Un
breve ritorno sulle versioni di Conone e Ovidio prima di procedere
con le loro modificazioni e stravolgimenti. Del breve racconto di
Conone cui si è accennato, è da sottolineare che mentre Narciso si
guarda nella fonte, il giovane diviene «assurdamente amante di se
stesso». Conone non cerca spiegazioni che sviino dal fatto che
l’immagine nella fonte è quella del giovane stesso, né dice nulla
sul fatto che egli ne sia o meno consapevole, (e si presume perciò
che Narciso ne sia consapevole). Tuttavia è assurdo che Narciso ami
la propria immagine, è questo un atto che trasgredisce le leggi
dell’amore le quali impongono di direzionare il proprio amore su un
altro essere umano. L’amore di sé suscita dunque la giusta
punizione di Eros.
Ovidio
invece muove Narciso tra due momenti, nel primo non si riconosce nel
giovane che compare nella fonte, nel secondo capisce il terribile
inganno cui è stato costretto, nondimeno la sua anima continua per
l’eternità a rimirarsi nelle acque dello Stige. Narciso rimane
intoccato e intoccabile nel suo atteggiamento, Eco non lo poteva
nemmeno abbracciare quando era in vita, e ora sembra che nemmeno la
dolorosa e triste morte possano far nulla nel distoglierlo dal suo
intento.
Questo
atteggiamento eufemisticamente testardo ha colpito notevolmente fin
dall’inizio i cultori che si sono dedicati a rielaborare il
racconto.
Il
retore del III d.C. Filostrato il Vecchio ha lasciato un testo dal
titolo Immagini, che vuol cimentarsi nella descrizione a
parole di quadri che forse erano realmente presenti sulle pareti di
una villa nei pressi di Napoli, e tra questi anche uno raffigurante
Narciso1.
Mentre procede nella descrizione, Filostrato si pone una domanda
retorica circa quello strano giovane che rimira affascinato il suo
riflesso: «Ebbene, pensi forse che la fonte si metterà a discorrere
con te?». Incredulo e quasi divertito sembra Filostrato nel porre
una domanda che evidenzia come Narciso quasi neanche si renda conto
di ciò che sta facendo. Deviazione significativa dal testo ovidiano
che invece mostra che il giovane alla fine ha compreso il suo
abbaglio iniziale. Il guardare di Narciso non è compreso, è
ritenuto folle. Filostrato prova a mettere in parole il quadro della
villa, eppure il guardare di Narciso sfugge ai concetti, al
linguaggio, è qualcosa di folle, strano, di non compreso e non
comprensibile.
La
necessità di trovare una spiegazione all’atteggiamento del giovane
cacciatore ha tenuto occupati diversi intellettuali. Pausania è un
viaggiatore del II d. C. che ha lasciato uno scritto periegetico, con
lo scopo cioè di raccogliere informazioni circa popoli e luoghi, in
particolare quelli greci. Tra i luoghi anche quelli intorno la città
di Tespie, in particolare un canneto chiamato «fonte di Narciso»2
dove un «idiota» si guarda nello specchio d’acqua e si innamora
dell’immagine, incapace di distinguere tra uomo e immagine di uomo.
Narciso è talmente «idiota» che la storia così com’è non può
essere veritiera, quindi Pausania riferisce una versione più
attendibile. Narciso ha ora una sorella gemella a lui del tutto
identica, spesso cacciano insieme, se ne innamora. Quando Narciso si
disseta alla fonte, vede in essa la propria immagine, lo sa, ma gli è
di consolazione vedere in essa quella della sorella amata. Ecco così
che il comportamento di Narciso è comprensibile, ha un senso! La
modificazione dell’immagine nella fonte o l’accentuazione di ciò
che Narciso crede di vedere rispetto a ciò che vede hanno lo scopo
di dare una spiegazione e una costruzione teorica sostenibile della
situazione. Si tratta di uno schema che non ha nel solo Pausania il
fautore.
Nel
1550 Jean Ruz pubblica un poemetto in versi, Description poetique
de l’histoire du beau Narcissus3.
