La
prima bestemmia di Tobaco Steerz fu per il suo magro rancio –una
brodaglia melmosa che puzzava più dei nostri piedi-, portatogli via
da un topo.
Tobaco
Steerz, in realtà, non si chiamava davvero così, ma qualcosa tipo
Hermann o un altro nome crucco; Tobaco era il nome che aveva preso
quaggiù nei Caraibi, quando, naufragato sulla costa meridionale di
un’isola delle Antille, trovò un intero campo di piante di
tabacco. Si mise in accordi con il proprietario, un indigeno con la
pelle color arrosto bruciato, e rilevò il terreno, iniziando a
rifornire i Caraibi del suo tabacco di altissima qualità, diventando
presto il più importante trafficante di fumo della regione.
All’altro
tizio andò altrettanto bene, dopo essersi preso quattro o cinque
pistolettate da Steerz, fu recuperato da una nave sulla quale era
imbarcato un dottore, che lo imbalsamò e lo fece diventare una star
negli spettacoli di vaudeville macabre a Nancy e dintorni,
nella vecchia Europa.
Per
diversi anni, Tobaco Steerz, fu una sorta di autorità indiscussa,
rispettato sia da filibustieri che dalla Marina, tanto da farsi
costruire una capanna di canne a tre piani nella sua isola (che
divenne letteralmente sua, dopo aver dato il giusto compenso a tutti
i locali che lo richiesero, se mi capite), alla quale in molti
correvano a chiedere favori.
Poi
arrivarono gli inglesi, e portarono nel mercato la loro roba, erba
fina coltivata in Giamaica, e il regno di Tobaco Steerz andò
disgregandosi, e lui perdendo di peso nella società caraibica.
Ma, se
era finito in quella topaia umida, giù nella prigione di Antigua, lo
doveva, a suo dire, alla sua più grande invenzione: combinando
foglie di diverse piante, con una macinazione sopraffina e una carta
che si era fatto portare appositamente dall’Egitto da un suo cugino
mercante, aveva creato il più grande e potente sollazzagente della
storia, quello che lui chiamava el Grande Cigarro.
Ovviamente,
diceva sputazzando qua e là, gli inglesi non potevano permettersi
che lui mettesse el Grande Cigarro sul mercato, o avrebbero
perso il loro potere, così diedero ordine alla Marina di arrestarlo.
E,
raccontando per la quarta volta dall’inizio della mattinata quella
storia, bestemmiò per la seconda volta.
La
storia di come io capitai nel suddetto cesso con le sbarre d’acciaio,
invece, si ricollega ad un’assurda caccia al tesoro che intrapresi
più per mancanza di fondi che per reale interesse, assieme ad un
tale, Teddy Crocker-Tilly, che si credeva un pirata ed invece era
solo un cazzone.
Il suo
piano, che se noi dell’equipaggio avessimo conosciuto col cazzo che
ci saremmo imbarcati, era di andare a depredare le isole Cayman,
terra franca dove i grandi pirati del passato, un volta arricchitisi
a sufficienza, venivano a svernare e a godersi il frutto dei loro
dobloni dorati (non senza, sia chiaro, l’immancabile presenza di
ex-governtori coloniali o capitani di Marina, divenuti tutti amici
fraterni nelle isole della libertà). Quelle isole, purtroppo per lui
(e per noi), erano più protette della passera della regina di
Francia in tempo di guerra, e l’impresa si rivelò per noi un
massacro: quasi tutto l’equipaggio morì una volta scesi a terra;
di quelli che si salvarono, il capitano auto-nominato Teddy
Crocker-Tilly, in arte Barbafucsia (poiché, al momento di scegliere
il nome, quello era l’ultimo colore da barba senza copyright), fu
riportato a Bristol e impiccato per le palle, all’usanza di Haiti.
Altri due o tre, se non erro, sopravvissero alla battaglia, e
divennero probabilmente schiavi di qualche nobiluomo delle Cayman.
Io,
con il coraggio che da sempre mi contraddistingueva, scatarrai un
paio di parole in spagnolo, e mi dichiarai prigioniero politico. Non
avendo documenti con me, ma non volendo rischiare un incidente
diplomatico, i compatrioti inglesi mi scaricarono nella discarica
umana della prigione di Antigua, il cui pavimento era tappezzato
dalle carni imputridite dei miei predecessori.
Quel
fetido cane bavoso di un olandese che divideva con me quella fogna
bestemmiò ancora, ma stavolta si trattava solo di un suo modo per
iniziare un nuovo discorso.
