venerdì 28 ottobre 2011

IL CINEMA DI ANDREW NICCOL

Forse il suo nome non vi dirà niente, perché non ha raggiunto certo la fama di altri colleghi suoi coetanei, forse non andrete mai al cinema appositamente per vedere una sua opera, forse non lo vedrete mai subissato di statuette alla cerimonia degli Oscar, ma Andrew Niccol è uno dei più grandi geni della storia del cinema.

Nato nel 1964 in Nuova Zelanda, ha iniziato a lavorare negli spot pubblicitari giovanissimo a Londra, prima di passare al grande schermo.

Nel 1997 scrive e dirige lo stupendo Gattaca, una meravigliosa opera che parla dell’uomo, e di come i nostri stessi geni, che in fin dei conti rappresentano la base di ciò che siamo, finiscano per diventare una limitazione. Nei geni di Vincent, il protagonista, sembra scritto il suo destino: non valido, ovvero non adatto a svolgere incarichi di una certa importanza, come l’astronauta, il suo sogno fin da bambino, a causa di una malformazione cardiaca. Un’idea piuttosto semplice, quella del mondo diviso nelle classi sociali dei sani e dei non-sani, ma trasportata in un misterioso futuro prossimo (tecnologie all’avanguardia, ma architettura e moda che ricordano gli Anni Sessanta) dove la perfezione è tutto. Cosa non molto lontana dalla realtà odierna, e Niccol lo sa bene.

Ma Vincent riuscirà nel suo sogno, riuscirà a dimostrare di essere come gli altri, superando le sue debolezze fisiche tramite l’astuzia, l’applicazione e la perseveranza. Non per niente, il suo cognome è Freeman, “uomo libero”, solo uno dei tanti tocchi di stile coi quali l’autore neozelandese delinea i suoi personaggi.

Ci vogliono cinque anni, però, prima di vederlo tornare dietro la macchina da presa, durante i quali si impegna nella realizzazione della sceneggiatura di The Truman Show, film diretto poi dal veterano australiano Peter Weir nel 1998, progetto che gli varrà diversi premi e una nomination agli Oscar come miglior sceneggiatura originale.

Un film che rappresenta un’epoca, un vero e proprio cult, nel quale Niccol si getta ancora una volta contro la cultura dell’apparenza, lanciando l’ignaro Truman Burbank (altro nome accuratamente scelto, in quanto l’unico “vero uomo” della città, mentre Burbank viene dall’omonima cittadina della California, sede di molti studios) in un reality show che occupa l’intera sua vita. Riferendosi abbastanza esplicitamente alla religione, Andrew Niccol parla sempre del suo tema preferito: la libertà dell’uomo.

La libertà di scegliere e, in definitiva, di vivere, quella negata prima a Vincent e ora a Truman, prigioniero fin dalla nascita (altro parallelo con Vincent) di qualcosa che non dipende da lui, ovvero un sadico show nel quale un individuo viene privato della sua umanità per diventare una cavia da laboratorio, sotto gli occhi attenti di un regista-dio e di un pubblico ipnotizzato, tutti colpevoli di una presupposta superiorità nei confronti del loro stesso strumento di divertimento.

A Niccol il pubblico piace davvero poco, vuoi per la sua assuefazione passiva, vuoi per quella sua malsana tendenza a glorificare ogni cosa entri in casa sua da quello schermo del salotto.

Non a caso, nel 2002 scrive e dirige S1m0ne, film arricchito dalla superba interpretazione di Al Pacino, regista in crisi che decide di creare al computer la sua nuova attrice perfetta, che finisce col diventare un’icona.

Ancora un regista-creatore, un regista-dio, a testimonianza di una critica che non manca di colpire il suo stesso mestiere; ancora una volta un’illusione, un inganno, quello della stupenda Simone (ovviamente un nome non a caso, ma frutto dell’unione delle prime lettere delle parole “simulation” e “one”), scambiata per un essere umano tanto che, quando il regista Viktor (come il professor Frankenstein) decide di porre fine alla sua esistenza, viene accusato di averla ucciso e per questo incarcerato.

Sebbene i temi siano puramente niccoliani, il finale ci presenta qualcosa di diverso: un finto lieto fine (mentre veri e propri happy ending erano quelli dei due precedenti film), dove Viktor viene scagionato, Simone ritorna in vita, ma, per mantenere l’illusione (illusione che frutta al regista e alla sua ex-moglie, nonché sua produttrice, un sacco di soldi), essa spiega la sua assenza con il parto di un figlio (anch’esso artificiale), avuto proprio da Viktor. Il protagonista, quindi, non ottiene alcun libertà nel finale, ma anzi si ritrova prigioniero ancor più di prima: rinchiuso dentro una menzogna che lui stesso ha creato e dalla quale non può più sfuggire.

Infondo, è una sorta di menzogna anche l’aeroporto nel quale resta rinchiuso il protagonista di The Terminal, scritto da Niccol e diretto nel 2004 da Steven Spielberg, un altro Viktor che si arriva negli Usa proprio mentre nel suo paese scoppia un colpo di stato, che toglie validità al suo passaporto e gli rende impossibile ottenere il visto d’entrata negli Usa. Una menzogna perché l’aeroporto è fisicamente un luogo, ma di fatto non lo è: è un non-luogo, attraversato da molti, ma abitato e vissuto da nessuno, Eccetto lui.

Lord of War, del 2005, è un’altra feroce critica alla società occidentale, che passa dagli occhi e dalle parole di un trafficante d’armi internazionale che, nonostante sia disposto ad ammettere le proprie colpe, le trova infinitamente insignificanti di fronte a quelle dei grandi trafficanti d’armi, ovvero le potenze mondiali come gli Stati Uniti, che in un anno solo trattano dieci volte tanto quello che lui riesce a fare.

Un’altra menzogna, quella di cui ci rende partecipi Andrew Niccol, la menzogna della democrazia che vende armi in tutto il mondo, ma si lamenta per le guerre e criminalizza il singolo trafficante.

E anche stavolta, il regista non risparmia di accusare noi, il pubblico, rivolgendoci direttamente la parola tramite il suo protagonista: noi che chiudiamo gli occhi e ci rifiutiamo di credere che il nostro (o i nostri) paese faccia parte di quel male che dice di combattere. Noi, infondo, siamo lo stesso pubblico che guarda che disprezza l’imperfezione, che guarda i reality show e che prega gli dèi dello spettacolo.

Valerio Moggia

1 commento:

  1. Non sapevo che tra i suoi lavori ci fosse anche The Terminal! Ho adorato quel film! Bon, pian piano mi vedo tutti i titoli che mi mancano. Bellissimo articolo!

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