martedì 31 gennaio 2012

Accenni sulla questione del tempo nella Nascita della tragedia- Parte II

L’arte di Nietzsche trascende l’essere storia per farsi mito. Il fatto che la modernità, termine che significa l’intera epoca che sviluppa il pensiero di Socrate, abbia sistematizzato il mito per renderlo oggetto di studio della storia non può allora che essere segno di decadenza. L’arte moderna ha abbandonato il suo essere musica, il suo essere mito, il profumo di un presentimento metafisico. La mondanizzazione che attraversa il naturalismo nelle sue infinite varianti di sviluppo per epoca e luoghi rappresenta la perdita dell’arte così come intesa da Nietzsche. «E un popolo- come del resto anche un uomo- vale solo per quanto sa imprimere sulle sue vicende l’impronta dell’eterno»: questo significa che il momento più piccolo del presente deve potersi rivelare «sub specie aeterni». Nietzsche nota nella decadenza della cultura a lui contemporanea l’atteggiamento esattamente opposto, tutto concentrato sulle piccolezze e le frivolezze di un presente che viene addirittura divinizzato. Il ritorno e la rinascita della tragedia da lui auspicati non sono allora la nostalgia per un tempo particolare e perduto, ma la volontà di riportare l’arte, l’intero popolo germanico, l’intera cultura umana, verso quell’elemento eterno che continuamente ricompare.
Anche il mondo greco è per Nietzsche caratterizzato da un invecchiamento, e soggetto perciò allo scorrere del tempo. La «serenità greca» è stata sostituita da quella «dello schiavo», questo a causa della perdita da parte dei greci della fede nell’immortalità, e perciò anche in un «passato ideale» e in un «futuro ideale»; il tempo si viene perciò a costruire nella tarda epoca greca in capriccio, arbitrio, perdita della potenza immortale del tempo tragico. L’arte dionisiaca, la musica, il mito tragico sono dal filosofo prussiano intesi come conoscenza che dà accesso all’eterno, alla vita eterna; l’arte apollinea si pone come «luminosa glorificazione dell’eternità dell’apparenza»; l’incessante mutare delle apparenze è dall’arte tragica eternamente accettato, e si può vedere in questi passi una prefigurazione della dottrina dell’eterno ritorno. Attraverso l’arte tragica è possibile «vivere in modo felice» non più come individui particolari, ma ricongiunti a un’esistenza originaria in grado di fornire un eterno piacere. Ancora, la musica autenticamente dionisiaca, non corrotta dalle successive degenerazioni, è in grado di farsi «specchio universale della volontà del mondo», in modo così da dare in intuizione la «verità eterna».
Il modo di declinare l’arte trova in Nietzsche un riflusso che interessa il modo di vivere. Il suo sguardo è anche, paradossalmente, rivolto alle generazioni future, le quali dovrebbero essere educate nello spirito tragico, in modo da abbandonare «tutte le dottrine di mollezza di quell’ottimismo» moderno disegnato attraverso un uomo buono e fiducioso per cui tutto si riduca a una conoscenza felice e senza ostacoli. Ma l’esistenza impone che non si possa fuggire, e si debba al contrario farsi carico di una sofferenza, inevitabilmente eterna, che cade sulle spalle di ognuno con tutto il suo peso, divenendo «sofferenza propria».
Il tema dell’eternità, come si è visto, è declinato nelle sue più diverse sfaccettature, riferito quasi a ogni campo dell’esistenza. Esso diviene anche caratterizzante dell’ontologia espressa nella Nascita della tragedia. Mediante la musica e la danza, il principium individuationis che rende particolare ogni singolo, lascia il posto ad una «comunità superiore», dove ognuno «sente se stesso come dio» e raggiunge l’appagamento massimo nell’unità originaria che è «armonia universale» e che si fa unità. Il dionisiaco appare come «potenza artistica eterna e originaria» in grado di dare una giustificazione dell’esistenza, la quale, essendo improntata da sofferenza eterna e tragica, necessita del velo di bellezza che l’arte di Apollo è in grado di porre. Apollo rende così la vita degna di essere vissuta, aiuta nella sopportazione del peso enorme di una metafisica che nella sua unità si pone come eterna sofferenza e che necessita perciò delle gioiose illusioni che l’apollineo fornisce. Unità significa perciò che tutto e nulla deve rientrare nel flusso eterno così designato, senza che l’esclusiva venga dato a consolatorie presupposizioni di una bontà garantita in modo inequivocabile.
«Solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati»: questo è probabilmente l’aspetto maggiormente decisivo dell’opera nietzschiana. L’arte nell’autentica e metafisica declinazione è in grado di umiliare ed esaltare, di rendersi soggetto e oggetto. La conoscenza basata sulla non contraddizione lascia il posto ad un diverso tipo di sapienza, che vede nell’eterno un suo specifico decisivo, e che è nella metafisica e non in una piccola serenità terrena che trova il suo spazio.
L’arte che disegna Nietzsche allora nulla ha che fare con l’educazione. Banale, e arrogante, è pensare che l’arte venga proposta per lo spettatore, per il suo bene, per il suo miglioramento. La continua sottolineatura della necessità di migliorare la propria persona, la propria natura, è questione imposta da tematiche sociali, da un ideale di uomo dedito alla conoscenza e al corretto vivere. Troppo poco, secondo Nietzsche, troppo poco e troppo piccolo è questo uomo che si accontenta, che perde il proprio istinto sovrano, che non è in grado di farsi carico del peso dell’esistenza che è anche eterna sofferenza. Il fatto che con Socrate e Platone la poesia e l’arte in generale siano divenute ancillae filosofiae non può che essere considerato segno di impoverimento della spirito tragico. Nietzsche pone una lotta eterna tra le concezione del mondo così come la pone l’uomo teoretico e come invece la pone l’uomo tragico, in modo da esplicitare una volta di più il rifiuto di una fede ottimistica circa la possibilità di conoscere compiutamente la natura, che d’altra parte di dà come conoscibile, e circa l’«efficacia risanatrice universale del sapere». Una conoscenza che si attua su atomi di presente perfettamente trasparenti, almeno in potenza, è allora qualcosa da tenere distante dall’arte.

Andrea Togni

domenica 29 gennaio 2012

From Hell: il meccanismo della paura (Prima parte)

From Hell è un graphic novel scritto da Alan Moore e disegnato da Eddie Campbell in dieci episodi usciti tra il 1991 e il 1996 e narra le vicende del più affascinante serial killer della storia, tale Jack lo squartatore.
 

Fatti i compiti occorre fare una precisazione, non tenterò nemmeno lontanamente di essere obbiettivo o di analizzare in modo logico quest’opera, qualsiasi cosa che sembri vagamente oggettiva è puramente casuale.
 

Questo romanzo a fumetti è, a parere di chi scrive, l’opera massima di Alan Moore ed è tranquillamente in grado di far venire gli incubi a chiunque. Angosciante e terrificante sono le prime due parole che vengono in mente per descriverlo. Durante la lettura ho sentito seriamente il bisogno di fermarmi più volte e ho dormito poco e male nei giorni immediatamente successivi.  Ora non sto dicendo che sia una specie di Necronomicon dei fumetti, quello che è sicuro è che Moore sia riuscito nell’obiettivo di creare un horror/thriller che faccia veramente paura, e non è una cosa cosi scontata. La storia di Jack, cosi come viene raccontata in From Hell è totalmente irrealistica, coinvolge magia, massoneria, esoterismo e addirittura una sorta di viaggio temporale, e allora come mai, se è cosi poco reale riesce ad essere cosi terrificante? Chi ha letto qualcosa uscito dalla penna di Alan Moore sa che la sua forza sta nella fase di documentazione che viene prima della stesura vera e propria, e in questo particolare romanzo questa sua particolarità è portata all’estremo, la documentazione sul personaggio dello squartatore ma non solo, sulla stessa storia e topografia della città di Londra fino a risalire a ben prima che portasse questo nome raggiunge uno stato quasi maniacale.
 

Leggendo si sente la sicurezza con cui vengono inseriti certi elementi, la sicurezza di chi sta raccontando dei fatti e non una storia di fantasia. Questo modo di raccontare fa si che si senta sempre più impellente il bisogno di rassicurarsi sul fatto che la storia sia inventata, ed è qui che Moore ti frega.
 

Ti frega nel momento in cui tu, stupido lettore, vai a cercare le cose più assurde che ti vengono raccontate e vai a controllarle, pensando di trovare che sono invenzioni dell’autore così da tornare nel rassicurante mondo reale. Ti frega quando tu vedi e leggi Jack tracciare delle linee rette che uniscono i luoghi dei vecchi templi pagani sul suolo di Prima dell’esistenza di Londra stessa traendone un pentacolo, e tu pensi ovviamente che sia una cavolata. Vai a prendere una cartina della città e fai lo stesso, e quello che ti scende lungo la schiena quando il pentacolo di Jack ti prende forma davanti agli occhi può solo essere un brivido freddo. Questo è solo un esempio, forse il più ovvio e meno agghiacciante dell’intera opera, ma è in questo modo che si innesca il meccanismo della paura. Facendoti dubitare della realtà, portandoti a credere che il racconto sia perfettamente plausibile in ogni sua parte, usando piccoli dettagli, piccole verità per creare una grande bugia perfettamente credibile. Un meccanismo che avanza inesorabile fino a farti pensare di non essere perfettamente in te, fino a farti dubitare della tua visione del mondo. In quel momento, dura solo un istante perché già nel momento in cui quel pensiero ti passa per la testa lo bolli come frutto della tua suggestione, perché lo sai che “è solo un fumetto”, ma è troppo tardi. Oramai l’hai pensato e lo scopo di Moore e Campbell è raggiunto, la tua realtà personale ha vacillato e fino all’ultima pagina te ne ricorderai.
 

