lunedì 21 novembre 2011

Storia della Neuroetica

La nascita della Neuroetica
La crescente comprensione del funzionamento del sistema nervoso centrale ha prodotto una capacità di intervenire sul cervello che oltrepassa la semplice cura di disturbi organici. La possibilità, che è venuta sviluppandosi con il progresso delle tecniche neuroscientifiche, di intervenire su un cervello considerato sano per modificarne il comportamento ha aperto scenari inattesi che hanno contribuito alla nascita della Neuroetica.
Alcuni interventi risalenti ai primi del Novecento hanno dato credito a questo timore. Ne è un esempio l’invenzione del neurochirurgo portoghese Antonio Egas Moniz che nel 1936 aveva messo a punto una tecnica, detta leucotomia prefrontale, per la cura di debilitanti malattie psichiatriche. La leucotomia prevedeva la trapanazione in vari punti del cranio e la distruzione della sostanza bianca dei lobi frontali mediante iniezioni di alcol all'interno di essi. Questa pratica consentiva una riduzione dei sintomi a prezzo, però, di apatia e mutamenti nella personalità del paziente. Tuttavia, all’epoca, effetti del genere erano considerati mali minori, tanto che a Moniz fu assegnato il Nobel per la Medicina nel 1949. La fortuna di questa nuova procedura non si arrestò e venne esportata negli Stati Uniti dal neurochirurgo americano Walter Freeman che modificò il nome da leucotomia in lobotomia. Freeman sviluppò una nuova procedura per attuare la lobotomia ambulatorialmente: perforava lo strato osseo appena sopra la palpebra utilizzando un punteruolo rompighiaccio che, poi, muoveva energicamente al fine di danneggiare il lobo frontale. Questa pratica molto in voga e famosa a quei tempi si rivelò essere estremamente dannosa per i pazienti che pretendeva di curare.
Il ripetersi di casi simili condusse, negli anni Settanta, alla nascita della Bioetica, “un sapere pratico che riflette sui limiti di liceità e illiceità degli interventi dell’uomo sulla vita, resi possibili dal progressivo sviluppo delle scienze e della tecnologia in biologia e medicina” (D’Agostino e Palazzini 2007, 9). Fu, appunto, per affrontare le difficoltà nel prendere decisioni su questioni etiche molto complicate nell’ambito della pratica clinica e della ricerca nel contesto ospedaliero che vennero istituiti i Comitati Etici Ospedalieri. L’atto di nascita di questi comitati è riconosciuto nella sentenza emessa, nel 1976, dalla Corte Suprema del New Jersey sul caso Karen Quinlan, una ragazza in coma profondo i cui genitori domandarono il distacco dal respiratore artificiale.
Per arrivare alla prima astrazione del termine “neuroeticista”, però, occorre aspettare il 1989, anno in cui i neurologi entrarono, per la prima volta, a far parte dei Comitati Etici Ospedalieri.
Il termine Neuroetica fu , invece, coniato all’interno della conferenza ‘Neuroethics: Mapping the Field’, tenutasi a San Francisco nel maggio del 2002, per indicare l’esame di ciò che è giusto o di ciò che è sbagliato , di che cosa è bene e di che cosa è male nel trattamento, nel perfezionamento, nelle intrusioni indesiderate e nelle preoccupanti manipolazioni del cervello umano.
La filosofa e neuroscienziata Adina Roskies ha proposto una partizione all’interno di questa nuova scienza:
L’etica delle neuroscienze riguarda la riflessione sulle applicazioni controverse delle neuroscienze stesse e potrebbe rientrare all’interno della Bioetica: una decisione medica, infatti, non differisce se riguarda un qualsiasi organo o il cervello così come le questioni riguardanti la privacy genetica non sono diverse da quelle riguardanti la privacy cerebrale;
Le neuroscienze dell’etica s'incentrano sulla riflessione metaetica, ovvero quella riflessione che si concentra sul ragionamento morale a partire dalle sue basi materiali. In questo caso si tocca l’essenza dell’essere umano, la sua identità personale, cosa che sembra possa avvenire solo con la manipolazione diretta del cervello.
Nel caso dell’etica delle neuroscienze si può intervenire per libero consenso del paziente oppure normativamente, cosa che non è possibile, invece, nel caso delle neuroscienze. Nel campo neuroscientifico le conoscenze, una volta rese disponibili, rivelano automaticamente i loro effetti di auto comprensione dell’essere umano, con le relative conseguenze sociali, politiche e giuridiche.
Due dei temi più importanti all’interno del dibattito neuroetico sono quelli concernenti la privacy cerebrale e il potenziamento cerebrale, ovvero il potenziamento chimico o tecnologico che non mira al ripristino di una situazione di normalità (cura) ma ha come obbiettivo l’innalzamento delle risposte emotive e cognitive.
A questo proposito si potrebbe ricadere in temi filosofici quale il libero arbitrio, lo statuto della coscienza e la concezione stessa della persona e della natura umana. Rientra appieno in dilemmi di questo genere la questione riguardante l’autonomia. Secondo la definizione classica, “ l’autonomia individuale è l’idea che si riferisce alla capacità di essere la propria persona, di vivere la propria vita secondo ragioni e motivi che sono considerati come propri e non il prodotto di forze esterne che manipolano o distorcono”. (Christman 2003)
Autonomo è, allora, chi è in grado di governare il proprio Sé senza essere influenzato da interferenze esterne, chi è in grado di decidere in che cosa credere soppesando le diverse ragioni pro e contro una determinata azione. Fondamentali nel caso dell’autonomia risultano, quindi, la consapevolezza circa le regole che ci s’impone di seguire e la riflessione razionale, ossia la capacità di valutare le norme di condotta esistenti e di scegliere con il necessario distacco quali di esse seguire.
Il nostro discorso, d’ora in avanti, si concentrerà proprio sulla difficoltà di prendere autonomamente decisioni importanti nell’eterna lotta tra emozioni e razionalità che caratterizza l’essere umano

Corinna Maria Traversa e Mariangela Lentini

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