martedì 3 luglio 2012

Narciso e la sua superficie - Parte I

Introduzione

Il presente lavoro nasce dall’esigenza di approfondire una tematica con cui non sono, nel corso degli studi, entrato in rapporto diretto: il mito di Narciso. Il primo scopo che si riflette nel testo è quello di proporre una visione globale, inevitabilmente riassuntiva, di alcune delle versioni e modificazioni che si sono venute a creare nel corso dei secoli. Una particolare attenzione è dedicata alle versioni più antiche conosciute, quelle di Conone e Ovidio; il passaggio attraverso esse è decisivo per comprendere anzitutto di cosa si parla e per cercare una base a partire dalla quale le complesse riflessioni successive si sono sviluppate. Come complemento, si è attraversato un breve saggio di Umberto Eco, al fine di entrare in un vocabolario e in un modo di parlare che avesse nelle percezioni, nel doppio, nello specchio, alcuni tra i punti cardine. Tale parte introduttiva è stata necessaria per avere un minimo di dimestichezza e di strumenti con cui approfondire la tematica specifica della tesina: che cosa Narciso vede nell’acqua della fonte, il rapporto con la superficie, tra sensi e immagini. Questo lavoro è stato compiuto a partire dall’intersecarsi di diverse opere letterarie prima e pittoriche poi, le quali non sono state trattate da un punto di vista cronologico, storico-artistico o letterario, ma con il solo scopo di comprendere che cosa i diversi autori e pittori vedessero riflesso sulla superficie della fonte di Narciso. L’aspetto di parzialità che ne deriva è inevitabile, così come inevitabile è l’arbitrio nella scelta delle opere da analizzare, considerando che il materiale cui attingere si dipana su un lasso di tempo di duemila anni. Pertanto non la completezza storica o teorica, quanto un primo confronto con una tematica di portata enorme è ciò che nel testo può venire alla luce.

  1. Le versioni fondamentali del mito di Narciso: Conone e Ovidio

Anzitutto sono da menzionare le circostanze di tempo e luogo in cui prende forma il mito di Narciso. Esso è certamente uno dei miti che hanno segnato la storia del pensiero, dell’arte e della cultura occidentale1, eppure le fonti letterarie a riguardo sono particolarmente recenti. La più antica fonte greca di cui vi è conoscenza rimanda a Conone2, scrittore erudito di dubbie origini ateniesi, vissuto in età augustea a cavallo tra i secoli spartiti dalla nascita di Cristo. Le narrazioni di Conone sono giunte riassunte insieme ad altri scritti nelle compilazioni di Fozio di Costantinopoli3 del IX d.C. La fonte più celebre cui si rimanda per lo studio del mito sono Le Metamorfosi di Ovidio4, ultimate intorno all’8 a.C. Data l’incertezza sulla data di stesura del testo di Conone non è possibile stabilire con parola definitiva quale delle due versioni sia antecedente, in ogni caso stupisce già questo primo dato cronologico, in quanto se è vero che la storia di Narciso rimanda a tempi più arcaici, lo stesso non può dirsi delle fonti mitografiche; si tratta di un dato non comune ad altre casistiche comparabili.

Quanto al luogo di svolgimento della vicenda, un indizio decisivo lo si ha con la genealogia di Narciso5, che rimanda quanto ai genitori al dio fluviale Cefiso e alla ninfa delle acque Lirìope. Il fiume Cefiso è situato nella Beozia, e nasce dal monte Parnaso, associato al culto di Apollo e delle nove Muse; ciò ha un’assonanza, magari arbitraria e a posteriori ma non per questo meno forte, con lo sviluppo che il mito di Narciso ha in riferimento alle arti.

Conone ambienta il suo racconto nella città di Tespie, dove nasce un giovane di bellissimo aspetto, Narciso, il quale però rifiuta di continuo i numerosi corteggiamenti che gli si rivolgono. Addirittura Narciso manda in dono a uno dei suoi corteggiatori, Aminia, un spada, affinché si trafigga e dimostri davvero il suo amore con tale estrema prova. Aminia in effetti si trafigge, non prima però di aver invocato il dio Eros per la vendetta. La punizione si palesa quando Narciso si specchia in una fonte, si innamora di se stesso e capendo l’assurdità di ciò si uccide disperato. La vicenda ha grande eco a Tespie che da allora in avanti si distingue ancor di più quale città votata al culto di Eros. Inoltre diviene credenza comune che dal sangue versato di Narciso nacque il fiore omonimo. Questo in sintesi il racconto di Conone, il quale peraltro dà ben pochi elementi di identificazione geografica ad esempio della fonte in cui specchia Narciso, e rende ancor meno semplice capire in quale epoca si svolge la vicenda, dato che il culto di Eros a Tespie è solo intensificato dalla vicenda raccontata e dunque affonda le radici in un tempo antico indeterminato, così come di poco aiuto è il riferimento all’amore greco pederotico, èros paidikòs, di cui vi è traccia sicura fin dal VII a.C.6