Quando poi ci ripensi a mente fredda capisci cosa è From Hell, capisci che solo la scrittura di un genio e i disegni di un artista potevano partorire una cosa del genere, e la grandezza del puzzle e del meccanismo di terrore innescato ad arte ti si palesa.
 

Paolo Gabbiani.

venerdì 27 gennaio 2012

La giornata della memoria

Ho sentito persone che si chiedono quale sia il fine, quale la funzione della giornata della memoria. Ed io, che considero questa giornata come una di quelle più importanti dell’anno, non riesco a capirne il motivo, e per più di una ragione. La prima, e più ovvia, è che per noi è un dovere ricordare quello che è successo, fermarci a meditare che l’olocausto è realmente stato (a differenza di ciò che sostengono alcuni revisionisti), che i campi di sterminio non sono un’invenzione cinematografica ma, probabilmente, la più tremenda prova di quanto odio, di quanta violenza, di quanti morti, di quante atrocità l’uomo possa essere capace. Bisogna ricordare e tramandare alle generazioni future, perché si farà fatica a credere che simili cose siano potute accadere. Si farà fatica ad immaginare persone ridotte a morire di fame, di fatica, di freddo di percosse subite a cause di infrazioni di regole assurde, create solo per essere infrante, create per dare una "motivazione" all’omicidio. Giusto quelle volte che la si voleva cercare. Non riuscirà facile immaginare che a tali torture non erano destinati "solo" prigionieri di guerra, ma anche civili: donne, bambini, anziani nessuno era esentato dall’odio nazista. Come faranno le generazioni che verranno a poter credere a tutto ciò che è successo: alle camere a gas, ai forni crematori, alle sperimentazioni scientifiche, alle copertine di libri fatte con i tatuaggi dei deportati, alla variante del bowling dove i birilli erano persone, la pista un scalinata, la palla un macigno, lo strike una strage. A volta le immagini e i racconti sono forti, ci scuotono, quasi ci fanno venire la nausea. Ma se non ci fossero come si potrebbe in futuro credere che realmente ciò è successo? Soprattutto non dobbiamo limitarci a ricordare, abbiamo anche il dovere morale di imparare da quello che è successo. Perché a compiere l’olocausto non furono solo i gerarchi nazisti e le SS: non avrebbero mai potuto compiere simili atrocità senza il silenzioso, obbediente consenso della popolazione, ingannata con menzogne, istigata all’odio. Allora quasi nessuno ebbe il coraggio di protestare, e ciò concesse la possibilità di effettuare lo sterminio. A ormai più di sessant’anni da quei massacri non dobbiamo dimenticare e soprattutto non possiamo commettere lo stesso errore. Perché sempre più frequentemente si vedono sventolare bandiere con svastiche e croci celtiche, sempre più spesso si sente inneggiare al duce e urlare frasi razziste. È riduttiva come analisi del problema dire che tali comportamenti siano dovuti all’ignoranza (il che comunque sottolineerebbe ancora di più, se ce ne fosse bisogno, l’importanza del giorno della memoria) perché quelle persone sono base fertile per nuovi episodi di discriminazione, di violenza. Perché, purtroppo, oggi come allora c’è chi cerca di convincere il popolo che il diverso sia pericoloso, che straniero sia uguale a disonesto, che immigrato corrisponda a criminale. E da queste menzogne nasce la violenza: infatti abbiamo persone di colore uccise a sprangate al grido di "Picchiamo il negro" o ragazzine marocchine picchiate all’uscita da scuola senza che nessuno non solo intervenga, ma semplicemente chiami un’ambulanza. L’indifferenza a questi atti porta successivamente alla loro accettazione, e ciò potrebbe portare a nuovi olocausti: non pensiamo che l’uomo sia cambiato così tanto da allora, torturare persone è, purtroppo, ancora strumento di interrogatori anche in quell’occidente che si dichiara portatore di civiltà e di democrazia. Con la giornata della memoria si vuole combattere questa indifferenza, che è il più solido fondamento per ogni ingiustizia. Magari smuoverà le persone solo di un puntino, ma milioni di puntini possono cambiare il mondo.

Pietro Giuliani
Per scaricarlo clicca su: http://www.youblisher.com/p/129373-La-giornata-della-memoria/

mercoledì 25 gennaio 2012

CHE COS’E’ IL CENSIMENTO? VE LO SPIEGA UN RILEVATORE ISTAT - Parte I

1) PRIMA LA TEORIA: DEFINIZIONE. Prima di cominciare, per Censimento – termine derivante dal latino tardo censire, che significa valutare, registrare i beni dei singoli cittadini (Nuova Enciclopedia Universale, volume IV, Fabbri Editori, 1984) – s’intende la rilevazione statistica avente come obiettivo il conteggio della popolazione presente sul territorio: in Italia, si definisce Censimento Generale della Popolazione e delle Abitazione poiché il censimento delle abitazione e degli edifici viene svolto insieme al censimento della popolazione (15° Censimento Generale della Popolazione e delle Abitazione, Manuale della Rilevazione, ISTAT, 2011). Salvo l’eccezione del 1936, il c. viene condotto in Italia dal 1861 con cadenza decennale. Lo scopo della rilevazione tenutasi nell’anno appena trascorso è stato quello di “immortalare” – come se si scattasse una fotografia – la situazione demografica del territorio tenendo però conto di un periodo che faccia da riferimento alla rilevazione stessa, ovvero la mezzanotte tra l’8 ed il 9 ottobre 2011.

2) DALLA TEORIA ALLA PRATICA: L’”ADDESTRAMENTO”. Guidati dai nostri responsabili, io ed i miei colleghi abbiamo compiuto il primo approccio a questa nuova esperienza – almeno per
quanto riguarda me –, prima con incontri preliminari atti a chiarire e ad esplicare di primo acchito cosa fosse il censimento, il tutto con l’ausilio di diapositive sul computer ed infine con un corso d’aggiornamento (un vero e proprio incontro formale) presso una sede esterna al comune nel quale avrei lavorato a cui erano presenti altri colleghi provenienti dai paesi limitrofi. Inoltre, tramite il comune stesso dove ho prestato servizio, l’ISTAT aveva comunque già provveduto per tempo a fornirci i materiali di studio (consistenti in un manuale ed in vari fac-simili delle schede del censimento degli edifici, delle famiglie e delle convivenze): quindi, il corso di aggiornamento ha avuto solo il compito di fornire a noi addetti ai lavori ulteriori ragguagli e la possibilità di risolvere degli eventuali dubbi da parte nostra. Prima di cominciare, però, mancavano ancora alcuni indispensabili elementi per intraprendere questa avventura: dopo che l’ISTAT avesse provveduto ad inviarci – oltre al manuale – un account indispensabile al fine di svolgere il lavoro sulla piattaforma digitale SGR (Sistema di Gestione della Rilevazione) ed altro materiale utile alle rilevazioni sul campo (ovvero, una tracolla contenente: penna, block notes, moduli, ecc…), i nostri superiori – conferendoci il tesserino personale – ci hanno attribuito – dandoci un solenne in bocca al lupo – le zone della città (dotandoci pure delle mappe cittadine come ausilio) in cui avremmo rilevato gli edifici e censito le famiglie che non avessero compilato il modulo entro la scadenza fissata (il 21 novembre 2011). Bastava solo attendere il 9 ottobre per incominciare!

3) POI LA PRATICA: IL LAVORO SUL CAMPO. Ufficio – paese – piattaforma digitale SGR:
questo trittico di parole in un contesto comune non esprimono significato alcuno, salvo nel mio
caso. Il Centro Comunale di Raccolta (CCR), ovvero, la base operativa dove potevamo ricevere i
questionari (laddove non venivano spediti per posta o compilati on-line) e svolgere le archiviazioni in SGR, era un ufficio del comune in cui, tre alla volta, accoglievamo la cittadinanza per sei giorni alla settimana: in sostanza, il cuore di tutto il complesso. Ognuno di noi operatori svolgeva turni settimanali consistenti in tre giorni dove avrebbe lavorato in media tra le tre e le quattro ore per giorno… sebbene, in realtà, il lavoro richiedeva molto più tempo. Nei giorni liberi e nei momenti della giornata dove non avevamo l’obbligo di ricevere i cittadini dovevamo svolgere la rilevazione di tutti gli edifici a noi assegnati. Questa avveniva su una scheda sopra la quale riportavamo in sintesi l’aspetto fisico (sia esterno che interno, più altre questioni) della struttura dell’edificio, oltre ai DUG (vie, piazze, ecc…), – con relativi numeri civici – sulle quali si affaccia. Sempre per le vie del paese e qualunque fossero le condizioni meteorologiche, quando telefonicamente risultava impossibile, avevamo il compito di reperire la famiglie che non ci avevano fatto pervenire (per qualunque ragione) il questionario entro la scadenza, aiutandole personalmente nella compilazione.
Nel caso non trovavamo nessun componente della famiglia presente al domicilio si provvedeva a
mandare una lettera di ammonizione: alla terza lettera di ammonizione recitante la modalità di
restituzione del questionario presso il CCR o in altri casi particolari (quali ad esempio il rifiuto)
scattava la segnalazione al medesimo organo di raccolta, il quale l’avrebbe potuta tramutare in una vera e propria multa di diverse centinaia di euro, oltre alla possibile esclusione dalla LAC (Lista Anagrafica Comunale). Tutte queste operazioni andavano infine riportate on-line in SGR.


