domenica 25 marzo 2012

IL POSTO DE'VERGOGNOSI: ANALISI DEL CAPITOLO XVI DEI PROMESSI SPOSI- Parte III

FIGURINE INCONTRATE PER VIA- Parte II

«Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, a gambe larghe, con le mani di
dietro, colla pancia in fuori, col mento in aria, dal quale pendeva una gran pappagorgia», un
profilo ben poco dignitoso, in cui risalta, però, l’importantissima gestualità del corpo: il
portamento è gonfio, spavaldo, l’uomo ondeggia sulla punta dei piedi e sui talloni sollevando
la sua mole; Renzo non potrà fidarsi di costui, sfaccendato e senza dubbio più curioso e
impiccione che disponibile all’aiuto.
«Quell’altro che veniva innanzi, con gli occhi fissi, e col labbro in fuori», altra raffigurazione
tutt’altro che gloriosa: abbiamo di fronte un totale ebete che nemmeno a se stesso saprebbe
insegnare la strada.
«Quel ragazzotto, che, a dire il vero, mostrava d’esser molto sveglio, mostrava però d’essere
anche più malizioso», avrebbe di che divertirsi con il nostro fuggiasco, segnalandogli la via
opposta a quella richiesta.
Se vogliamo, è quella che comunemente viene chiamata la fiera del luogo comune. Troppi
sono i pregiudizi da scardinare per potersi permettere di dire che l’abito non fa il monaco. In
questo caso lo fa eccome, di fronte a fotografie del genere l’impressione che abbiamo è
esattamente quella che Renzo coglie e che l’autore vuole comunicarci.

Per una strana proprietà associativa, l’ultima figurina al vaglio passa l’esame: un omino che
cammina in tutta fretta e che parla per conto proprio. Se nulla si può obbiettare
all’intuizione «avendo probabilmente qualche affare pressante, gli risponderebbe subito»,
non altrettanto si può dire di «sentendolo parlare da sé, giudicò che dovesse essere un
uomo sincero». Nell’immaginario comune chi parla da solo o sta pregando, oppure non ha
tutte le rotelle a posto. Il commento di Angelo Stella all’edizione de I Promessi Sposi riporta
alcune posizioni a favore di questa strampalata quanto geniale intuizione di Renzo; una in
particolare, di Bellezza, mi appare convincente: «Renzo torna a casa ripetendo sempre
quelle strane parole»6. Anche Renzo, come il passante, è solito parlare tra sé. Non dovrà
dunque stupire che fra i due ci sia sintonia, né tanto meno che lui si fidi al primo colpo
d’occhio.

«Nei Promessi Sposi la gestualità è ritratta in modo […] preciso, attraverso movimenti che si
bloccano nella fissità animata di un vivente ritratto […]». Sul ritratto manzoniano molti
critici si sono fermati, ma solo di scorcio; altri hanno preferito affermare che il Manzoni fosse
per lo più disinteressato al ritratto. Il Raimondi, ad esempio, ha piuttosto studiato le possibili
controfigure storiche o letterarie di alcuni personaggi del racconto (ne Il romanzo senza
idillio, capitolo Il personaggio in cornice, p.223‐247). Partendo da questi precedenti, il
Salsano ha affrontato una indagine nell’universo della gestualità manzoniana molto
significativa: si è soffermato su alcune pose che assumono rilevante valore nel loro
collocamento. Alcune delle sue riflessioni sono particolarmente illuminanti sulla revisione
messa in atto dall’autore dal Fermo e Lucia ai definitivi Promessi Sposi:

Il Manzoni è un ritrattista felicissimo del volto e dello sguardo, con, talvolta, allargamenti agli «atti»
[…]. Volto o atteggiamento […] costituiscono il binomio fondamentale di un «montaggio» che nel
Fermo non ha luogo o risulta in modo più scialbo o indiretto.
Tuttavia, il critico ha indagato personaggi principali, ritratti e gesti molto significativi (la
bocca aperta, l’espressione degli occhi, il movimento delle mani e delle dita), tralasciando in
buona parte figurine di secondo piano come queste del XVI capitolo che invece affollano la
selva di anonimi personaggi così perfettamente resi dall’autore in un solo gesto o in una
singola espressione.

Abbiamo detto che Renzo si è scaltrito, e anche l’accortezza, sebbene approssimativa, di
scegliere un affidabile informatore è indizio di accresciuta prudenza. Fin qui tutto bene se
non fosse che, nelle ultime righe di questa seconda sequenza, ancora una volta il
personaggio tradisce la sua ingenuità. Ricevute le informazioni necessarie, risponde: «Basta
signore, il resto lo so. Dio gliene renda merito». Se non voleva destare sospetti, quest’ultimo
inciso non ha certo giovato all’intento. Difatti il frettoloso, allontanatosi un poco, si volta e
tra sé: «‐ o n’ha fatta una, o qualcheduno la vuol fare a lui ‐».
L’autore non esita a far riemergere l’incoscienza del personaggio che di lì a poco si trova in
piazza del Duomo, di fronte al convento di cappuccini nel quale l’avrebbe accolto padre
Bonaventura su raccomandazione di fra’ Cristoforo. Quale luogo più sicuro per chiedere
asilo? La tentazione è forte ma Renzo prosegue per la sua strada, con un narratore che con
sottilissima ironia, in sottofondo, commenta: «Ma, subito riprese animo, pensò: ‐uccel di
bosco, fin che si può». Togliere l’aria aperta a Renzo è come privarlo della libertà: affronta
quindi il rischio del cammino e prosegue nel suo vagabondare verso il bergamasco.
Se fra’ Cristoforo per Lucia non poteva trovare sistemazione migliore del convento di Monza,
con Renzo il religioso aveva proprio sbagliato i suoi conti. Manzoni non avrebbe potuto
scegliere due anime più lontane da congiungere in matrimonio.
L’uscita da Milano è dilatata dal narratore che, dispettoso, la fa patire per bene a Renzo: un
gruppo di gabellini e micheletti (soldati spagnoli) lo aspettano al varco. In effetti loro sono
più impegnati a controllare che nessuno dalle zone limitrofe, venuto a conoscenza del
baccano fatto per il pane, entri in città. Renzo, però, ha di che preoccuparsi, con gli sbirri alle
calcagna: la porta è a un passo, la sua aria è indifferente come quella di uno spensierato
passante, ma dentro al suo cuore la tensione esplode e si stempererà solo a qualche
chilometro di distanza.

Elisa Carati

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