Non è però quella di Conone la versione del mito che più ha “fatto scuola”. Questa capacità va riferita a Ovidio, il quale inserisce nelle sue Metamorfosi un racconto di 172 versi, dove è molto complesso capire il grado di rielaborazione e reinvenzione messo in campo dal poeta rispetto alle fonti di cui disponeva e di cui si sa ben poco. Alcuni commentatori di Virgilio, come Servio Onorato che scrive nel IV d.C., alludono a possibili riferimenti del poeta di Mantova ai fiori di narciso come da leggere in chiave mitica, in una versione di cui peraltro si riesce a immaginare ben poco7. Ma anche se così fosse, cosa affatto scontata, il mito di Narciso è poco conosciuto nella Roma di Augusto. Si può immaginare che Augusto nella sua opera di rinnovamento culturale abbia creato un clima per cui erano presenti a Roma numerosi filologi e bibliotecari che hanno preso in mano il racconto di Conone o di altre fonti greche e magari ne hanno accennato a Ovidio il quale poi ha aggiunto una notevole dose di rielaborazione personale. Ma siamo nel campo delle congetture8.

Si cerca ora di proporre un breve riassunto della vicenda che si ritrova nelle Metamorfosi. Ovidio apre con un riferimento al celebre indovino Tiresia che, interrogato dalla ninfa Lirìope che le chiede un responso sulla durata della vita del bambino che ha partorito a seguito della violenza di Cefiso, sentenzia: vivrà a lungo «se non conoscerà se stesso»9. La presenza di Tiresia è già una prima novità rispetto alla versione di Conone, e verrà declinata in diversi modi nelle rielaborazioni che il mito subirà. Ovidio salta a descrivere un Narciso quindicenne che forte della sua bellezza e superbia rifiuta ogni corteggiamento provenga esso da fanciulli o fanciulle10. Narciso si distingue perché non si fa toccare da nessuno, elemento che si dovrà tenere in considerazione nella analisi che seguirà. Tra le fanciulle innamorate di Narciso un ruolo di primo piano è svolto dalla ninfa Eco, il cui uso della voce viene troncato da Giunone che la punisce in quanto con le sue chiacchiere ha tentato di distrarre la regina degli dei dalle scappatelle di Giove. Così Eco segue di soppiatto Narciso, che è turbato da una presenza che non riesce bene a localizzare e che parla ripetendo le ultime parole pronunciate da Narciso stesso. Eco tenta di abbracciare l’amato, il quale sdegnato le grida che preferirebbe morire piuttosto che darsi a lei (ancora, Narciso rifiuta ogni contatto, ogni intrusione altrui). Eco così distrutta deperirà fino ad esistere solo come voce priva di corpo. Narciso però continuando a rifiutare gli amanti si attira la maledizione, come in Conone, di uno di essi, punizione portata avanti questa volta da Nemesi. La punizione si materializza quando il giovane guarda la propria immagine in uno specchio d’acqua durante il riposo da una battuta di caccia, immagine di cui si innamora inconsapevole del fatto che si tratta del proprio riflesso. Così egli cerca di abbracciare la misteriosa creatura, di baciarla, di abbrancarla, e sembra che anche l’immagine lo voglia tanto è vero che risponde alle mosse compiute da Narciso! Ma ecco che Narciso capisce, e comprende che colui che vede altri non è che se stesso. Sembra avere quel che desidera e proprio per questo ne è irrimediabilmente distante. Narciso sofferente comincia così a battersi il petto nudo che percosso si arrossa. Non può più mangiare né curarsi di sé, e si avvia alla morte per consunzione, morte cui assiste anche Eco. Naiadi (ninfe d’acque dolci, sorelle perciò di Narciso) e Driadi (ninfe delle querce) preparano una sorta di rito funebre. Il corpo di Narciso scompare e compare un fiore bianco. Notevole l’aggiunta di Ovidio: Narciso dannato agli inferi continua a contemplare se stesso nelle acque dello Stige. Non c’è redenzione per il peccatore, verrebbe da dire.

Si è avuta la necessità di riassumere sinteticamente le due versioni più antiche del mito in modo da avere un quadro di riferimento all’interno del quale poter muovere l’analisi specifica sul tema preso qui in esame, ovvero alcune varianti che le diverse versioni del mito mostrano circa la visione che Narciso ha nella fonte. Prima di giungere al punto è però necessario inquadrare anche alcune possibili visioni simboliche generali che il racconto propone.

1 Tale riferimento al mondo occidentale si p soliti ritenerlo nel suo senso più largo e indeterminato, trattando di miti che attraversano millenni e luoghi geografici disparati.

2 M. Bettini, E. Pellizer, Il mito di Narciso. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, p.46, Einaudi, Torino, 2003

3 Conone, Narrazioni XXIV [= Fozio, Biblioteca, 186.134b. 28-135°.4], riferimento da M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p.181.

4 Ovidio, Metamorfosi III 339-510, riferimento da M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., p.182.

5 M.Bettini, E.Pellizer, op. cit., pp.46-48.

6 Ivi, pp.47-49.

7 Ivi, pp-79-82.

8 Ivi, pp. 82-85.

9 La vicenda si svolge in Aonia, regione montuosa della Beozia, e non precisamente a Tespie come era per Conone.

10 Come in Conone non v’è problema nell’ammettere tanto amanti maschi che femmine, la pratica era da considerare comune nel mondo antico greco-romano.


Andrea Togni

Nessun commento:

Posta un commento