Andrea Danile, rilevatore ISTAT 0150070005 presso il Comune di Arconate (Mi)

lunedì 23 gennaio 2012

Verso Euro 2012: Portogallo

Storia

Non è facile praticare il calcio in un paese in cui la maggior parte dei giovani giocano a hockey su pista (15 titoli mondiali e 20 titoli europei maschili, 3 titoli europei femminili) e la cui ingombrante vicina Spagna ospita due dei club più ricchi e potenti al mondo.
Non è un caso che il football giunse ai confini occidentali dell’Europa relativamente tardi, con la prima partita ufficiale della Nazionale disputata (e persa) nel 1921, ovviamente contro i cugini spagnoli.
Poco incoraggiante fu poi l’esordio in una competizione ufficiale, alle Olimpiadi di Amsterdam 1928, con eliminazione ai quarti di finale contro l’Egitto, che faceva già presagire le scarse fortune dei successivi quarant’anni.
La prima esperienza mondiale arrivò nel 1966, quando la nazionale guidata dal fuoriclasse del Benfica Eusebio raggiunse il terzo posto, davanti alla sorpresa Corea del Nord. Prima delle nazioni europee ad estendere i propri confini con la creazione di colonie, e ultima ad abbandonarle, il Portogallo poté ottenere il salto di qualità della sua nazionale proprio grazie a giocatori naturalizzati: mozambicani erano, infatti Eusebio e Mario Coluna, due colonne della Nazionale del 1966 e del Benfica (con i due assieme, la formazione lusitana giocò quattro finali di Coppa dei Campioni, vincendone una, mentre una precedente fu vinta nel 1961 con solo Coluna tra i titolari).
Ma senza il suo giocatore più rappresentativo, il Portogallo rientrò nuovamente in un periodo di declino, complice anche la crisi qualitativa del Benfica, fino agli Europei 1984 e ai Mondiali 1986, con l’ossatura del Porto che, nel 1987, avrebbe vinto a sorpresa la Coppa dei Campioni.
Gli Anni Ottanta segnarono l’inizio dell’ascesa per il paese iberico, con i successi delle formazioni giovanili sul finire del decennio e l’inizio degli Anni Novanta, che misero in mostra i talenti di Manuel Rui Costa, Luis Figo (Pallone d’Oro 2000) e Fernando Couto, che riportarono il Portogallo ad una competizione internazionale agli Europei 1996.
Benché questi incoraggianti risultati a livello giovanile avessero fatto presagire la definitiva consacrazione, i campioni portoghesi continuarono a rendere meno del previsto in nazionale, in una squadra fatta di forti individualità, ma scarsa coesione, e con evidenti carenze a livello realizzativo. Esempio lampante la punta Pedro Pauleta, pluripremiato bomber nella Ligue1 con le maglie di Bordeaux e Paris Saint-Germain, ma assolutamente inconcludente in nazionale.
Ad ogni modo, il Portogallo va consecutivamente ai Mondiali dal 2002, e agli Europei dal 1996, compresa la deludente prestazione casalinga del 2004, quando la due clamorose sconfitte con la Grecia costarono il titolo continentale agli uomini di Scolari.
Nel frattempo, il Porto ha sostituito il Benfica come più quotata squadra portoghese nelle coppe internazionali, con due trionfi nella Coppa Uefa/Europa League e una nella Champions League, con il lancio di un’intera generazione targata José Mourinho, da Deco a Paulo Ferreira, da Maniche a Ricardo Carvalho.

Il cammino verso Euro 2012

La formazione portoghese risente di quanto detto sopra, troppi giocatori di livello nei medesimi ruoli, come a centrocampo, dove Miguel Veloso (Genoa), Raul Meireles (Chelsea), Pedro Mendes (Sporting Lisbona), Tiago (Atletico Madrid) e Joao Moutinho (Porto) affollano la lista del ct Paulo Bento.
Ma sono i più giovani quelli sui quali i tifosi sono disposti a puntare, primo su tutti Fabio Coentrao del Real Madrid, laterale sinistro messosi in mostra agli ultimi Mondiali. Se la Spagna è carne e muscoli costruiti sulle ossa del Barcellona, il Portogallo è costruito sul Real Madrid, con il mastino difensivo Pepe e la stella Cristiano Ronaldo, Pallone d’Oro 2008, bomber e fuoriclasse leggermente eclissatosi dopo l’ascesa di Leo Messi. Ma non va dimenticato l’apporto dell’ala sinistra Nani (Manchester United), assente per infortunio agli scorsi Mondiali.
Cammino non esaltante nelle qualificazioni, nelle quali il Portogallo ha esordito con un rocambolesco pareggio interno per 4 a 4 contro la modesta Cipro, una squadra senza alcun giocatore militante in campionati stranieri e con un unico giocatore di livello internazionale, quel Michalis Konstantinou che si è visto all’opera nell’attacco del Panathinaikos dal 2001 al 2005.
Cominciato male e proseguito peggio con la sconfitta per 1-0 in Norvegia, gol dell’ex-Bari Erik Huseklepp.
La risalita è passata da cinque vittorie consecutive contro Danimarca, Islanda (battuta sia all’andata che al ritorno), Norvegia e Cipro, ottenute con risultati larghi e ottime prestazioni, che hanno visto Ronaldo e Nani trascinatori a suon di gol.
Ultima sfida del girone, in casa della pari merito Danimarca, che, però, ha riservato l’inattesa sorpresa della sconfitta per 2-1, che qualificò gli scandinavi come primi del gruppo H e mandò il Portogallo agli spareggi.
I soli 16 punti raccolti nelle qualificazioni hanno impedito alla squadra allenata da Paulo Bento di accedere direttamente alla fase finale del torneo come migliore seconda (premio che è andato alla Svezia, con 18 punti), e l’hanno costretta ad una sfida all’ultimo sangue contro la Bosnia del centravanti Edin Dzeko, che ha chiuso la prestazione interna a reti inviolate, per poi subire un pesante 6-2 in terra lusitana.

Partite del Portogallo agli Europei

Euro ’84: I gir. Germania Ovest – Portogallo 0-0
II gir. Spagna – Portogallo 1-1
III gir. Portogallo – Romania 1-0
SF. Francia – Portogallo 3-2

Euro ’96: I gir. Danimarca – Portogallo 1-1
II gir. Portogallo – Turchia 1-0
III gir. Croazia – Portogallo 0-3
QF. Repubblica Ceca – Portogallo 1-0

Euro 2000: I gir. Portogallo – Inghilterra 3-2
II gir. Romania – Portogallo 0-1
III gir. Portogallo – Germania 3-0
QF. Turchia – Portogallo 0-2
SF. Francia – Portogallo 2-1

Euro ’04: I gir. Portogallo – Grecia 0-1
II gir. Russia – Portogallo 0-2
III gir. Spagna – Portogallo 0-1
QF. Portogallo – Inghilterra 2-2 d.t.s. 6-5 d.c.r.
SF. Portogallo – Olanda 2-1
F. Portogallo – Grecia 0-1

