domenica 15 luglio 2012

LA NOTTE DELLE LANTERNE

Ernesto impiegò sette secondi più del solito a chiudere la sua ventiquattrore, quella sera.

Pensieri e dubbi assillavano la sua testa, li aveva rimandati per tutto il giorno, lasciandosi assorbire, come al solito, dal suo lavoro. Avevano fatturato un miliardo e mezzo, non una giornata eccezionale, ma di cui sicuramente nessuno in società poteva lamentarsi.

Percorrendo gli ariosi corridoi del settantaduesimo piano, gremiti di uomini in divisa da dirigente -le teste alte e fiere, il passo svelto-, poteva percepire la soddisfazione e i complimenti dei colleghi per il lavoro svolto in quella giornata da quel ritmico rumore di passi che echeggiava tra le pareti di marmo color latte.

In realtà, un fino osservatore avrebbe notato quella lieve ed impercettibile ruga di insicurezza sul volto: come tutti, era stato educato fin dalla più tenera età a non mostrare alcuna debolezza, se proprio non fosse possibile non averne. Non era davvero convinto che tutti, in quel grattacielo celeste, fossero felici per lui, che tutti lo stimassero e che apprezzassero il suo lavoro. Dio! Non sapeva nemmeno se avesse davvero fatto un bel lavoro quel giorno!

Era bravo a nascondere tutti questi strani dubbi, però. Sapeva che stava implicitamente infrangendo la regola principale della società: lo spirito di gruppo, la solidarietà e la fiducia nei proprio colleghi dovevano essere davanti a tutto.

Si lasciò sfuggire un leggero sospiro, appena entrato nell’ascensore assieme a tutto il codazzo di dirigenti. L’apparecchio richiuse le porte dolcemente davanti ai loro occhi; non sembrava neppure che si muovesse, talmente era silenzioso e confortevole, ma stava rapidamente percorrendo tutti i piani dell’edificio, scendendo verso il basso. Un uomo alla sua sinistra, un dirigente di quinto livello coi capelli biondi a spazzola, si fece educatamente largo fino al frigo bar, traendone un bicchiere di spumante: probabilmente aveva sete, doveva aver fatto qualche presentazione o condotto le fasi preliminari di qualche trattativa e gli si era seccata la gola.

Ernesto si domandava distrattamente come potesse davvero essere sicuro che, anche solo in quell’ascensore, tutti lo conoscessero e lo stimassero. Il cameratismo su quale si fondava la loro società era solo una facciata, un modo per mostrarsi forti e compatti nel confronto dei rivali? O esisteva davvero, e lui era quello storto?

Al piano terra, una musica soave segnalò agli occupanti dell’apparecchio che erano giunti a destinazione, e dopo un attimo, le porte si aprirono con la stessa dolcezza con la quale si erano chiuse, rivelando la maestosa hall del grattacielo.

Ernesto sfilò con passo austero, valigetta stretta nella mano destra con una tale naturalezza che poteva sembrarne un prolungamento, attraverso il colonnato lastricato di velluto che conduceva verso l’uscita.

Erano nove giorni che aveva ormai capito che qualche cosa in lui si era rotto, un qualche ingranaggio doveva essersi danneggiato, e ora aveva come iniziato ad avvertire l’assurda insostenibilità della sua situazione.

L’aria fresca della sera gli baciò le guance appena varcò la soglia, e la folta legione di uomini in giacca e cravatta si diradò come una nube di fumo appena uno ci soffia sopra. Nemmeno in quel momento, la fine della settimana lavorativa, riusciva a sentirsi un poco sollevato: la sua mente non poteva che pensare che quel lieve bacio non poteva essere un premio per i suoi sforzi o una consolazione per le sue delusioni, perché l’aria della sera baciava con la stessa dolcezza tutti gli uomini che uscivano da palazzo della sua società.

In quei nove giorni, aveva lentamente iniziato a sentirsi, dapprima, strano, e poi, quando ebbe iniziato a scavare dentro il suo cuore, alla lucida ricerca del motivo di quella malinconia, inadatto. Ma non era inadatto la parola che poteva descrivere i suoi sentimenti, il guaio era semmai che non sapesse quale fosse la parola giusta.

La soluzione, piuttosto, gli era apparsa chiara fin da subito. Ma ci era voluta più di una settimana per decidersi ad adottarla, perché Ernesto temeva le implicazioni morali che avrebbe comportato. Era nato e cresciuto in una famiglia devota e, sebbene la vita da adulto avesse attenuato l’influenza degli insegnamenti infantili, quell’idea non poteva che generare all’interno del suo animo già tormentato una forte sensazione di disagio.

