sabato 21 gennaio 2012

Accenni sulla questione del tempo nella Nascita della tragedia - Parte I

Nel Tentativo di autocritica, posto in apertura dell’edizione della Nascita della tragedia, Nietzsche mette in campo una serie di interrogazioni che nel testo sono affrontate, forse la fondamentale riguarda il tema del pessimismo e della serenità presso i Greci. L’ambito di interesse di Nietzsche, studioso di filologia, è qui un tempo passato, antico. Tuttavia, se è vero che viene sviluppata una ricerca sulla nascita e le origini della tragedia, non si deve supporre che l’autore voglia farne una storia, intesa come disciplina scientificamente in formazione proprio negli anni in cui Nietzsche scrive. È rifiutata un’appropriazione dell’antichità ellenica così come proposta dalla storiografia, la quale si pone in un atteggiamento quasi giornalistico nei confronti degli avvenimenti, perdendo così il fondo profondo delle «eterne verità dell’apollineo e del dionisiaco» che il mondo greco racchiude. Un popolo mostra la propria forza in quanto sa porsi in una dimensione eterna, oltre la fatticità puntuale della mondanità, e in quanto riesce a costruire dei «baluardi mitici» in grado di comprendere le dimensioni dello Stato, dell’arte, della metafisica, di un popolo nelle sue diverse manifestazioni, nel «fiume di ciò che è senza tempo».
Non solo l’epoca ellenica, Nietzsche prende in considerazione anche il teatro tedesco che lo circonda, il quale affonda le radici nella Riforma luterana: è li che la musica tedesca fa sorgere quel primo richiamo del dionisiaco che porterà allo sviluppo della grande musica tedesca di Bach e Beethoven. Eppure è proprio la cultura tedesca ad abdicare all’imponente ruolo affidatogli dal filosofo prussiano nel momento in cui si rivolge anch’essa alle mediocri idee moderne di democrazia, di serenità ottimista circa la natura umana, una cultura nel suo fondo romantica e non dionisiaca. Più che la storia, è il mito, per Nietzsche, a doversi far carico dell’anima e del corpo di una civiltà e dei suoi uomini: «E ora l’uomo senza miti sta, eternamente affamato, in mezzo a tutti i passati, e scavando e frugando cerca radici, a costo di scavare per questo nelle antichità più remote». Il fare riferimento puramente erudito e storiografico al passato greco allora non è di alcun aiuto: se è vero che Nietzsche fa affermazioni anche sulla genesi della tragedia greca, esse non vanno intese primariamente come discettazioni storiche volte a restituire un’immagine fedele della tragedia, ma come modi di fare filosofia, di dare un fondamento metafisico a quest’arte, di coglierne le implicazioni morali ed esistenziali.
Quanta mediocrità vede Nietzsche nel bisogno potente, ma certamente non estetico, di costruire un’arte nostalgica «dell’idillio», o una «credenza in un’esistenza antichissima dell’uomo artistico e buono»! Con ciò il filosofo prussiano esprime la sua dura condanna verso ogni forma di primitivismo, volto a dare una concezione ottimistica della natura umana, magari perduta, ma che è sempre minacciosa, in quanto portatrice della pretesa che a questo uomo buono e primitivo siano riconosciuti tutti i suoi diritti. La tensione tra le weltanschauungen greca e moderna, incarnata quest’ultima per primo da Socrate, si esprime in un’«eterna lotta» che deve terminare, per Nietzsche, con l’estremizzazione del pensare scientifico moderno, in modo che questo possa essere distrutto e sostituito dalla «rinascita della tragedia». È alla musica e alla filosofia tedesca che Nietzsche spera di affidare il compito di portare ad un risveglio di quella «sapienza dionisiaca» che emerge da una profondità metafisica. Il socratismo scientifico è stato minato alle basi già da Kant, il quale ha mostrato i limiti del fare scienza, ma questo non basta. Se la storia segue la direzione che porta dai Greci ai tempi moderni e socratico-scientifici, il filosofo prussiano sente la necessità di procedere «in ordine inverso», in modo da recuperare e far rinascere lo spirito della tragedia di Sofocle ed Eschilo.
Il divenire nel tempo non è sufficiente da solo a rendere conto della realtà empirica e dell’opera d’arte. Come Nietzsche mostra circa la Trasfigurazione di Raffaello, tale divenire può essere illusione, sogno apollineo, ingenuità formante e delimitante, ma la struttura metafisica che sottende è l’«uno originario» eternamente sofferente, sottratto perciò alla dimensione temporale non solo dell’opera d’arte, ma anche dell’esperienza quotidiana. Realtà quotidiana e realtà dionisiaca si separano. Non è possibile un’inclusione della sfera sociale, politica, quotidiana nella sfera artistica: «il coro ditirambico è un coro di trasformati, in cui il passato civile e la posizione sociale sono completamente dimenticati: essi sono diventati i servitori senza tempo del loro dio, viventi al di fuori di ogni sfera sociale». Il tempo cui l’arte fa riferimento non è quello della vita, delle particolarità, delle serie di attimi. Nel parlare delle peripezie di Edipo, Nietzsche fa riferimento, con il suo linguaggio carico, a «forze profetiche e magiche» che spazzano via «l’ordine del presente e del futuro». La rappresentazione naturalistica dei caratteri, nelle diverse forma d’arte, diviene poco interessante in quanto non in grado di rendere conto dell’elemento dionisiaco ed eterno, anzi si perde nella rappresentazione scientifica di tratti particolari, comuni, discreti che non possono non portare a quel senso di mediocrità che il filosofo prussiano vede pervadere l’intera modernità. Mediocrità tratteggiata addirittura come «serenità dello schiavo», la quale non aspira a nulla di grande, non sa prendersi responsabilità che comprendano qualcosa di più della singola e particolare azione o situazione.
La lirica è spesso riconosciuta come l’arte della soggettività, dell’io che racconta i suoi sentimenti, pensieri, struggimenti. Ma secondo Nietzsche il protagonista autentico della poesia lirica non è un «uomo sveglio, empirico-reale», non sveglio nel senso che non è dedito all’uso delle facoltà mentali in modo conoscitivo, non empirico-reale nel senso di sottratto alle comuni coordinate spazio-temporali. Persino l’io della lirica è inteso dal filosofo prussiano come «veramente sussistente ed eterno, riposante sul fondo delle cose». Nella Nascita della tragedia emerge continuamente un riferimento ad una dimensione di eternità, legata sempre al dionisiaco, alla metafisica, alla musica, dove tutti questi elementi si tengono l’un l’altro come nell’uno originario, pur nella necessaria distinzione dovuta al trattarne mediante parole. La tragedia esige che oltre all’elemento dionisiaco venga esaltato anche il corrispettivo apollineo, fautore di illusioni, forme, senza che queste siano intese in senso valutativo-negativo, ma anzi come il contraltare necessario del dionisiaco. Ma l’ingenuità e la formatività delle illusioni apollinee nulla ha a che fare con un’ arte che diviene succube della particolarità della situazione sociale e civile dell’epoca in cui si viene a trovare. Lo spirito del popolo greco che pure viene espresso dalla tragedia di Eschilo e Sofocle non è da trattarsi come un qualcosa di ricorrente nel flusso di un tempo atomizzato, ma come l’emergere apollineo da un fondo unitario dionisiaco al quale è comunque destinato a ritornare. L’oggetto dell’opera d’arte vera, metafisicamente vera, è secondo Nietzsche il «nucleo eterno delle cose», la consolazione metafisica della tragedia riguarda la «vita eterna di quel nucleo di esistenza».

Andrea Togni

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