Euro ’08: I gir. Portogallo – Turchia 2-0
II gir. Repubblica Ceca – Portogallo 1-3
III gir. Svizzera – Portogallo 2-0
QF. Portogallo – Germania 2-3

sabato 21 gennaio 2012

Accenni sulla questione del tempo nella Nascita della tragedia - Parte I

Nel Tentativo di autocritica, posto in apertura dell’edizione della Nascita della tragedia, Nietzsche mette in campo una serie di interrogazioni che nel testo sono affrontate, forse la fondamentale riguarda il tema del pessimismo e della serenità presso i Greci. L’ambito di interesse di Nietzsche, studioso di filologia, è qui un tempo passato, antico. Tuttavia, se è vero che viene sviluppata una ricerca sulla nascita e le origini della tragedia, non si deve supporre che l’autore voglia farne una storia, intesa come disciplina scientificamente in formazione proprio negli anni in cui Nietzsche scrive. È rifiutata un’appropriazione dell’antichità ellenica così come proposta dalla storiografia, la quale si pone in un atteggiamento quasi giornalistico nei confronti degli avvenimenti, perdendo così il fondo profondo delle «eterne verità dell’apollineo e del dionisiaco» che il mondo greco racchiude. Un popolo mostra la propria forza in quanto sa porsi in una dimensione eterna, oltre la fatticità puntuale della mondanità, e in quanto riesce a costruire dei «baluardi mitici» in grado di comprendere le dimensioni dello Stato, dell’arte, della metafisica, di un popolo nelle sue diverse manifestazioni, nel «fiume di ciò che è senza tempo».
Non solo l’epoca ellenica, Nietzsche prende in considerazione anche il teatro tedesco che lo circonda, il quale affonda le radici nella Riforma luterana: è li che la musica tedesca fa sorgere quel primo richiamo del dionisiaco che porterà allo sviluppo della grande musica tedesca di Bach e Beethoven. Eppure è proprio la cultura tedesca ad abdicare all’imponente ruolo affidatogli dal filosofo prussiano nel momento in cui si rivolge anch’essa alle mediocri idee moderne di democrazia, di serenità ottimista circa la natura umana, una cultura nel suo fondo romantica e non dionisiaca. Più che la storia, è il mito, per Nietzsche, a doversi far carico dell’anima e del corpo di una civiltà e dei suoi uomini: «E ora l’uomo senza miti sta, eternamente affamato, in mezzo a tutti i passati, e scavando e frugando cerca radici, a costo di scavare per questo nelle antichità più remote». Il fare riferimento puramente erudito e storiografico al passato greco allora non è di alcun aiuto: se è vero che Nietzsche fa affermazioni anche sulla genesi della tragedia greca, esse non vanno intese primariamente come discettazioni storiche volte a restituire un’immagine fedele della tragedia, ma come modi di fare filosofia, di dare un fondamento metafisico a quest’arte, di coglierne le implicazioni morali ed esistenziali.
Quanta mediocrità vede Nietzsche nel bisogno potente, ma certamente non estetico, di costruire un’arte nostalgica «dell’idillio», o una «credenza in un’esistenza antichissima dell’uomo artistico e buono»! Con ciò il filosofo prussiano esprime la sua dura condanna verso ogni forma di primitivismo, volto a dare una concezione ottimistica della natura umana, magari perduta, ma che è sempre minacciosa, in quanto portatrice della pretesa che a questo uomo buono e primitivo siano riconosciuti tutti i suoi diritti. La tensione tra le weltanschauungen greca e moderna, incarnata quest’ultima per primo da Socrate, si esprime in un’«eterna lotta» che deve terminare, per Nietzsche, con l’estremizzazione del pensare scientifico moderno, in modo che questo possa essere distrutto e sostituito dalla «rinascita della tragedia». È alla musica e alla filosofia tedesca che Nietzsche spera di affidare il compito di portare ad un risveglio di quella «sapienza dionisiaca» che emerge da una profondità metafisica. Il socratismo scientifico è stato minato alle basi già da Kant, il quale ha mostrato i limiti del fare scienza, ma questo non basta. Se la storia segue la direzione che porta dai Greci ai tempi moderni e socratico-scientifici, il filosofo prussiano sente la necessità di procedere «in ordine inverso», in modo da recuperare e far rinascere lo spirito della tragedia di Sofocle ed Eschilo.
Il divenire nel tempo non è sufficiente da solo a rendere conto della realtà empirica e dell’opera d’arte. Come Nietzsche mostra circa la Trasfigurazione di Raffaello, tale divenire può essere illusione, sogno apollineo, ingenuità formante e delimitante, ma la struttura metafisica che sottende è l’«uno originario» eternamente sofferente, sottratto perciò alla dimensione temporale non solo dell’opera d’arte, ma anche dell’esperienza quotidiana. Realtà quotidiana e realtà dionisiaca si separano. Non è possibile un’inclusione della sfera sociale, politica, quotidiana nella sfera artistica: «il coro ditirambico è un coro di trasformati, in cui il passato civile e la posizione sociale sono completamente dimenticati: essi sono diventati i servitori senza tempo del loro dio, viventi al di fuori di ogni sfera sociale». Il tempo cui l’arte fa riferimento non è quello della vita, delle particolarità, delle serie di attimi. Nel parlare delle peripezie di Edipo, Nietzsche fa riferimento, con il suo linguaggio carico, a «forze profetiche e magiche» che spazzano via «l’ordine del presente e del futuro». La rappresentazione naturalistica dei caratteri, nelle diverse forma d’arte, diviene poco interessante in quanto non in grado di rendere conto dell’elemento dionisiaco ed eterno, anzi si perde nella rappresentazione scientifica di tratti particolari, comuni, discreti che non possono non portare a quel senso di mediocrità che il filosofo prussiano vede pervadere l’intera modernità. Mediocrità tratteggiata addirittura come «serenità dello schiavo», la quale non aspira a nulla di grande, non sa prendersi responsabilità che comprendano qualcosa di più della singola e particolare azione o situazione.
La lirica è spesso riconosciuta come l’arte della soggettività, dell’io che racconta i suoi sentimenti, pensieri, struggimenti. Ma secondo Nietzsche il protagonista autentico della poesia lirica non è un «uomo sveglio, empirico-reale», non sveglio nel senso che non è dedito all’uso delle facoltà mentali in modo conoscitivo, non empirico-reale nel senso di sottratto alle comuni coordinate spazio-temporali. Persino l’io della lirica è inteso dal filosofo prussiano come «veramente sussistente ed eterno, riposante sul fondo delle cose». Nella Nascita della tragedia emerge continuamente un riferimento ad una dimensione di eternità, legata sempre al dionisiaco, alla metafisica, alla musica, dove tutti questi elementi si tengono l’un l’altro come nell’uno originario, pur nella necessaria distinzione dovuta al trattarne mediante parole. La tragedia esige che oltre all’elemento dionisiaco venga esaltato anche il corrispettivo apollineo, fautore di illusioni, forme, senza che queste siano intese in senso valutativo-negativo, ma anzi come il contraltare necessario del dionisiaco. Ma l’ingenuità e la formatività delle illusioni apollinee nulla ha a che fare con un’ arte che diviene succube della particolarità della situazione sociale e civile dell’epoca in cui si viene a trovare. Lo spirito del popolo greco che pure viene espresso dalla tragedia di Eschilo e Sofocle non è da trattarsi come un qualcosa di ricorrente nel flusso di un tempo atomizzato, ma come l’emergere apollineo da un fondo unitario dionisiaco al quale è comunque destinato a ritornare. L’oggetto dell’opera d’arte vera, metafisicamente vera, è secondo Nietzsche il «nucleo eterno delle cose», la consolazione metafisica della tragedia riguarda la «vita eterna di quel nucleo di esistenza».

Andrea Togni

giovedì 19 gennaio 2012

Verso Euro 2012: Danimarca

Scheda di presentazione della seconda squadra del gruppo B: la Danimarca.



