UN PICCOLO OMAGGIO A UNO STRAORDINARIO RAGAZZO NORMALE: PIERO GOBETTI (19/06/1901-15/02/1926)
Come fa notare
Marco Gervasoni nel suo studio L'intellettuale come eroe (2000),[1] la figura di Piero Gobetti
non smette mai di incuriosire, di suscitare interesse e ammirazione in chi, di
volta in volta, si accinge a studiarla in occasione di corsi universitari, o
semplicemente a ricordarla «ogni qual volta nella
società italiana si presentano trasformazioni di un qualche rilievo».[2]
In particolare, data la natura essenzialmente sociale e politica
della maggior parte delle riflessioni che Gobetti fece durante la sua
instancabile attività pubblicistica, è proprio quest'ultimo aspetto a destare
spesso un risveglio nelle coscienze degli italiani: anche grazie al Centro
Studi Piero Gobetti, inaugurato a Torino nel 1961 in quella che fu la casa di Gobetti e della moglie Ada Prospero, è
possibile rimanere costantemente in contatto con l'operato di questo
giovanissimo antifascista, la cui acutezza d'ingegno e lungimiranza politica
non smettono mai di stupire.
Proprio pochi mesi fa, il quotidiano «La Repubblica» ha
segnalato un interessantissimo convegno, che il Centro Studi ha promosso a
Parigi assieme alla Maison d'Italie, sugli ultimi giorni di Piero Gobetti,
vissuti nella capitale francese durante quello che Gobetti non definì mai un
esilio, ma che al contrario visse come opportunità di far sentire la propria
voce dall'estero e continuare ciò che aveva intrapreso in Italia, per poi
ritornare quando lo avesse ritenuto opportuno.[3] È grazie a simili iniziative, tra cui il
progetto di fondare una casa editrice di respiro europeo proprio a Parigi, le
cui propaggini si sarebbero sparse in tutta Europa secondo i progetti del
torinese, che la figura di Gobetti affascina e al contempo stordisce, data la
grandezza dei suoi piani e la forza morale non comune, da cui si lasciava
guidare in ogni sua iniziativa. E forse era destino che il giovane terminasse i
suoi giorni a Parigi, centro culturale e politico di grande influenza, allora
come nel passato: emblema di quell'europeismo di cui Gobetti fece costantemente
il proprio punto fermo e la propria meta.
Al di là di tutto ciò che egli fece per la politica italiana (conosceva approfonditamente sia la
storia politica del passato, sia quella a lui contemporanea, e possedeva una
lucidità d'analisi e un bagaglio di conoscenze che potrebbero mettere tuttora
in imbarazzo perfino i politologi più qualificati), al di là del suo importantissimo
contributo per la comprensione e la modernizzazione della società, seppur con
le inevitabili sconfitte e delusioni, ciò che più ha suscitato il mio interesse
è stato il suo impegno culturale, in particolar modo quello relativo alla
traduzione di opere in lingue straniere.
Avendo una passione viscerale per le lingue, che mi sono sempre
sembrate specchio di una forma d'arte, la musica, che ritengo il più immediato
ed espressivo mezzo di comunicazione, e provenendo da un liceo linguistico, in
cui ho imparato a leggere i testi in lingua originale, a tradurli più
fedelmente possibile e a considerare la comunicazione interlinguistica come
qualcosa di naturale, non avevo alcuna idea di quanto la traduzione fosse stata
osteggiata in diversi periodi della storia culturale italiana, tra cui proprio
quello fascista, né di come venissero selezionati e tradotti i testi stranieri
importati in Italia.