Inizialmente
non prestai molta attenzione, finché quel topaccio rinsecchito, da
sotto quella barba di lana di vetro, blaterò di un modo per fuggire.
Disse che, prima che lo prendessero, aveva dovuto fare una consegna
speciale della sua merce su un isolotto non meglio identificato nelle
Grenadine, in quel territorio che era ormai diventato terra di
nessuno, da quando i francesi si erano accorti di avere ben altri
problemi nel loro recinto per poter anche badare a quelle palme
lontane. Stava lì, infatti, la base della banda di Guichardaz
Larroche, mangiarane puzzolente nato da qualche parte nel golfo del
Messico, che aveva assunto una certa fama nei Caraibi per essere
riuscito a comporre un più che dignitoso equipaggio solo con i
bastardi che gli erano nati dalle varie puttane dei Sette Mari.
Steerz
mi rivelò che, in cambio di una percentuale sui suoi prossimi
affari, Larroche sarebbe dovuto intervenire a liberare l’olandese
defecante in caso di arresto, e che, quindi, i rinforzi erano in
arrivo.
Non
passò molto prima che i cannoni della Bernarda Lussuriosa, la
nave di Guichardaz Larroche, iniziarono ad echeggiare nella notte di
Antigua, quasi come le note del celebre pirata-musicista Tramontana
Steves.
Buttandoci
a terra, riuscimmo ad evitare la palla di cannone che abbatté il
muro esterno della nostra prigione, aprendoci la strada per la
libertà.
Steerz,
urlando come un novizio alla sua prima scopata, si lanciò di sotto,
verso il mare. Io preferii calarmi con maggiore cautela, reggendomi
ai mattoni sporgenti della facciata esterna del carcere. Tutt’attorno
a me, cannonate e rumore di bitume che si sgretolava, qua e là
qualche urla di un figlio di un cane che veniva spazzato via da una
bombarda.
Arrivato
al termine della mia discesa, salutai per l’ultima volta Tobaco
Steerz, la cui carcassa si era volgarmente sfracellata contro gli
scogli acuminati, e mi buttai in mare, nuotando verso la libertà.
Nella
foga della fuga, se mi passate il gioco di parole tipicamente
marinaresco, mi avvidi troppo tardi di aver commesso un piccolo
errore: mi ero scordato di non saper nuotare.
Annaspando
come una vongola nell’olio sfrigolante, nel giro di pochi istanti
mi ritrovai a sprofondare inesorabilmente sul merdoso fondo del mare,
quando una sirena all’improvviso mi afferrò per il colletto della
sudicia camicia, e mi trascinò su. Il mio innato senso della
ragione, però, mi portò subito a capire che la mia benefattrice non
poteva essere una creatura fantastica, anche perché per tutta la
risalita non schiodai gli occhi da quel magnifico paio di chiappe
sode, che di simili ne avevo viste solo alcune, quando lavoravo per i
portoghesi e traghettavo giovani indossatrici dalle coste del Brasile
al porto di Marsiglia.
Vomitando
acqua salmastra, mi trascinai sul ponte di coperta della Bernarda
Lussuriosa, mentre una delle poche figlie femmine di Guichardaz
Larroche, alle mie spalle, mi mollò prima due sganassoni e poi una
slinguata per averle fissato così insistentemente il culo.
Sei tu
Tobaco Steerz, mi chiese Cariba Larroche, soffiando fuori quelle
parole da due labbra talmente carnose che, se avessi voluto, avrei
potuto usarle in tutta sicurezza come imbarcazione per tornarmene a
Portorico. Fissai i suoi occhi da gatta in calore per quasi tre
minuti, prima di accorgermi che mi avrebbe tagliato le palle se non
le avessi risposto presto. E ovviamente dissi di sì, che certa
gente, se contraddetta, è anche capace di incazzarsi.
La
nave dalle vele rosse virò, sparando altri tre colpi verso la
prigione, che ormai poteva contenere a malapena la puzza del suo
direttore, e fece dietro front, vittoriosa.
Fui
portato, allora, verso prua, e sbattuto ai piedi del glorioso
capitano Guichardaz Larroche.
Piedi…si
trattava piuttosto di due bastoni di legno piantati nelle cosce! E
non era finita qui: alzandomi in piedi, notai che entrambe le mani
del capitano erano, in realtà, due uncini d’acciaio a cinque
punte; l’occhio destro era coperto da una benda verde muschio,
mentre il sinistro era adornato con un monocolo dai bordi
fluorescenti, e gli mancava l’orecchio sinistro.