Storia

Quando si parla di Campionati Europei di Calcio e di Danimarca non si può non pensare al trionfo nell’edizione del 1992, ai 20 eroi di Göteborg che realizzarono un’impresa tra le più incredibili e inaspettate della storia del calcio, paragonabile in questo senso solo all’altrettanto incredibile successo della Grecia nel 2004.
In realtà, nonostante la maggior parte degli appassionati tenda a ricordare unicamente quell’exploit, bisogna dire che la Danimarca ha sempre avuto un discreto feeling con gli europei, partecipando a sette edizioni su tredici della fase finale e raggiungendo altre due semifinali. La prima partecipazione dei danesi a una fase finale dell’Europeo risale al 1964. A quell’epoca la nazionale di calcio danese, pur avendo ottenuto prestigiosi successi ai Giochi Olimpici, non era ancora riuscita a qualificarsi a un mondiale. Nel ’64 si disputò la seconda edizione dell’Europeo, organizzata e vinta dalla Spagna. In quell’edizione, e fino al 1976, la fase finale prevedeva unicamente le semifinali e le finali. La Danimarca riuscì a classificarsi tra le prime quattro favorita da un sorteggio decisamente benevolo: nei tre turni precedenti infatti i danesi affrontarono Malta, Albania e Lussemburgo! Giunti alla resa dei conti, però, due sconfitte, contro l’Unione Sovietica in semifinale e poi contro l’Ungheria relegarono la Danimarca al quarto posto finale. Vent’anni dopo i danesi parteciparono al loro secondo europeo. Rispetto alla prima esperienza era sicuramente una Danimarca diversa che due anni dopo avrebbe finalmente fatto il suo debutto al Mondiale. A Euro ’84 i danesi seppero eguagliare il risultato di vent’anni prima, perdendo in semifinale e chiudendo al terzo posto ex/aequo con il Portogallo (per la prima volta non venne infatti disputata la finale per il 3°/4° posto). L’approdo in semifinale fu possibile grazie alle due vittorie nel girone eliminatorio contro Belgio e Yugoslavia, che seguirono l’iniziale sconfitta contro i padroni di casa e futuri campioni della Francia. Fu la Spagna a infrangere i sogni di gloria danesi, in una partita conclusasi ai calci di rigore. Dopo le ottime prestazioni offerte nelle prime due partecipazioni, la Danimarca non riuscì a ripetersi nell’edizione del 1988 in Germania Ovest. I nordici furono molto bravi a qualificarsi ai danni della Cecoslovacchia, ma terminarono la loro corsa già nella prima fase del torneo, complice un girone molto difficile con Germania Ovest, Italia e Spagna.
Arriviamo così alla trionfale edizione del 1992. Il trionfo danese in quell’edizione svedese degli Europei ha davvero il sapore della più bella delle favole, soprattutto perché la Danimarca a quell’Europeo non doveva neppure esserci. Il format a 8 squadre del torneo prevedeva necessariamente che diverse squadre molto forti rimanessero escluse dalla fase finale, e le speranze danesi erano state spezzate in fase di qualificazione dalla Yugoslavia per un solo punto di differenza. Se non che, a soli 10 giorni dall’inizio del torneo la Fifa decise di squalificare la Yugoslavia da tutte le competizioni internazionali a seguito dello scoppio della terribile guerra civile che avrebbe insanguinato per anni il territorio slavo. La Danimarca, seconda classificata nel girone di qualificazione, venne quindi invitata a prenderne il posto. Il ct Moller-Nielsen fu costretto a richiamare in fretta e furia i giocatori, molti dei quali erano già in vacanza, per partecipare all’Europeo. Se a ciò aggiungiamo che il giocatore più rappresentativo, Michael Laudrup allora in forza al Barcellona, aveva dato momentaneamente l’addio alla nazionale per divergenze con l’allenatore, è facile capire come mai nessuno considerasse la Danimarca come una delle possibili favorite del torneo. L’inizio sembrò rispettare le previsioni. I danesi pareggiarono all’esordio 0-0 contro l’Inghilterra e nel match successivo furono sconfitti per 1-0 dai padroni di casa svedesi. Nulla lasciava presagire un cambiamento di rotta per una squadra che non era ancora riuscita a segnare una rete. Invece, contro tutti i pronostici, la Danimarca sconfisse nell’ultima giornata della fase a gironi la Francia per 2-1 con le reti di Larsen e Elstrup e, grazie alla rocambolesca vittoria in rimonta della Svezia sugli inglesi, centrò un’insperata qualificazione alle semifinali. Fu allora che cominciò a realizzarsi il “miracolo danese”. In semifinale l’avversario era l’Olanda campione d’Europa in carica dei vari Van Basten, Rijkaard, Gullit, Bergkamp. La partita terminò con uno scoppiettante 2-2 e si trascinò ai calci di rigore. Qui il portierone danese Schmeichel parò il tiro decisivo di Van Basten portando i suoi ad una storica quanto inattesa finale. Nell’atto conclusivo del torneo, che si disputò a Göteborg, i danesi si trovarono di fronte i tedeschi che solo due anni prima si erano laureati campioni del mondo. Ancora una volta furono sovvertiti tutti i pronostici: i danesi giocarono una partita perfetta dal punto di vista difensivo e vinsero 2-0 con gol di Jensen e Vilfort, laureandosi campioni d’Europa per la prima volta nella loro storia. L’effetto di questo trionfo si spense presto: la Danimarca non si qualificò al mondiale del 1994 e all’Europeo successivo del ’96 in Inghilterra si fermò nella prima fase a gironi eliminata da Portogallo e Croazia. Le prestazioni danesi ai campionati europei andarono via via peggiorando: dopo la disastrosa esperienza del 2000 in Belgio e Olanda (tre sconfitte nella fase a gironi senza segnare neppure un gol) arrivò ancora un quarto di finale agli Europei di Portogallo nel 2004 (quelli del celebre “biscottone” con la Svezia ai danni dell’Italia) a cui fece seguito la mancata qualificazione nell’ultima edizione del 2008. Per la prima volta dopo sei partecipazioni consecutive, la Danimarca era assente da una fase finale dell’Europeo.

Nel corso della sua storia il calcio danese ha comunque offerto diversi giocatori di talento: ricordiamo tra gli altri Allan Simonsen (unico danese a vincere il Pallone d’Oro nel 1977), Preben Elkjær Larsen (uno dei protagonisti dello storico scudetto dell’Hellas Verona del 1985), l’attuale ct della nazionale Morten Olsen, Michael Laudrup riconosciuto da molti come uno dei giocatori più talentuosi di sempre, ha vestito le maglie di Juventus, Barcellona, Real Madrid, e in anni più recenti giocatori come Peter Schmeichel che detiene il record di presenze in nazionale (129), Martin Jorgensen e Jon Dahl Tomasson che detiene il record di marcature in nazionale con 52 gol.

Il cammino verso Euro 2012

La Danimarca ha conquistato il diritto a partecipare al suo ottavo europeo in Polonia e Ucraina al termine di un appassionante testa a testa con il Portogallo nel gruppo H di qualificazione. Un testa a testa che si è risolto solo all’ultima giornata con la vittoria nello scontro diretto di Copenhagen dell’11 ottobre scorso per 2-1, in quello che è stato un vero e proprio spareggio per il primato nel girone. E dire che l’inizio non era stato per nulla promettente. I danesi avevano cominciato con la soffertissima vittoria sull’Islanda strappata nei minuti di recupero a cui aveva fatto seguito la brutta sconfitta di Oporto per 3-1. Da lì in poi però i danesi hanno infilato cinque vittorie nelle restanti sei partite (l’unico pareggio l’1-1 in Norvegia), centrando meritatamente la promozione diretta alla fase finale. Una curiosità: anche nel girone di qualificazione ai mondiali del 2010 la Danimarca aveva duellato con i portoghesi con lo stesso esito finale (e in entrambe le circostanze peraltro il Portogallo si è poi qualificato battendo la Bosnia nei play-off).

Tra i giocatori più conosciuti e attesi a Euro 2012 ci sono sicuramente in difesa Daniel Agger del Liverpool e Simon Kjær attualmente in prestito alla Roma dal Wolfsburg; a centrocampo i veterani Martin Jorgensen e Christian Poulsen e il “ragazzino terribile” dell’Ajax Christian Eriksen, classe 1992; in attacco i due nomi più importanti sono sicuramente quelli di Niklas Bendtner dell’Arsenal attualmente in prestito al Sunderland, e Dennis Rommedahl, capocannonieri della squadra nel girone di qualificazione con 3 reti. Altri nomi da tenere a mente sono quelli di Michael Krohn-Dehli, Thomas Kahlenberg e del portiere Thomas Sorensen.

Sicuramente le quotazioni della squadra danese ai prossimi europei non sono molto alte, anzi visto il gruppo nel quale è stata sorteggiata – il gruppo B, il girone della “Morte” con i vicecampioni del mondo dell’Olanda, La Germania e il solito Portogallo – viene da dire che ai danesi servirebbe un’impresa degna degli eroi di Goteborg anche solo per passare il primo turno. La mia previsione è che purtroppo i nordici non hanno chances di qualificarsi ai quarti di finale e rischiano seriamente di chiudere all’ultimo posto nel girone.


Le partite della Danimarca agli Europei:


Euro ’64 SF Danimarca – URSS 0 – 3

F 3/4 Ungheria – Danimarca 3 – 1 dts


Euro ’84 I gir. Francia – Danimarca 1 – 0

II gir. Danimarca – Yugoslavia 5 – 0

III gir. Danimarca – Belgio 3 – 2

SF Spagna – Danimarca 1 – 1 dts (5 – 4 ai calci di rigore)


Euro ’88 I gir. Danimarca – Spagna 2 – 3

II gir. Germania Ovest – Danimarca 2 – 0

III gir. Italia – Danimarca 2 – 0


Euro ’92 I gir. Danimarca – Inghilterra 0 – 0

II gir. Svezia – Danimarca 1 – 0

III gir. Francia – Danimarca 1 – 2

SF Olanda – Danimarca 2 – 2 dts (4 – 5 ai calci di rigore)

F Danimarca – Germania 2 – 0


Euro ’96 I gir. Danimarca – Portogallo 1 – 1

II gir. Croazia – Danimarca 3 – 0

III gir. Turchia – Danimarca 0 – 3


Euro 2000 I gir. Francia – Danimarca 3 – 0

II gir. Danimarca – Olanda 0 – 3

III gir. Danimarca – Rep. Ceca 0 – 2


Euro 2004 I gir. Danimarca – Italia 0 – 0

II gir. Bulgaria – Danimarca 0 – 2

III gir. Danimarca – Svezia 2 – 2

QF Rep. Ceca – Danimarca 3 – 0

martedì 17 gennaio 2012

OBESITA’ vs ANORESSIA?