La soluzione era, ovviamente, una puttana.

Aveva subito deciso che, se proprio doveva pagare una donna per fare quella cosa sporca che la morale comune mal tollerava, sarebbe stato meglio accadesse di venerdì sera, al termine della settimana lavorativa e quando lo stress aveva raggiunto il suo apice, oltre ad avere la possibilità di riposarsi il giorno seguente e riflettere sul suo gesto e la sua effettiva utilità.

Ma era ormai mercoledì, e il venerdì gli pareva troppo vicino. Non ce la fece, non ne ebbe il coraggio. Così, Ernesto decise che avrebbe stretto i denti, nascosto il suo malessere per più di sette giorni, fino al venerdì della settimana seguente. Era certo, con così tanti giorni a disposizione, non avrebbe avuto problemi a riflettere a fondo su quella decisione, a valutarla e a trovare il coraggio di recarsi davvero da una puttana.

Mentre stava comodamente seduto sul morbido sedile posteriore della limousine nera che lo era venuto a prendere, come di consueto, davanti al grattacielo della società per la quale lavorava, tornava coi pensieri a quegli ultimi giorni: non aveva fatto nulla di ciò che si era prefissato, anzi aveva evitato il più possibile di pensare a quella sera, facendo finta che non avesse deciso nulla, che tutto fosse come al solito. E quel giorno, si era svegliato con la paura di arrivare alla sera. Fu sul punto di rinunciare, cercando di autoconvincersi che il suo era solo un accumulo di stress, che se ne sarebbe andato con una bella vacanza in qualche località esotica, ma alla fine non poté che guardare in faccia la realtà: aveva bisogno di quella puttana, e non poteva più rimandare.

L’auto percorreva sicura l’interstatale, diretta verso casa sua, ed Ernesto in almeno tre occasioni dovete farsi forza per trattenere una crisi di pianto. Si sentiva regredito all’infanzia, quando piangere era l’unico modo per convincere sua madre a non fargli fare qualcosa che lo ripugnava, benché fosse consapevole che era necessaria.

Poi, tutto d’un fiato, come la prima volta che bevi del whisky, pigiò il tasto dell’interfono e disse al suo autista di portarlo a fare un giro sulla Duecentosedicesima.

L’uomo dall’altro lato del vetro insonorizzato, che mai Ernesto aveva visto in faccia e di cui mai aveva udito la voce, voltò leggermente il capo, lasciando appena appena intravedere i folti baffi grigi scuri e gli occhiali neri, e con un cenno fece sapere al cliente che aveva recepito.

La limousine lasciò la lussureggiante interstatale sopraelevata, torno di sotto, nella città, ed iniziò a gironzolare superba tra le vie del centro. Poi, prese la Bisettrice, una lunga strada in rettilineo a quattro corsie che congiungeva il centro con il quartiere limitrofo del Settore C, il terzo più grande dei sei distretti della città.

Lungo quel percorso, cercò di non pensare a nulla, si impose una serie di respiri regolari al fine di distendere i muscoli. Gli stessi esercizi ai quali venivi educato fin da bambino, per contenere le emozioni e palesare la più salda sicurezza in te stesso.

Ma la sua mente non rispondeva più al suo volere, la tensione di quei giorni era stata troppo alta per permettergli di mantenere il completo controllo delle sue facoltà psico-fisiche. Come si abbordava una puttana? Come ci si comportava con lei? Come avrebbe potuto o dovuto fare? Non ne aveva la più pallida idea, e forse la cosa lo preoccupava ancora di più delle problematiche morali che il suo gesto comportava.

Lo spaventava a morte l’idea di mostrarsi debole, insicuro, imbranato, davanti ad una misera puttana.

La Duecentosedicesima strada era una nota traversa del Settore C, lungo la quale pattugliavano puttane di ogni genere ed età. La limousine nera rallentò e passò per quella via come una modella ad una sfilata, ammirata e richiamata da tutto il pubblico.

Donne gracili e vestite di due stracci, financo sporche, con gli occhi completamente vuoti…per trovarne qualcuna in carne dovevi puntare le vecchie obese che stavano in fondo alla strada, e che ad Ernesto mettevano i brividi ad ogni disgustoso movimento delle loro forme raggrinzite.

L’autista della limousine mosse leggermente il capo, immaginando da dietro il finto specchio il volto deluso e raccapricciato del suo cliente.