In
pratica, l’unica cosa che gli funzionava, in quell’ammasso di
protesi, era il suo ben noto batacchio, che varie voci descrivevano
ancora attivo nei bordelli più apprezzati da noi capitani di
ventura.
Conciato
com’era, non fu in grado di mettere in dubbio la mia identità,
anzi mi trattò come un socio d’affari e si mise a parlare con me
del glorioso futuro della nostra società. Parole alle quali io
risposi con dei vaghi cenni d’assenso, pensando a un modo per
cavarmi fuori da quella situazione.
Guichardaz
Larroche, muovendosi macchinosamente sulle sue due grucce, si voltò
e mi indicò la porta dall’altra parte del ponte, dicendomi che
potevo pure andare a riposarmi e mangiare qualcosa.
La sua
nave era la più terrificante imbarca-calamari che si potesse vedere
in quegli anni per i Caraibi, piena zeppa dei ricordi di ognuna delle
mille fottutissime avventure del suo capitano, dalla punta di uno
scoglio delle Bermuda, agli ombrellini da cocktail dell’Avana; il
suo equipaggio il peggio assortito guazzabuglio di filibustieri che
avesse mai solcato i mari, i già citati figli illegittimi del
capitano Larroche, nati in ogni fottutissima insenatura tra le cosce
dei Sette Mari in cui il suo piratesco uccello fosse abilmente
approdato.
Non
ebbi il tempo di abituarmi alla puzza multiculturale che si respirava
sulla Bernarda Lussuriosa, che le mani di Cariba Larroche,
alla maniera dei polipi giganti che abitavano il Pacifico, mi
agguantarono selvaggiamente, e mi trascinarono giù in cambusa.
La
giovane figlia del capitano, tenendo fede alla fama paterna, quasi
senza parlare iniziò a spogliarmi, forse sovraeccitata dall’eroismo
del salvataggio, pronta ad abusare più e più volte di me. Ed io,
ovviamente, le diedi l’impressione di avere la situazione (e non
solo quella) in mano, e la lasciai fare.
Quando
avevamo ormai fatto quasi completa conoscenza, la porta della cambusa
si spalancò, facendo emergere la figura del tremebondo Merceo
Larroche, fratello maggiore di Cariba, nonché cuoco di bordo, nonché
segretamente innamorato proprio della sorella (la quale, va detto,
non tanto segretamente si era concessa a Merceo, durante le lunghe
traversate del mare).
Colpa
della sfiga, la prole di Guichardaz Larroche poteva vantare appena
cinque donne, contro una miriade di maschi. E, a causa
dell’autarchica scelta del capitano di comprendere nell’equipaggio
solo i suoi bastardi, quelle cinque femmine erano una risorsa
preziosa e piuttosto contesa sulla nave.
L’idea
che la mia sirena dai capelli corvini e le forme predatrici avesse
già giaciuto in così tanti letti, per giunta dei suoi stessi
fratelli, non mi dava il benché minimo fastidio, tanto che mi diedi
da fare per riprendere da dove avevamo terminato. Ma Merceo Larroche,
vomitando vocaboli tra il francese e lo spagnolo dei Caraibi (che,
parola di un mio vecchio compagno di ventura, è alquanto simile alla
lingua che si può udire nei pressi del porto di Bari, nella Vecchia
Europa), sfogò tutta la sua alacre gelosia e, scagliandoci contro un
affettaporco, ci costrinse a separarci e rimandare ad altro momento i
nostri convenevoli.
Rotolando
all’indietro e ricadendo dietro al bancone, potei solo udire le
urla nella stessa ignobile lingua di Cariba, che finì per prendere
la sua pistola a sparare al fratello in pieno petto.
Merceo
Larroche fu sbalzato indietro, sfondando il muro di legno e
fermandosi contro i barili di polvere da sparo nella stiva, facendoli
cadere l’uno contro l’altro, ed innescando una reazione a catena
in tutta la stiva, fino a far cadere gran parte del contenuto
dell’ultimo barile in uno dei cannoni.
Ma il
cuoco di bordo era colpito ma non sconfitto, si rimise in piedi con
una scorreggia, mentre tutt’attorno il resto dell’equipaggio
s’affollava a scommettere sul vincitore dello scontro, e prese
un’altra mannaia dal suo cinturone.
Dal
buco che aveva fatto nella parete, si affacciò l’incazzatissima
Cariba, pronta a sparare il secondo colpo.