Ruz pensa a Narciso come talmente bello e pieno di fascino, che
nessuno, nemmeno Giove (che per lui avrà in odio persino Giunone) e
Venere sanno resistergli. Venere, colpita dalle frecce del figlio
Cupido, cerca in ogni modo di fare colpo, si traveste persino da
cacciatrice, ma il bel giovane ha altre idee e la disdegna ,
addirittura fa finta di non vederla. Ma Venere non è dea da
arrendersi facilmente, perciò riesce a nascondersi nella fonte dove
Narciso era solito rimirarsi; mentre egli si chiede cosa ci sia di
non proprio uguale sulla superficie riflettente, Cupido lo colpisce
con la freccia. Ma Narciso non si innamora di Venere celata, ma della
propria ombra. L’unico risultato che ottiene la dea è perciò
quello di far soffrire d’amore Narciso, un poco consolante “mal
comune, mezzo gaudio”. Così Narciso, prima dell’incantesimo di
Cupido, guarda la propria immagine, affascinato ma non proprio
innamorato, in quanto amore lo avrà solo per la propria ombra.
Grazie o a causa di Cupido Narciso entra a far parte del mondo
dell’amore non ricambiato, quando in precedenza se ne stava nel suo
guardarsi a sé stante, rifiutante relazioni e contatti invasivi da
parte di altri.
Altra
evoluzione del tema si ha con Calderòn de la Barca, uno dei grandi
drammaturghi dell’età barocca. Tra le sue commedie, Eco y
Narciso, del 16614.
Lirìope, che questa volta si unisce con Zefiro, va dal mago Tiresia
per avere una profezia sul nascituro: egli sarà bellissimo ma morirà
per aver udito o veduto una bellezza, per odio o per amore. Il
consiglio del mago è quello di impedire a Narciso di vedere e udire.
Lirìope, che riesce a proteggere il figlio per una dozzina d’anni,
è una maga dall’aspetto mostruoso che vive isolata; viene però
catturata da una comunità che festeggia il compleanno di Eco, e così
racconta loro la sua storia. Ma quando tornano nelle caverne in cui
vivono, Narciso è scomparso. Ed è ovviamente Eco a ritrovarlo, lui
se ne innamora grazie alla di lei voce ma scappa ricordando i moniti
della madre. Lirìope toglie la voce a Eco tramite un filtro. Narciso
nel frattempo trova una pozza d’acqua e si innamora della sua
immagine ancor più di quanto avesse appena fatto con Eco, tuttavia
crede che si tratti di una ninfa d’acqua, non di sé. La mossa di
Eco è quella di porsi alle sue spalle, e così Narciso cade nella
confusione visiva e uditiva più totale: vede una ninfa d’acqua, e
Eco ha due corpi! Ma è Lirìope a fargli comprendere l’errore, a
sua volta piazzandosi alle spalle del giovane, che capisce così che
la bellezza che tanto ama non è che la propria. Si tratta di un
intrigo molto complesso, sfaccettato, dove Narciso si trova in balìa
degli eventi non appena entra in contatto con quel mondo da cui la
madre su consiglio di Tiresia l’aveva tenuto lontano. Nella fonte
il giovane vede qualcun altro, una ninfa, Eco, Lirìope e solo alla
fine se stesso. È l’amore a prevalere in lui, il relazionarsi
all’altro, sia pure quest’altro una persona in carne ed ossa o il
suo riflesso. La morte che coglie Narciso in seguito a un terremoto
pone fine alla confusione di cui è preda. Calderon mette in mostra
una trama che si staglia su diversi livelli, e questo è indice
dell’inventiva poetica che si sviluppa a partire da una tematica di
base arcinota. Narciso nella fonte riconosce il proprio riflesso solo
nell’ultimo e drammatico atto, e ciò lo porta alla morte, una
morte da cui sorgerà il classico fiore, ma non un continuare a
guardarsi nell’aldilà come in Ovidio. Il gioco tra sensazioni,
conoscenze, sentimenti, raggiunge un grado molto complesso.
La
volontà di trasformare il guardarsi di Narciso in una storia d’amore
non è esclusiva di Caleròn. Basti citare il compositore tedesco
Gluck5,
che conclude il suo dramma lirico su Narciso con un trionfo d’amore,
per cui Eco resuscita dagli Inferi, Narciso evita per un soffio di
suicidarsi col pugnale, e si giunge così a un gioioso lieto fine. Ma
casi come questo rappresentano uno slittamento dalla tematica
fondamentale che vede il giovane specchiarsi nella fonte, per
accentuare il lato dell’innamoramento. Si tratta di un indirizzo
preciso che viene affibiato al racconto in modo da farne una storia
d’amore. Ma lo specifico di Narciso sta forse, come Landucci e
Mugellesi mostrano6,
nel fatto che Narciso rifiuta proprio questo fondersi con l’altro.
La storia di Narciso non può essere ricondotta tout court a
una storia d’amore, in quanto quello che in essa viene
rappresentato è lo «scandalo logico»7
di un innamoramento della propria persona; se di amore si tratta è
un amore non convenzionale, che trascende gli schemi classici, e che
ha un suo momento fondamentale nell’ammirarsi di un fanciullo in
una superficie riflettente.
