mercoledì 10 ottobre 2012

Narciso e la sua superficie- Parte V

5. Narciso dipinto

Finora si sono presi in esame essenzialmente gli sviluppi del mito dal punto di vista degli sviluppi letterari e filosofici. Ma come si è più volte accennato, Narciso è considerato il mito di riferimento circa la nascita della pittura così come la si conosce nella civiltà occidentale, un po’ come il mito di Pigmalione ha dato numerosi spunti di riflessione a chi si occupa di scultura. È evidente che parlare di Narciso non significa far risalire a esso la nascita cronologica della pittura, la quale non ha certo dovuto attendere l’età augustea per proporre la sua novità. Il mito di Narciso ha dato però spunti di riflessione nuovi che hanno contribuito alla rielaborazione teorica, pratica, estetica di considerare il dipingere.

 Figura 1, Narciso, Pompei, I d.C.


Non è un caso se già a Pompei sono rimaste conservate numerose raffigurazioni parietali da riferirsi proprio al giovane cacciatore, e questo è indice anche del successo che il testo soprattutto di Ovidio ha avuto quantomeno negli ambienti colti e delle aristocrazie di città come quella campana che erano all’avanguardia quanto al loro processo di ellenizzazione. Addirittura sono una quarantina le testimonianze rinvenute dagli scavi pompeiani, segno che il tema della visualità, così esplicito nel racconto di Ovidio, ha fin da subito interessato committenti e artisti. Nel caso della figura 1, così come nella maggioranza degli affreschi pompeiani, l’accento è posto sull’atto di guardarsi da parte di un Narciso comodamente seduto sulla roccia. La trama narrativa è ridotta all’elemento fondamentale del guardarsi e del rapporto tra immagine e oggetto riflesso.


Figura 2, B. Cellini, Narciso, 1549, marmo, Firenze, Museo nazionale del Bargello

Si è visto sopra che Filostrato ha provato a riprendere in parole un dipinto pompeiano che raffigurava questa volta un Narciso in piedi circondato da un paesaggio naturale. Particolarmente interessante è che Filostrato sottolinei il naturalismo o realismo del dipinto, tale addirittura per cui lo spettatore non è in grado di capire se un’ape su di esso dipinta sia reale o appunto un’illusione. È la ripresa di un modo di considerare la pittura come capace di ingannare, di giocare tra realtà e finzione. Il moderno trompe l’oeil trae la sua origine da riflessioni dello stesso tipo che erano in verità diffuse già in epoca più antica presso i pittori greci. Narciso stimola l’interpretazione di una pittura in grado di riprodurre in modo talmente fedele da ingannare l’occhio. Una pittura che quindi non ha a che fare con questioni di carattere strettamente morale ma che gioca in primo luogo sul ruolo che la vista ricopre nella visione. Peraltro parlare d’inganno neanche sarebbe corretto, perché chi si pone di fronte a un quadro seppure iperrealistico già si mette a disposizione di un contesto finzionale che magari non sa immediatamente distinguere in tutte le sue parti ma che gli è presente. Proprio nel massimo del realismo si mostra la natura altra del dipinto, non nel senso che rimandi a una dimensione di significato ulteriore, ma nel senso che proprio mentre sembra rimandare a un semplice copiare una realtà che non le appartiene, riesce a essere qualcosa di diverso, imparagonabile alla stessa realtà di cui si fa copia.


Un’accentuazione del tema dell’innamoramento si ha nei narcisi che portano le braccia intorno al capo, ponendosi in una sorta di autoabbraccio plastico nei confronti del proprio corpo. Un esempio lo si può mostrare con la statua del Cellini in Figura 2.

In ambito soprattutto medievale è inevitabile un’accentuazione dell’aspetto moraleggiante, in modo parallelo a quanto si è visto sopra col Boccaccio. Perciò alcune incisioni o miniature mostrano soprattutto le conseguenze della superbia e dell’orgoglio mostrate dal giovane cacciatore. L’aspetto della visualità viene così trascinato in secondo piano a vantaggio di una interpretazione morale e didascalica. Evidentemente anche le figura di un Narciso dai tratti femminei e quasi androgini restano esclusive, fino alla modernità almeno postrinascimentale, dell’antichità soprattutto pagana.


 Figura 3, N. Poussin, Impero di Flora, olio su tela, 1661,  Dresda Gemaldgalerie



Appartiene a Poussin la volontà di recuperare il mito nelle sue declinazioni complesse, tenendo in conto anche personaggi che raramente fino ad allora avevano svolto un ruolo di primo piano. Nell’Impero di Flora del 1661 (figura 3), la scena (alla sinistra dell’osservatore) con Narciso vede la presenza anche di una donna che tiene la brocca con l’acqua, con maggiore probabilità Eco piuttosto che Lirìope; inoltre un uomo si trafigge con una lancia, non si può forse vedere in lui l’Aminia di Conone, ma più verosimilmente Aiace che in seguito alla sua morte si tramuterà in garofano1. Peraltro in Eco e la morte di Narciso Poussin riprende il tema della morte di Narciso, aspetto non per forza comune.