Per la prima volta in carriera, l’uomo accese l’interfono per primo, suggerendo ad Ernesto che, se glielo consentiva, poteva portarlo in un posto migliore. Stavolta, fu il dirigente in giacca e cravatta a fare un nervoso cenno d’assenso con la testa.

Non sapeva se rallegrarsene o rabbuiarsene: certo, ora sarebbe stato condotto in un luogo sicuramente più adatto alla sua classe, ma era anche vero che quel misero autista adesso aveva una posizione più forte, nel delicato equilibrio sociale che vigeva in quella spaziosa macchina di lusso.

Durò solo un secondo, e poi anche quel pensiero andò a far fondo nella mente di Ernesto, lasciando in superficie il dilemma del comportamento che avrebbe dovuto adottare di lì a pochi minuti.

La fiamma nera riprese per qualche tratto vie conosciute e ben frequentate, poi imboccò la Cinquantesima, la percorse per circa tre quarti, e svoltò a destra nella Centoquattordicesima.

Non conosceva quella zona della città, Ernesto, ma apprezzava il fatto che le sue architetture docili non lo mettessero a disagio.

La via principale, che poi pareva essere l’unica, visto che tutte le altre erano dei viottoli senza uscita, era illuminata da un doppio filare di lanterne, su entrambi i lati. Le ragazze pattugliavano i due marciapiedi con tranquillità, quasi fossero ad una comunissima passeggiata serale.

Ernesto, appiattendosi contro il vetro del finestrino, poté notare l’aspetto naturalmente seducente di quelle fanciulle, i loro fisici delicatamente perfetti, l’abbigliamento pulito ed insieme sexy ed elegante. Non c’era dubbio: il suo autista aveva scelto il posto giusto.

Molto più discrete, le ragazze di lì non assaltavano la vettura cercando di farsi trascinare via con essa, costi quel che costi, ma piuttosto parevano quasi infischiarsene. Si accorgevano della costosa ospite del quartiere con la coda dell’occhio e, distrattamente, la salutavano con un ammiccante guizzare delle dita della mano. O almeno, pensò Ernesto, erano brave a fingere così.

Dopo nemmeno un minuto in quel curioso paradiso di onesta immoralità, l’uomo in giacca e cravatta adocchiò una fanciulla, dai capelli lunghi biondi e lisci, che le arrivavano fino infondo alla schiena, la pelle chiara e due grandi occhi glaciali. Pensò dovesse trattarsi di una ragazza dell’est.

Indossava un cappottino grigio chiaro dal quale spuntava della calda pelliccia; una corta gonna attillata, rossa splendente, le copriva il sedere e le parti intime, rivelando due lunghe gambe snelle, che affondavano in un paio di stivali, rossi anch’essi, con un tacco lungo e sottile. Faceva roteare la minuscola borsetta blu scura ornata di finti gioielli di vetro colorato con una tale sensualità, che Ernesto per poco non rimase ipnotizzato da quel movimento.

Ordinò all’autista di fermarsi accanto a quella giovane meraviglia: aveva fatto la sua scelta.

Sforzandosi di apparire uomo di mondo, Ernesto la invitò a salire. La ragazza sorrise, quindi si lasciò scivolare all’interno della limousine.

Ernesto era ora palesemente nervoso, e si passava le mani l’una nell’altra, per asciugarne il sudore. La ragazza stava attendendo con un sorriso dolce e disinteressato accanto a lui, quando le domandò quale fosse la tariffa.

Candidamente, rispose che erano duecento soldi, pagamento anticipato.

Ernesto pagò subito, con uno scatto. Appena la ragazza prese la mazzetta di banconote, mettendosele nella borsetta, Ernesto riprese ad espirare ed inspirare nervosamente, nel vano tentativo di calmarsi.

La ragazza, notato il suo imbarazzo, non si scompose, non doveva essere il primo a comportarsi così in sua presenza. Gli appoggiò una mano sulla spalla, si sbottonò il giubbottino, appoggiandolo sul sedile di fronte, poi si mise a sedere frontalmente al suo cliente. Quindi, con voce calma e mielosa, gli disse:

-Va bene, allora: di cosa vuoi parlare?

Parlare. Una parola che quasi non aveva più significato in quel mondo.

Istintivamente, la mente di Ernesto corse a ritroso nel tempo, cercando l’ultima volta che quel trentunenne di successo aveva veramente parlato con qualcuno.

-Come ti chiami?- interruppe i suoi pensieri Ernesto.

-Lavinia. Ti piace?

-Molto…è il tuo vero nome?

-Certo, è a questo che serve il pagamento anticipato.