Wilde
propone una variazione sul tema dell’amore che va tenuta in
considerazione8.
Nelle Short stories, la fonte, dopo la morte di Narciso, si
chiede se il giovane che in lei si specchiava fosse poi tanto bello.
Domanda particolare, dato che proprio lei avrebbe dovuto sapere
dell’aspetto di chi passava tante ore in sua compagnia. Ma l’amore
della fonte per Narciso supera in audacia quello di Narciso stesso:
infatti la ninfa d’acqua amava crogiolarsi nel di lui sguardo solo
in quanto vedeva riflessa nei suoi occhi la propria bellezza. Un
atteggiamento più realista di quello del re. L’accento cade sul
vedere la propria bellezza da parte della fonte, momento che non può
ridursi al solo innamoramento. Vedere se stessi in un oggetto altro,
in questo caso Narciso, vedere quell’oggetto come proprio, distinto
da sé, ma a sé riferito, in un rapporto che non può essere
studiato mediante i mezzi del conoscere quale che sia la sua
declinazione: qui si tratta di vedere, non di porsi di fronte ad un
oggetto con il quale si instaura un rapporto di legalità conoscitiva
o simbolica.
Ma
essendo un racconto mitico, quello di Narciso ha visto nascere le più
diverse interpretazioni. In ambito psicanalitico McDougall non crede
che Narciso guardi semplicemente il suo riflesso9.
Più che se stesso, egli sarebbe alla ricerca di un qualcosa di
perduto, di anelato, di non più in suo possesso. Questo oggetto è
lo sguardo della madre, uno sguardo in grado di renderlo soggetto
all’interno del mondo, una sguardo che parla. Si delinea una
spiegazione nei termini di complesso edipico, di desiderio del
genitore del sesso opposto. Ciò che sembra mancare in spiegazioni di
questo tipo è la capacità di fermarsi alla superficie, per cercare
invece un qualcosa di profondo, misterioso. Ma lo specchio d’acqua
è piatto, la superficie di un quadro è piatta, è in due
dimensioni, e il ricercare una dimensione ulteriore può essere segno
della volontà dell’interprete di leggere in un certo modo una
situazione.
Lo
scandalo provocato dall’amore di sé di Narciso è stato fin da
subito ritenuto paradigmatico e pertanto trasformato in proverbio.
Clemente Alessandrino nel II d.C. riferisce che è comune il detto
«In molti ti odieranno se amerai te stesso»10.
La ricerca di una spiegazione per lo scandalo ha impegnato non poco
gli autori cristiani. Un particolare intervento sull’originale
ovidiano è portato da Boccaccio nelle Genealogiae deorum
gentilium11.
Qui Narciso non rifiuta più le attenzioni di ragazzi e ragazze, ma
solo quelle di esponenti del sesso maschile, il momento della
maledizione si trasforma in una preghiera alle ninfe, e addirittura
nello specchio della fonte non vede più la propria immagine ma una
ninfa della fonte. Narciso non può nemmeno più passare attraverso
il travaglio del rinsavimento e del riconoscimento, è invece
turbato, confuso, dimentico di sé. Si tratta di una completa
rivisitazione del testo ovidiano tale da adattarlo a dettami che
siano adeguati alla morale cristiana. I normali corteggiamenti
omosessuali presso i greci divengono ora motivo di ribrezzo da parte
di Narciso, il quale non può nemmeno scorgere il proprio riflesso,
in quanto amore è amore solo se lo è per una bella ninfa. Così il
momento del turbamento, del riconoscere la propria immagine, del
continuare a guardare vengono persi. Peraltro Boccaccio propone anche
una ricostruzione allegorica della vicenda12
per cui Eco si identifica con la Fama e Narciso con tutti gli uomini
che rifiutano gli onori morali del mondo sociale per cadere vittime
delle voluttà dei sensi, cosa che pàgano trasformandosi giustamente
in un fiore (che della vanitas e della caducità è l’oggetto
rappresentato per eccellenza). Si tratta quindi di una condanna del
mondo sensibile in un atteggiamento platonico-cristiano, si pone la
lettura morale e pedagogica come indispensabile per un racconto che
voglia avere una positiva influenza sociale. Le interpretazioni del
mito nel senso di allegorie o riferentesi in ogni caso a questioni
morali, sociali, educative, sono in verità la maggioranza e derivano
da un atteggiamento che ha nella svalutazione del sensibile la radice
profonda, svalutazione che ha per fine la ricerca di una verità che
sta in un mondo altro, simbolico, o anche estetico ma solo nel caso
della costruzione di rapporti legali d’amore. Che tutto ciò dia il
giusto resoconto di cosa sia il guardare di Narciso, è affermazione
che non può essere accettata tout court.