Merceo
non ci penso su troppo e lanciò la sua arma attraverso tutta la
stanza, centrando esattamente in mezzo agli occhi Cariba, la quale,
zampillando sangue come una fontana dalla fronte, in un cazzutissimo
spasmo muscolare, premette il grilletto, centrando in pieno la miccia
del cannone, più corta della gonna di una puttana delle Barbados.
Il
cannone sparo una bombarda che si sentì fino in Melanesia, scattando
all’indietro e colpendo Merceo Larroche. Sentii distintamente il
rumore delle sue ginocchia sbriciolarsi come una galletta spagnola,
mentre quella massa ormai informe fu sbalzata dall’altro lato della
stiva, sfondandone l’altra parte e finendo fuoribordo, in acqua.
L’odiosa
quanto violenta perdita di due dei figli più amati del capitano,
fece pericolosamente precipitare i miei rapporti col temibile
Guichardaz Larroche, il quale urlò con tutta la voce che aveva in
corpo di trascinarmi sulla passerella.
Un
essere umano sano di mente pensa a solo due cose, in un momento
simile: al vestito che sta indossando, e speriamo che per gli squali
sia giorno di riposo oggi.
Sfortunatamente
per me, sotto il bordo di quell’asse di legno cigolante si era già
formato un circolo di pescecani famelici, e la mia camicia era
sudicia e vecchia di sei mesi.
Nel
frattempo, la palla di cannone che era partita nella colluttazione di
prima, aveva attraversato il cielo dei Caraibi, in direzione di
Caracas, dove si era concessa al rocambolesco abbraccio di uno dei
galeoni della Marina spagnola, che era colato a picco come un
savoiardo nel latte.
Alla
scena assistette il pappagallo Gomez, uno dei volatili della scuderia
di Chavez Pizquàn, un balordo di Panama che aveva creato una sorta
di agenzia di informazioni dei Caraibi tramite dei pappagalli spia
sparsi in tutta la regione. Il pappagallo Gomez, in realtà a libro
paga di Larroche, svolazzò più forte che poté verso la nostra
nave, arrivando giusto in tempo per salvarmi il culo.
Distraendo
il capitano con l’avviso dell’approssimarsi della flotta della
Marina spagnola, mi diede il tempo di spostarmi dalla passerella e
mescolarmi tra la folla.
Quando
Guichardaz Larroche si voltò, non vedendomi, afferrò il primo che
si trovò a tiro e, scambiandolo per il sottoscritto, lo piombò e lo
diede in pasto agli squali. A nulla valsero le proteste degli altri
membri dell’equipaggio, come il povero Bartolomew Larroche che,
cercando di attirare l’attenzione del padre su di me, si sentì
dare del cane putrefatto e vendifratelliatradimento, prendendosi una
palla in fronte dall’inviperito genitore.
Disceso
nuovamente nella stiva, prima che i bastardi senza sbornia venissero
a farmi quel che non era riuscito a fare il capitano Larroche,
recuperai una ciambella di salvataggio, trofeo di una scorribanda
lungo le coste di Los Angeles, nella quale Larroche aveva depredato i
bungalow dei ricchi villeggianti, mi lanciai in mare, usando un pezzo
di legno come remo.
Alle
mie spalle, poco dopo, potei udire i rumori della battaglia: la
Marina spagnola doveva aver raggiunto la Bernarda Lussuriosa,
ed aveva iniziato a mettere alla prova il suo nome con i suoi cannoni
superdotati.
Non
saprei dire a chi avesse arriso la sorte, ma, considerando l’ingegno
affinato dalla difterite del capitano Larroche, la sproporzione delle
forze in campo, e il fatto che l’acqua nella quale sguazzavo si
colorò presto di un rosso scarlatto, sono portato a pensare che la
giustizia dei Caraibi avesse reclamato un altro bucaniere.
Del
Grande Cigarro non si seppe più nulla, anche se leggende
narrano di una spedizione dal Canada per recuperarlo e barattarlo in
cambio di una stufa coi vicini inglesi.
Per
quanto riguarda me, dopo quella volta mi ripromisi che mi sarei dato
alla legalità e avrei abbandonato ogni tipo di peregrinazione
marinara.
Un
mese dopo, a onor del vero, mi imbarcai come rattoppavele su di una
nave di piratesse lesbiche in cerca di misteriosi giocattoli sessuali
Inca di oro massiccio, riuscendo a farmi accettare, unico uomo a
bordo, raccontando loro di essere stato ordinato sacerdote e di
poter, eventualmente, officiare matrimoni tra le componenti
dell’equipaggio.
Ma
questa è un’altra storia.
Valerio
Moggia