Ernesto dilatò le labbra in un sorriso nervoso, inchinando il volto in basso e verso destra, per sfuggire all’emozionante spettacolo di quegli occhi di vetro pregiato.

Per un attimo fu silenzio; Lavinia restò a guardarlo senza apprensione, lasciandogli il tempo che la sua timidezza richiedeva.

-Come è stata la tua giornata?- gli domandò poco dopo cogliendolo di sorpresa.

La sua giornata. Nessuno gliel’aveva mai chiesto.

Ernesto, lentamente, rispose alla domanda, praticando una piccola crepa nella sua naturale ritrosia. Col passare dei minuti, mentre l’auto procedeva lentamente tra tutte le vie di quella gigantesca città, la crepa si allargò, ed Ernesto divenne un fiume in piena.

Non ci volle molto, alla ragazza, a capire quale fosse il suo problema. Lo lasciava parlare, e ogni tanto commentava. E non erano sempre commenti di circostanza, banali e scontati, o accondiscendenti; dopo che la loro conoscenza fu un poco più approfondita, Lavinia si permise anche di dissentire con Ernesto su alcune cose, con educazione e gentilezza.

Nonostante ciò, quell’uomo non poteva che sentirsi stranamente a suo agio con quella bellissima estranea, che non faceva altro che il suo immorale lavoro, ma lo faceva con una tale bravura e con così tanta delicatezza, che sembrava poter ingannare le menti di tutti, così da farsi percepire con la più stretta e fedele conoscente e confidente.

Le parlò del suo lavoro, e Lavinia si trovò piuttosto interessata, e domandava maggiori dettagli, ed Ernesto, per la prima volta in vita sua, fieramente glieli forniva. Più di una volta, alla sua testa affiorò il pensiero che quella dolce puttana doveva essere stata a parlare con chissà quanti dirigenti come lui, gente che faceva il suo stesso lavoro, magari nella sua stessa società, e sicuramente doveva averne la testa piena di quei particolari tecnici, che gli stava mentendo a fingersi interessata. Ma il suo cuore scalciava e respingeva quei noiosi ed inutili dubbi in fondo allo stomaco, e si abbandonava al piacere puro e peccaminoso della conversazione.

Alla fine, dopo aver ascoltato la storia di quell’accordo con la finanziaria che Ernesto aveva chiuso praticamente da solo, contro ogni pronostico, Lavinia gli disse una frase semplice, ma che non riuscì mai più a togliersi dalla testa:

-Molto astuto, davvero.

Sorrideva, mentre lo diceva, un sorriso sincero e per nulla ironico.

Astuto. Doveva essere un complimento.

Ernesto aveva sempre pensato che i complimenti fossero parole come "bravo", "soddisfacente" o "corretto", ma quel termine che aveva usato la ragazza era diverso: prima di tutto lo aveva sentito davvero, e non era stato costretto ad immaginarlo, o a dedurlo; in secondo luogo, quella parola era penetrata sotto alla sua giacca, si era scavata un varco sotto la sua pelle pallida, e aveva trovato un posto confortevole attorno al suo cuore, scaldandolo.

Ma forse si stava illudendo, una puttana è pagata per farti piacere, anche se non te lo meriteresti.

-Lo pensi davvero?- si lasciò sfuggire Ernesto.

-Certamente. Non lo dico perché mi hai pagato, ma lo penso davvero. Se non fossi d’accordo, avrei a disposizione almeno una ventina di metodi per fartelo sapere senza lo stesso causarti un dispiacere.

Ernesto non poté che guardarla con sguardo perdutamente ammirato, mentre la limousine, tornata lungo la via delle lanterne, rallentava, fino a fermarsi a lato della strada, nel punto in cui Lavinia era entrata nella vita di quel trentenne disperato.

-L’ora è terminata.- disse, sempre sorridendo.

Riprese il suo giubbotto, se lo infilò e ne allacciò i bottoni, prima di scendere dall’auto.

Ricominciò a camminare e a far roteare la sua borsetta, come quando era stata avvistata, un’ora e due minuti prima e, quando la limousine nera metallizzata ripartì, passandole nuovamente accanto, Lavinia affidò un sensuale bacio al vento, che raggiunse il finestrino accanto ad Ernesto, ne oltrepassò il freddo vetro, ed andò a posarsi sulla sua mano destra, alzata in segno di saluto.

Una sensazione di rilassamento e di pace albergava ora sotto la pelle di Ernesto, che sprofondava nella pelle sintetica degli interni della vettura, sospirando.

Finché visse, non scordò mai quella sera, in cui una puttana gli aveva salvato la vita.

Valerio Moggia

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