Sono stati illuminanti in proposito due laboratori e due corsi
frequentati durante questi anni universitari. I primi due, l'uno dedicato alla
traduzione letteraria, l'altro ai classici del teatro antico portati sulle
scene contemporanee, sono stati utilissimi per conoscere gli aspetti pratici
della traduzione; i corsi di Storia della cultura contemporanea e di
Letterature comparate, invece, mi hanno permesso di conoscere in modo più
diretto il ruolo di Gobetti come mediatore, traduttore e teorico della
traduzione nell'Italia fascista. Le riflessioni emerse durante le lezioni di
Storia della cultura contemporanea mi hanno subito fatto ammirare l'operato
gobettiano riguardo alla traduzione: la giovane età e l'impegno morale che
Gobetti metteva nel tradurre, come in qualsiasi aspetto della sua attività
culturale, mi hanno fatto sentire molto vicina alle sue idee e mi hanno subito
incuriosita. In particolare, dopo averne sentito parlare nuovamente al corso di
Letterature comparate, ho deciso di approfondire le mie conoscenze riguardo a
questo giovane sostenitore delle letterature straniere, fautore in prima
persona di traduzioni dirette, integrali e fedeli.
Lungi dal voler sostenere che l'unica modalità corretta di
tradurre un testo straniero sia rispettarlo fedelmente,[4]
è però evidente che Gobetti, con le sue riflessioni teoriche, basate
sull'onestà dell'impegno traduttivo, e con il suo modo di concepire la
traduzione come un'attività pionieristica, che andasse sempre alla ricerca del
nuovo, sia dal punto di vista delle opere da tradurre, sia dal punto di vista
delle interpretazioni testuali, abbia dato un contributo significativo per
smuovere le coscienze dei traduttori di allora e abbia messo in evidenza, come
pochi avevano fatto prima, la natura artistica e le responsabilità della
traduzione, fino ad allora concepita per lo più come una pratica temporanea,
che servisse ad aspiranti letterati unicamente per fare gavetta, poiché
ritenuta priva di qualsiasi dignità, sia economica,[5]
sia letteraria.
Nonostante, con mio grande rammarico, non mi sia potuta
concentrare sugli aspetti pratici dell'esperienza traduttiva gobettiana, dato
che non ho mai avuto l'occasione di studiare la lingua russa, che egli
prediligeva tra tutte in quanto, a suo parere, proprio dalla Russia l'Italia
avrebbe potuto imparare a modernizzarsi, le sue riflessioni mi hanno avvinta a
tal punto da volerle approfondire, per comprenderne tutti gli aspetti e
contestualizzarle.
Ma questa è un'altra storia...
Grazie Piero per tutto quello che ancora significhi per noi giovani italiani.
Roby <^>
[1] M. Gervasoni, Introduzione a L'intellettuale
come eroe: Piero Gobetti e le culture del Novecento, La Nuova Italia,
Scandicci, 2000, pp. 5-16.
[2] Ivi, p. 5.
[3] Cfr. M. Novelli, Gli ultimi giorni di
Gobetti, in «La
Repubblica», 38,
94, 23 aprile 2013, p. 38.
[4] Si pensi, ad esempio, alle traduzioni
infedeli e non integrali di diverse opere dello scrittore americano Hemingway
realizzate da Vittorini: molte volte il romanziere siciliano eliminò intere
parti presenti nei testi originali, in particolare quelle che rendevano conto
dei pensieri dei personaggi, poiché le riteneva troppo cerebrali e pensava che
appesantissero il testo. Altre volte, invece, ritenne necessario aggiungere
parole o modificare del tutto la costruzione di alcune frasi, che però in
questo modo persero la loro immediatezza e la loro pregnanza, nonché l'ironia
che Hemingway era riuscito a ricavarne. Infine, non mancarono da parte di
Vittorini interventi tipicamente naturalizzanti, atti a familiarizzare realtà,
luoghi, usanze sconosciuti ai lettori italiani. Un approccio completamente
diverso, quindi, rispetto a quello di Gobetti, sostenitore di un costante
impegno di fedeltà nella resa dello stile dell'autore.
[5] Questo aspetto, purtroppo, è ancora presente
nella nostra editoria: i traduttori sono certo più tutelati rispetto al
passato, ma non sono ancora adeguatamente ricompensati per il loro lavoro.