Molte volte leggiamo commenti di ragazze in sovrappeso, che scrivono sui social network o dicono in giro “grasso è bello, preferisco essere cicciona e felice che magra e triste” o "le magre non hanno seno e curve” o ancora "anche se una è grassa può avere un bel viso ed essere bellissima”. Queste sono solo alcune delle affermazioni che si possono sentire o leggere, affermazioni che escono dalle bocche di persone che poi si mettono costantemente a dieta per essere più magre.
Un errore, molto grave per me, che viene commesso per ignoranza o invidia, è quello di definire le magre “anoressiche”, dando poco peso a questa parola, che definisce una malattia molto grave. Per chi non ne fosse a conoscenza l’anoressia è una malattia psicologica. Può nascere per i più svariati motivi, e se non dovesse essere presa in tempo, e ben curata con la collaborazione del paziente, porta addirittura alla morte. Perciò io definirei l’utilizzo di questa parola in modo improprio un’offesa, soprattutto nei confronti delle persone che purtroppo ne soffrono.
Il problema non è chi difendere o come essere; non tutti abbiamo la stessa costituzione o lo stesso metabolismo! L’unica cosa che possiamo fare è curare il nostro corpo al meglio, evitando gli estremi del sovrappeso eccessivo o dell’anoressia: infatti entrambi sono da considerarsi due estremi negativi e dannosi.
La soluzione migliore è quella di arrivare a mantenere il proprio peso forma. Questo bisognerebbe dire ogni volta che si parla di questo argomento, non sentire magre che si battono contro grasse o viceversa, perché né anoressia né obesità, proprio come tutti gli eccessi, devono essere difese.
L’aspetto fisico è poco rilevante in tutto questo, perché in fondo la bellezza è soggettiva, perciò penso sia inutile tirare fuori il discorso della bellezza in modo improprio.
Il messaggio che voglio far passare qui è di smetterla di giudicare e criticare gli altri per l'aspetto fisico solo perché diverso dal nostro, e di cercare di seguire una dieta regolare e salutare, fare attività fisica per poter essere in salute e dentro i parametri del nostro peso forma; non per poi essere tutti uguali, ma per essere TUTTI sani! Come in inverno tutti andiamo in giro con abiti pesanti per proteggerci dal freddo e non ammalarci, così tutti dobbiamo seguire una dieta sana per evitare al nostro corpo di avere aumenti o diminuzioni di peso eccessivi, che in entrambi i casi finiscono per essere inevitabilmente dannosi.

Serena Testa

Per concludere il discorso, ci sentiremmo di riassumere brevemente quanto detto sinora: dalle parole di Serena intuiamo, e chiaramente appoggiamo, l'idea che nella lotta tra obesità e anoressia non deve esserci un vincitore. Tra i due litiganti il terzo gode, si dice. Allora che vinca la salute, la cura di se stessi, perché in entrambi i casi è presente un disagio che porta a trascurarsi e a lasciarsi andare, ad arrendersi, in un certo senso.
Evitiamo allora di generalizzare e banalizzare, usare termini fuoriluogo per situazioni che non possono neanche lontanamente essere accostate a questo tipo di malattie: è importante anche la sensibilizzazione ad un corretto uso del linguaggio, per evitare di fare di tutta l'erba un fascio ed paragonare circostanze completamente diverse.
Non è facile parlare senza trovarsi nella situazione, e forse il discorso è utopico, perché sembra impossibile eliminare del tutto casi come questi, legati appunto a motivi anche sociali e psicologici. Ma parlarne, anche brevemente, può essere importante per suscitare almeno una riflessione su problemi che, insieme a molti alrti, troppo spesso vengono trascurati, proprio perché "non mi riguardano".

domenica 15 gennaio 2012

Verso Euro 2012: Germania

In occasione degli Europei di calcio della prossima estate, presentiamo una breve descrizione delle nazionali partecipanti con storia, curiosità ecc. Presenteremo inoltre il cammino di qualificazione di ogni nazionale, indicando i giocatori più importanti, e un pronostico sulle prestazioni. Si comincia col gruppo B e più precisamente con la Germania

Storia
La nazionale di calcio tedesca gioca la sua prima partita ufficiale il 5 aprile 1908 contro la Svizzera. I tedeschi vennero sconfitti per 5 a 3.
Fino alla seconda guerra mondiale la Germania non ottiene grandi risultati eccetto un terzo posto ai mondiali 1934, ma nel secondo dopoguerra diventa una delle nazionali più forti del mondo vincendo tre mondiali (1954, 1974, 1990) e collezionando moltiissimi terzi e quarti posti. Ma è negli europei che la Germania fabbrica record su record. La nazionale tedesca è prima si per partecipazioni(10, quella del 2012 sarà l'undicesima) sia per vittorie (3). L'avventura teutonica nei campionati europei comincia nel 1972 alla quarta edizione. Non deve sorprendere più di tanto il fatto che la Germania abbia saltato le prime tre edizioni infatti dal 1960 al 1976 la formula della fase finale degli europei prevedeva unicamente le semifinali e le finali per il primo e per il terzo posto.
Come dicevamo nel 1972 la Germania Ovest(quella dell'Est non prese mai parte ad un Europeo) giocò i suoi primi europei in Belgio.
La semifinale fu proprio contro i padroni di casa. Gerd Muller segnò una doppietta e i tedeschi vinsero per 2 a 1. In finale trovarono l'URSS e anche in quell'occasione Gerd Muller fu decisivo. Sue furono infatti due delle tre reti con le quali i tedeschi sconfissero senza possibilità di replica i sovietici laureandosi per la prima volta campioni d'Europa. Quattro anni dopo la nazionale tedesca fu nuovamente protagonista agli europei giocati in Jugoslavia. In semifinale giocarono proprio contro i padroni di casa. Alla fine del primo tempo i tedeschi sembravano già fuori. Gli slavi giocavano meglio ed erano in vantaggio per 2 a 0. Ma nel secondo tempo i tedeschi pareggiarono e mandarono la gara ai supplementari. Lì con due reti di Dieter Muller vinsero l'incontro andando in finale dove avrebbero trovato la Cecoslovacchia.
La partita finì ancora 2 a 2 e stavolta non bastarono nemmeno i supplementari per decretare la vincitrice del torneo si assistette così per la prima volta in un europeo ai calci di rigore. Il dischetto non premiò la Germania che perse 5 a 3 e arrivò seconda.
Gli anni '80 cominciarono ancora nel segno dei teutonici. Nel 1980 si svolsero gli europei in Italia con una formula nuova: due gironi da quattro, le prime classificate accedevano alla finalissima le seconde si sarebbero scontrate per il terzo posto. La Germania Ovest aveva un girone difficile con i campioni d'Europa della Cecoslovacchia e i vicecampioni del mondo dell'Olanda. La terza squadra era la Grecia squadra materasso. Con due vittorie nelle prime due gare contro i cechi (1-0) e gli olandesi( 3-2) la Germania giocò la terza partita già sicura della finale e non andò oltre un pari contro la nazionale greca. In finale incontrò il sorprendente Belgio che era riuscito a primeggiare in un girone con Italia, Spagna e Inghilterra. La corazzata tedesca vinse per 2 a 1 pur non senza difficoltà. I tedeschi erano nuovamente sul tetto d'Europa prima squadra a vincere il titolo per due volte. I successivi europei Gli europei del 1984, che videro un ulteriore cambiamento di formula (ovvero due gironi prima di semifinali e finali. FU abolita la finale per il terzo posto) non furono molto favorevoli alla Germania che non superò il girone, perdendo la terza e decisiva partita contro la Spagna.
Gli europei successivi si giocarono nel 1988, proprio in Germania Ovest: i tedeschi superarono il girone eliminatorio, ma si bloccarono in semifinale perdendo contro l'Olanda.
Nel 1992 in Svezia la Germania superò con qualche difficoltà il girone eliminatorio finendo seconda alle spalle dell'Olanda. In semifinale trovò la Svezia padrona di casa che superò per 3 a 2. In finale trovò la danimarca vera sorpresa del torneo, che però non sembrava in grado di battere i campioni del mondo in carica. Invece la sicurezza dei tedeschi fu punita e i danesi vinsero con un perentorio 2 a 0. Nei successivi europei inglesi del '96 i tedeschi vinsero il girone con Russia, Repubblica ceca e Italia, ottenendo 7 punti su 9. Nei quarti vinsero 2 a 1 contro la Croazia e in semifinale trovarono l'Inghilterra. La partita si risolse ai rigori con la vittoria tedesca. In finale la Germania ritrovò la Repubblica Ceca di Nedved. Nel girone la partita si era chiusa con un 2 a 0 a favore dei teutonici ma da allara i cechi erano cresciuti e infatti passarono in vantaggio al 58° trasformando un rigore. Una decina di minuti dopo entrò un giovane giocatore per la Germania: Oliver Bierhoff. Fu la svolta, il giovane calciatore prima firmò il pareggio e al 95° segnò il 2 a 1 finale. La Germania divenne così la prima (e fin'ora unica) squadra a vincere tre Europei. Le edizioni 2000 e 2004 furono fallimentari per la Germania che non vinse nemmeno una partita e segnò complessivamente solo 4 reti. Negli ultimi europei di Austria e Svizzera i tedeschi conquistarono la finale battendo Portogallo e Turchia nei quarti e in semifinale in avvincenti partite entrambe terminate 3-2, ma poi dovettero arrendersi alla Spagna.
La nazionale tedesca ha regalato grandi momenti della storia del calcio e ha donato a questo sport grandi giocatori come Beckenbauer, Gerd e Dieter Muller, Rumenigge, Brheme, Matthaus, Klinsmann, Voller, Klose e numerosi altri.