   Figura 4, H. Daumier, Le beau Narcisse, litografia, 1842


Il mito riscoperto permette in seguito lo sviluppo di devianze e accentuazioni particolari che segnano un ulteriore step metamorfico. Il pittore e caricaturista marsigliano Daumier col suo bel Narciso fa valere le valenze morali ricavabili dal racconto, mostrando uno scheletrico essere che in una posa arcuata e innaturale ghigna soddisfatto alla propria vista nella pozza antistante. Una corona di fiori cinge la testa del giovane, forse riferimento alla corona di spine che si stringe attorno al capo di Cristo. Peraltro bisogna considerare che il mezzo tecnico della caricatura ha sempre avuto la capacità di deformare i tratti dei soggetti ritratti creando un momento di straniamento che è senz’altro legabile ad una volontà di critica, nel presente caso dello stare attaccati alla propria immagine quasi il resto dell’esistenza non contasse. Ma la caricatura è anche strumento ironico, che provoca distacco, distanza rispetto a tematiche che non devono sconfinare dal loro campo, quali quelle morali. Il disegno anche curato di Daumier, il ghigno verrebbe da dire consapevole del proprio stato del giovane, mostrano quanto decisivo sia il rapporto tra distanza e vicinanza, interesse per sé e disinteresse ironico, tra sensazione e arte.


Figura 5, J. Gumpp, Autoritratto, olio su tela, 1646, Firenze, Galleria degli Uffizi






Ovidio ha saputo creare con il suo racconto un insieme di riflessioni che si innesta con forza in un filone che vede nel rapporto tra realtà e finzione mimetica il nodo fondamentale. Considerare la pittura come specchio fedele del reale, senza limitarla alla sola copia ma permettendo una riformulazione dello stesso, è idea presente persino in Platone, idea che il modo di pensare platonista ha in parte tradito esaltando il solo rapporto di doppia lontananza (ontologica e gnoseologica) della pittura dalla realtà e dal mondo delle idee2. Ma sarebbe poco fruttuoso sostenere che i pittori di ogni tempo non avessero ben presente il contesto finzionale, specifico e altro rispetto alla realtà3, che la tela porta con sé. Che il problema sia ben più articolato, che investa il rapporto di sé con sé, che in gioco vi sia il proprio sentire che è un porre a distanza cose che sono sentite grazie ai propri sensi, che in gioco vi è inoltre l’unicità e incomparabilità dell’artista che permette alla sua opera di sussistere di per sé, un piccolo sunto di ciò lo si mostra con gli autoritratti. Smascherato è il gioco di riflessi e ritratti messi in scena da Gumpp (figura 5), per cui il pittore si dipinge nell’atto di dipingere se stesso che si guarda a uno specchio. La medesima figura rientra in una molteplicità di livelli ognuno dei quali potrebbe essere ed è autosufficiente, ma intersecato con gli altri, un rapportarsi di elementi che a sua volta conclude interno dell’opera il suo essere. Il guardare del soggetto sulla tela verso lo spettatore è ulteriore direzionarsi del rapporto tra immagini e realtà, il che esalta e mette ancor più in crisi il contesto finzionale in cui si muove il pittore di Innsbruck.


La riflessione sullo specchio ha incontrato un’escalation nel secolo scorso. L’indagine degli artisti si è focalizzata con sempre maggiore attenzione sul rapporto mimetico. Basti citare le numerose opere di Pistoletto che propongono specchi, sui quali spesso è posta una figura che entra in contraddizione con lo spettatore che a sua muovendosi di fronte alla superficie entra a far parte della superficie specchiante. Anche la video arte di Bill Viola si è cimentata con tale tematica, uno degli esempi più celebri è Reflecting pool4, dove un uomo si pone a bordo di una sorta di piscina e la situazione si modifica progressivamente tra momenti di presenza del corpo dell’uomo insieme al riflesso, senza riflesso, o del riflesso di per sé, in un’acqua che si muove a diverse velocità. Il tutto è complicato dalla presenza di un forte rumore di fondo, che introduce una dimensione sinestesica, e dal fatto che si tratta di un video, il quale per sua natura introduce una dimensione temporale o quanto meno di durata. Un tempo che essendo dimensione di trascendenza e di rapporti tra i suoi diversi momenti pone in ulteriore malleabilità il rapporto tra vicinanza e distanza, tra uomo e immagine.

