivi, pp. 99-100

14 Plotino, Enneadi, I 6, 8, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p.192.


Andrea Togni

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