Il Cammino verso Euro 2012

La spina dorsale di questa squadra nelle qualificazioni ai prossimi europei è formata da tre giocatori: Il portiere Manuel Neuer, il difensore Philip Lahm e l'attaccante Thomas Muller tutti e tre attualmente in forza al Bayern Monaco, questi sono i giocatori che hanno disputato tutte le partite di qualificazione. Ma un contributo fondamentale lo ha dato Miroslav Klose che è anche il capocannoniere della Germania nelle fasi di qualificazione con 9 reti segnate. In più al giocatore della Lazio mancano 5 reti per raggiungere il record di Gerd Muller (68).
Altri giocatori importanti della Germania che probabilmente vedremo scendere in campo in Ucraina/Polonia sono Holger Badstuber, Per Mertesacker per la difesa; Mesut Ozil forte di cinque reti nelle qualificazioni, Bastian Schweinsteiger e Sami Khedira per il centrocampo; Mario Gomes Lukas Podolski e Andrè Schurrle per l'attacco.
Entriamo nel merito del girone di qualificazione: la Germania era stata sorteggiata nel gruppo A insieme ad Austria, Azerbaigian, Belgio, Kazakistan e Turchia. Il cammino è stato esaltante: 10 vittorie in 10 partite segnando 34 reti. In sole due partite la Germania ha segnato meno di tre gol:alla prima giornata contro il Belgio(1-0) e un 2-1 contro L'Austria. Da segnalare sono le vittorie per 6-1 contro l'Azerbaigian e un 6-2 contro l'Austria. Anche nelle retrovie la nazionale tedesca si è comportata bene subendo solo 7 reti e solo nella già citata vittoria con l'Austria ne ha subito più di 1 gol in una sola partita. Escludendo Polonia e Ucraina è stata la prima nazione a qualificarsi per gli europei nell'ormai pluricitata vittoria con l'Austria(6-2 il 2/9/2011) con due turni d'anticipo. Il distacco sulla Turchia seconda classificata è di 13 punti.
Nonostante queste impressionanti statistiche l'allenatore Joachim Low è rimasto coi piedi per terra dichiarando:"[Qualificandoci avendo vinto tutte le partite] non significa nulla: sono i titoli che contano".
Ed infatti il titolo europeo è ancora molto lontano e il gruppo B nel quale è stata sorteggiata si preannuncia difficilissimo, poichè dovrà incontrare Olanda, Portogallo e la Danimarca che già in passato ha fatto qualche scherzetto ai tedeschi. In ogni caso è difficile fare un pronostico per la Germania, in quanto nella sua storia ha dimostrato di saper recuperare situazioni critiche ma anche di perdere da strafavorita. Guardando alla Germania di oggi si vede un buon mix di esperienza e gioventù e poichè nessuno ha mai vinto nulla con la nazionale c'è grande fame di vittoria; sicuramente la Germania è una delle pretendenti al titolo, e credo che possa arrivare tra le prime quattro ma vedo difficile una vittoria finale.

Partite della Germania agli Europei:

Euro '72: SF. Germania Ovest-Belgio 2-1
FGermania Ovest-URSS 3-0

Euro '76: SF. Jugoslavia -Germania Ovest 2-4 dts
F. Germania Ovest Cecoslovacchia 2-2(3-5 dcr)

Euro '80: I gir. Cecoslovacchia-Germania Ovest 0-1
II gir. Germania Ovest- Olanda 3-2
III gir. Grecia-Germania Ovest 0-0
F. Germania Ovest-Belgio 2-1

Euro '84:I gir. Germania Ovest-Portogallo 0-0
II gir. Germania Ovest-Romania 2-1
III gir. Germania Ovest-Spagna 0-1

Euro '88:I gir. Germania Ovest-Italia 1-1
II gir. Germania Ovest-Danimarca 2-0
III gir. Germania Ovest-Spagna 2-0
SF. Germania Ovest-Olanda 1-2

Euro '92:I gir. Germania-CSI 1-1
II gir. Germania-scozia 2-0
III gir. Germania-Olanda 1-3
SF. Svezia-Germania 2-3
F. Danimarca-Germania 2-0

Euro '96:I gir. Germania-Rep. Ceca 2-0
II gir. Germania-Russia 3-0
III gir. Germania-Italia 0-0
QF. Germania-Croazia 2-1
SF. Germania-Inghilterra 1-1 (6-5 dcr)
F. Germania-Rep. Ceca 2-1

Euro 2000: I gir. Germania-Romania 1-1
II gir. Germania-Inghilterra 0-1
III gir. Germania-Portogallo 0-3

Euro '04: I gir. Germania-Olanda 1-1
II gir. Germania-Lettonia 0-0
III gir. Germania-Rep. Ceca 1-2

Euro '08: I gir. Germania-Polonia 2-0
II gir. Germania-Croazia 1-2
III gir. Germania-Austria 1-0
QF. Germania-Portogallo 3-2
SF. Germania-Turchia 3-2
F. Germania-Spagna 0-1

venerdì 13 gennaio 2012

LE NUOVE FRONTIERE DELL’ETICA

I recenti progressi del campo di ingegneria genetica e, in particolar modo, di interventi genetici su geni e gameti ci spingono a studiare attentamente non solo lo statuto morale e etico di tali sviluppi della scienza, ma anche i suoi effetti sulla società.
Nel tentativo di delineare con sufficiente chiarezza i problemi che sono sorti e che potranno sorgere nei prossimi anni e i dubbi che l’uomo – e in particolare il filosofo – è chiamato a risolvere, non si darà spazio, in queste poche pagine, alle risposte e ai possibili scenari, che verranno, invece, proposti nei successivi articoli.

Se la democrazia -intesa come l’intende l’Europa degli ultimi dieci anni- guarda al progresso e spinge ad esso ‘democratizzando la società’, è anche vero che questo processo va di pari passo con una crescita della libertà individuale, soprattutto in termini di etica. Tutti i bambini sono obbligati ad andare a scuola, a sottoporsi a controlli medici e vaccinazioni, ma, d’altra parte, l’individuo può scegliere liberamente di divorziare, di usufruire dei recenti sviluppi della chirurgia plastica, di prendere delle decisioni sui propri comportamenti sessuali. La democrazia si avvia a un progresso che si basa su un benessere più o meno orizzontale, e per questo è necessario che più individui possibili partecipino attivamente alla società, in un modo o nell’altro. Più individui usufruiscono del benessere, più individui lavoreranno per la società e, di conseguenza, il benessere aumenterà. Naturalmente questo meccanismo è assolutamente insufficiente a descrivere le vere dinamiche in gioco, anche quelle di questo modello di democrazia un po’ approssimativo, ma credo che ci basterà per capire le problematiche che sorgono con gli interventi genetici. Arriviamo subito al dunque: chi deve scegliere se intervenire sui geni di un possibile embrione? L’individuo o la società? Ovvero: i genitori o i medici?
Supponiamo che la vostra risposta sia: l’individuo, quindi i genitori. Ma ne siete proprio sicuri? Lasciare all’individuo una simile scelta, vorrebbe dire non avere, innanzitutto, nessun potere per arginare i capricci dell’uomo. Se due genitori avessero la possibilità di manipolare geneticamente il proprio figlio a loro rischio e pericolo, e quindi pagando privatamente la struttura di fiducia, questo vorrebbe dire:

1. Non avere nessun controllo sulla società
2. Rischiare di dividere e separare con un vuoto incolmabile due parti della società (quelli che possono permettersi gli interventi genetici- e quindi i ricchi- saranno anche i vincitori delle partite di calcio, i più bravi alunni a scuola, i più sani, insomma i ‘primi’ della vita, mentre i poveri continueranno ad avere figli disabili, o anche solo figli con una memoria normale, o che hanno bisogno degli occhiali per leggere)
3. Privare i ‘fragili’ del massimo supporto da parte della società (è chiaro che se su 100 bambini, 20 sono disabili, la società risponde in modo diverso rispetto al caso in cui su 100 bambini solo 1 è disabile - sia a livello di preparazione economica e infrastrutturale, sia a livello di preparazione umana e professionale)

Supponiamo ora che la vostra risposta sia: lo stato, ovvero i medici. Vi siete forse dimenticati i risultati e le conseguenze dell’eugenetica del secolo scorso? Anche senza arrivare a considerare il nazismo, che riuscì a peggiorare anche i più immorali programmi eugenetici, credete forse che i vecchi mezzi dell’eugenetica del Nord America e dell’Europa (sterilizzazione forzata, imposizioni su scelte riproduttive) siano leciti? Se sì, allora pensate a che cosa potrebbe comportare il fatto che lo stato si prenda la responsabilità di decidere chi deve sottoporsi a interventi genetici (con l’obiettivo di evitare la nascita di individui disabili che, oltre a implicare costi per la società, avranno sicuramente una vita piena di limitazioni, dolori e sofferenza):

1. La creazione di una società priva di disabilità (pensate che sia solo positivo?!)
2. L’impossibilità da parte di un genitore di decidere liberamente e quindi di seguire la sua particolare morale (che può, per esempio, essere influenzata da aspetti religiosi)
3. La creazione di un ‘Brave new World’ a tutti gli effetti

A questo punto, forse, è necessario fare un passo indietro e chiederci: è lecito manipolare gameti, geni, embrioni? Che cosa comporterebbe la risposta ‘sì’?