Per
ultimo si è lasciata la lettura che Plotino fornisce circa il mito.
La sua attenzione si focalizza sul rapporto sensi-anima, e per questo
sfrutta la tematica dello specchio. Anzitutto un passaggio legato
indirettamente a Narciso è quello dello specchio di Dioniso13:
si tratta di un giocattolo che ha distratto l’attenzione del
dio-bambino permettendo ai Titani di prenderlo prigioniero per poi
farlo a pezzi. L’allusione di Plotino è all’anima di che si
lascia ingannare dai sensi, da oggetti superficiali, perdendo così
la propria essenza divina. Specchio è lo strumento che lega l’anima
al mondo sensibile impedendogli di cogliere la vera e trascendente
bellezza nel mondo altro cui appartiene. Nelle Enneadi14
si invita ad andare in direzione della bellezza interna del
santuario, abbandonando la vista esteriore e superficiale degli
occhi. Gli occhi vanno limitati nel loro fermarsi alle bellezze
materiali che sono «immagini, orme e ombre», legate ad un elemento
oscuro che non permette di vedere la luce superiore. Chi, sostiene
Plotino, si perderà nella contemplazione di bellezze materiali come
fossero la vera realtà, farà la fine di quel povero ragazzo che si
inabissò nelle acque e scomparve. La pena che la supremazia
dell’occhio sull’anima porta insita è quella di costringere a
sprofondare con sé anche l’anima la quale proviene invece dal
mondo della vera verità, di cui quello sensibile non può essere più
che ombra ingannevole. In ambito neoplatonico il sensibile ha la
funzione fondamentale di iniziare la scala che porta alla
contemplazione della bellezza sovrasensibile, dell’idea di
bellezza. Vi è uno stacco tra bellezza sensibile e bellezza ideale
ma la prima ha una sorta di valore iniziatico, non si tratta di un
completo misconoscimento. Eppure il principio che la tradizione
neoplatonica e cristiana in questo modo afferma è quello della
tensione, dell’anelito di ciò che riguarda i sensi a una
dimensione altra in cui si rivela la verità. I sensi possono
alludere simbolicamente a un mondo trascendente in cui possono essere
riscattati. L’uomo cristiano-platonico è un uomo sensuale,
sensibile, il quale anela ad una purificazione di sé, ad un
rinnegamento della dimensione sensibile slegata dal riferimento a un
mondo altro. Che poi il mondo altro sia caratterizzato dalla
trascendenza divina, da un ideale morale, da una necessità di porre
la conoscenza in primo piano, si tratta pur sempre di trattare i
sensi come da direzionare eteronomamente verso una verità di cui
magari sono partecipi ma che non deriva dai sensi il principio
fondamentale. Narciso è in qualche modo peccatore, perché non si fa
direzionare eteronomamente, perché capisce che sta guardando, che
sta guardando sé, eppure continua imperterrito nel suo guardare,
senza ricercare in altro il suo principio, senza anelare. Narciso
utilizza i propri occhi e questo sembra a lui bastare. Il problema di
conoscere l’oggetto che guarda, e che dal punto di vista della
spiegazione e della ragione e anche del sentimento amoroso sono
momenti di tensione logica, non impedisce a Narciso di continuare a
fare quello che fa, guardare, guardare un superficie, e sulla
superficie rimanere. Che Narciso sia il mito fondativo della pittura,
dell’arte delle due dimensioni, dell’arte della superficie, è
questione che merita approfondimento di per sé, senza riferimenti a
questioni morali, conoscitive, simboliche, che poco riescono a
cogliere dell’arte e dei sensi.
1
Filostrato, Immagini, 23, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op.
cit., pp.189-90.
2
Pausania, Guida della Grecia, III 31, 7-8, citato in
M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p.189.
3
M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp. 121-4.
4
Ivi, pp. 124-9.
5
Ivi, p.132.
6
R. Mugellesi, S. Landucci,, op. cit.
7
M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p. 136.
8
Ivi, pp. 142-3.
9
Ivi, pp. 104-6.
10
Ivi, p. 111.
11
G. Boccaccio, Genealogiae deorum gentilium, LIX, citato in
M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp. 194-5.
12
M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p. 149.
13
Ivi, pp. 99-100
14
Plotino, Enneadi, I 6, 8, citato in M.Bettini, E.Pellizer, op.
cit., p.192.
Andrea
Togni
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