Ed è proprio la dimensione temporale che pare messa in discussione da Giulio Paolini, artista che utilizza calchi in gesso per le proprie opere, opere che solo ad un’occhiata fugace sembrano essere di marmo, e che riprendono una monumentalità classica smascherata fin da subito. In Mimesi (figura 6) due calchi sono posti l’uno di fronte all’altro, in un rapporto che viene continuamente negato. Il biancore tutto particolare delle opere di Paolini, affatto identico a quello delle statue in marmo classiche, crea degli oggetti scultorei che sembrano sottrarsi a ogni esame di natura temporale. Le due teste stanno in colloquio spaziale, però è uno spazio unico, che si sottrae a ogni comparazione, conflitto, amore, con il resto degli oggetti che li circondano. Paolini pone in essere nella sua opera un modo di intendere lo spazio che si distacca completamente da quello quotidiano, anche nelle opere che invadono lo spazio del museo o del sito di collocazione. La potenza di tali opere consiste nel far proprio lo spazio, di renderlo altro, senza con ciò riferirsi ad una dimensione a loro trascendente. Lo spazio che si viene a creare è loro proprio, intoccabile, intoccato, invade e trasforma lo spazio reale, che spazio reale più non è, essendo quello spazio, quello, unico, incomparabile. Sembra di sentire riecheggiare lo sdegno di Narciso nel momento in cui viene abbracciato da Eco, uno sdegno che però si rende qui incurante, non curante di niente e di nessuno, tantomeno di chi osserva, tantomeno di chi lo ha creato.

 
    Figura 6, G. Paolini, Mimesi, calco in gesso, 1975





Conclusione
Il rapporto tra Narciso e la superficie d’acqua specchiante mostra un duplice interesse in capo all’estetica: prima da un punto di vista del sentire, delle sensazioni, dei sentimenti, poi da quello della costituzione di un piano di finzione che è l’arte a rielaborare. Quanto al primo punto, si è cercato di mostrare come non sia possibile ridurre il sentire ad un semplice modo del conoscere, sia esso rigorosamente razionale oppure simbolico. Se è vero che lo sguardo di Narciso si lega alle tematiche del riconoscimento visivo e all’innesco di passioni amorose, esso è in grado di avere un propria specificità e autonomia. Che il vedere sia utilizzato anche dal conoscere, che sia sfruttato anche dal sentire amoroso, che si ponga in rapporto con il complessivo essere di una persona, questo è innegabile. Ma se si vuole rendere conto di cosa sia il guardare, non si può fare unico riferimento ai rapporti del guardare con le altre facoltà umane, in quanto in tal caso si parlerebbe dei rapporti, con la ovvia perdita del guardare. Narciso può dare uno spunto di riflessione che va ulteriormente approfondito in questa direzione. Nonostante prima si innamori della propria immagine, poi si riconosca, poi capisca l’errore dell’autoinnamoramento, ebbene Narciso continua, nella sua dannazione eterna a- guardare. Segno che non è questione di peccati, di incapacità di cogliere i rapporti, di immoralità o moralità. Sentire è un fare e un essere che nella propria autonomia va inteso. E va inteso nel senso di un riferimento a sé, Narciso guarda se stesso. Il sentire è qualcosa di proprio, il rapporto e l’oggetto sono questioni secondarie. Questo può aprire una considerazione sulla natura dell’arte. Non è sufficiente considerarla come solo simbolica, aprente mondi possibili, diversi, o catene di rimandi. Narciso guarda quella superficie. Gli si fa osservare che dovrebbe guardare qualcosa di più profondo, di legato all’amore, alla morale, ad altro? Lui guarda quella superficie. Che forse l’arte non debba essere continuamente ridotta o ricondotta a simbolismi che le sono estranei, che forse quando ci si pone davanti a un quadro non si deve capire, ma guardare, solo guardare, forse è questo che Narciso nel suo essere intoccato e intoccabile ha visto nel suo- vedersi.


1 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp.137-40.

2 Sullo sviluppo del tema mimetico a partire da Platone e Aristotele, si veda il completo e dettagliato testo di S. Halliwell, L’estetica della mimesis. Testi antichi e problemi moderni, Aesthetica, Palermo 2009.

3 Peraltro il continuare a usare il termine “realtà” è evidentemente una forzatura, non essendo essa un che di definibile in modo ultimo. Realtà viene nel presente testo assunto nel suo significato ingenuo, nella consapevolezza che si tratta di un termine che ha avuto pesanti discussioni e ha pesanti conseguenze a seconda delle accezioni in cui lo si prende.

4 Il video è rintracciabile in modo semplice e rapido con una ricerca su youtube.


Andrea Togni

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