1. Non permettere l’esistenza di individui (nel momento in cui manipolo il gene di un individuo, avrò forse lo stesso individuo che avrei avuto prima? Non è forse il gene l’essenza -a livello biologico- dell’individuo?)
2. Infrangere il diritto di esistere di questi individui
3. La creazione di un ‘Brave new World’ a tutti gli effetti

Che cosa presuppone questo ‘sì’?

1. Che ci sentiamo pienamente responsabili sulla vita dell’individuo che sta per nascere, a tal punto che decidiamo sulla sua vita in modo irreversibile
2. Che ci arroghiamo il diritto di decidere quale vita è ‘degna di essere vissuta’ e quale no
3. Che pensiamo che ‘sofferenza’ sia peggio di ‘non essere’ (se pensiamo che l’individuo geneticamente modificato non sia più l’individuo di prima) o di ‘non sofferenza’ (se pensiamo che, al contrario, l’individuo continui a essere se stesso anche dopo l’intervento genetico). Credo che la questione iniziale sia quella di decidere se gli interventi genetici siano semplici ‘cure’ (come una vaccinazione o un intervento chirurgico agli occhi) oppure se debbano essere visti come impedimenti per l’esistenza di individui. Una volta chiarito questo passo, dovremmo poi chiederci su che basi possiamo decidere se una vita può essere degnamente vissuta. Ma questo non basta: non vi sembra che il tipo di discriminazione (o selezione) che tale scelta comporta sappia di ‘regressione morale’ ?
Forse sarà meglio cercare -innanzitutto- di capire qual è il vero gioco che si sviluppa aldilà della questione morale: un gioco di interessi che confliggono e che non sono mai univoci. Qual è l’interesse della società? E della democrazia? E dei genitori? Ma, soprattutto, quali diritti ha l’individuo prima di entrare a far parte a tutti gli effetti della società?

Vera Matarese originale su https://sites.google.com/site/phiperfilosofia/le-nuove-frontiere-dell-etica

mercoledì 11 gennaio 2012

LA CULTURA COME CATEGORIA POLITICA Parte II

Nell’ambiente anglosassone si è formata la distinzione tra politics, policy e polity, che insieme danno vita al concetto di political, intendendo con ciò il rapporto necessario, con esiti pubblici potenzialmente vincolanti, dei diversi fini di coloro che compongono l’aggregato umano considerato: il political corrisponde quindi al rapporto necessario tra l’ambito coattivo (politics) che studia ciò che riguarda il potere, la sua influenza, la sua legittimità e la sua applicazione pratica nei partiti e nelle architetture politiche; la dimensione dell’aggregazione di fini, policy, secondo cui il fine della comunità scaturisce dalla pluralità dei fini intermedi, (in italiano lo traduciamo con politiche pubbliche); ed infine l’ambito umano che crea l’identità nazionale (polity).
L’incontro tra cultura e politica può generare la cultura politica, l’insieme dei valori che la cultura porta alla politica o la politica della cultura, che raggiunge esiti politici per fini culturali. Esempi di politiche della cultura sono il “J’accuse” di Emile Zola, articolo pubblicato sulla rivista “L’Aurore”, in cui l’intellettuale francese denuncia l’ingiustizia dell’affaire Dreyfuss, ufficiale ebreo condannato per aver aiutato i tedeschi nella guerra franco-prussiana: l’ufficiale, sostiene Zola, è il capro espiatorio dell’eccessivo patriottismo e dell’odio nei confronti degli ebrei, che si era sviluppato in tutta Europa nella seconda metà del XVIIIsec. Nasce un nuovo ruolo dell’intellettuale, di denuncia nei confronti delle ingiustizie con la volontà di ricercare la verità.
Un discorso analogo può essere svolto per Patocka, intellettuale ceco, che fonda la Charta 77 per denunciare il partito comunista ceco, reo di non rispettare il patto di Helsinki e violare i diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti gli individui: con la Charta 77 associazione libera ed informale che si propone di ricercare un dialogo con il potere, Patocka denuncia soprattutto l’assenza di libertà di religione, associazione, sciopero, opinioni, espressione, comunicazione e circolazione che si trova nel suo Paese e spera di poter fondare una nuova Cecoslovacchia, basata sulla responsabilità e il rispetto dei diritti universali. Il cinese Xiaobo riprende l’idea dell’intellettuale ceco, con la Charta 08, diffusa su internet nel 2008, anniversario della dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, tramite la quale vengono denunciate le storture di un Paese, la Cina, prima potenza mondiale, ma incapace in tutta la sua storia di dimostrare rispetto dei diritti civili. Xiaobo, proponendo un modello occidentalistico di valori, sostiene la necessità della tutela delle libertà espresse già nella Charta 77 e chiede il ridimensionamento del ruolo del partito comunista in Cina, che detiene tutt’oggi il monopolio in tutti i campi, non permettendo il dialogo e l’opposizione all’interno della nazione: solo eliminando la mentalità da suddito, che ha da sempre caratterizzato la storia della popolazione cinese, e formando una mentalità da cittadino, si possono raggiungere quegli obiettivi di libertà, uguaglianza ed opportunità che Xiaobo si propone.
Il rischio che si corre quando si ricopre un ruolo di denuncia è la politicizzazione della cultura e l’incapacità di denunciare i mali del proprio partito, come sostiene Raymond Aron ne “L’oppio degli intellettuali”: in un periodo, come quello successivo alla seconda guerra mondiale, in cui il comunismo appariva agli europei come il vento del cambiamento e Sartre era diventato paladino di questa ideologia, Aron seppe coraggiosamente andare contro-corrente, criticando i mali compiuti dai regimi comunisti, non così diversi dalle dittature di destra: in entrambi il romanticismo della violenza rivoluzionaria continuava a vivere. Il ruolo scomodo di Aron si esplica chiaramente nello slogan dei sessantottini francesi: “meglio aver torto con Sartre che ragione con Aron”: per questo la sua opera è da ritenersi un vero esempio di cultura non politicizzata, che si propone l’obiettivo di diffondere valori condivisibili e fare della cultura la base del nostro vivere civile, perché come abbiamo visto nei totalitarismi denunciati da Harendt e Orwell, ma anche nella partitocrazia criticata da Weil, quando la cultura manca, si perdono di vista le vere priorità, dimenticando che il partito e la politica più in generale non devono avere come fine quello di accrescere il proprio potere, ma piuttosto creare un momento e un luogo di condivisione e comunicazione intersoggettiva di valori.

>>FEDE

lunedì 9 gennaio 2012

Il locus di controllo e scelte intertemporali

La tendenza a ritenere controllabili gli eventi differisce da individuo ad individuo e secondo Rotter (1966) o le persone percepiscono un legame tra il loro comportamento e i risultati ottenuti, o al contrario non percepiscono alcun legame. Questa particolare disposizione mostra come gli individui tendono a valutare un certo esito come il risultato dell’intervento positivo della fortuna, del fato o del caso, oppure come un esito sotto il controllo di altre persone o solo imprescindibile. Da qui la scissione tra persone che pensano di avere un controllo sui loro destini, e quindi dimostrano di possedere un locus di controllo interno, e quelli che pensano che la fortuna o l’altrui volontà determini l’orientamento del proprio destino manifestando quindi un locus di controllo esterno.
In realtà non esiste una distinzione così netta tra gli individui. In effetti, seppur sia presente in ciascuno una tendenza per un locus di controllo interno o esterno, sono molto rari i casi in cui queste due tendenze sono espresse in modo estremo. In questo senso, non sempre le persone con una tendenza per un locus di controllo esterno sottostimano le loro possibilità di controllare gli eventi della vita e non sempre persone con una tendenza per un locus di controllo interno pensano di poter controllare tutti gli eventi che accadono loro: molto dipende anche dalle circostanze, dalle aspettative e dall’evento che l’individuo deve affrontare.
Partendo indicativamente da questa differenziazione di condotta dei singoli, Rotter tracciò una “teoria dell’apprendimento sociale”, sostenendo che il locus di controllo dipenda strettamente dall’aspettativa degli individui verso il mondo. Se il locus dell’individuo è interno, l’atteggiamento del singolo di fronte agli eventi della vita sarà poco arrendevole e molto determinato nel cercare di raggiungere obiettivi e mete che egli percepisce cadere sotto il suo controllo. Il singolo si sentirà maggiormente responsabile delle sue azioni e avrà maggiori possibilità di successo. Proprio chi è più intelligente tende a manifestare un locus interno e a percepire gli eventi esterni come tutti soggetti al proprio controllo, favorendo l’acquisizione di maggiore consapevolezza delle proprie competenze e un maggiore padroneggiamento degli eventi che li coinvolgono. Differentemente gli individui che sviluppano un locus esterno presentano un atteggiamento più passivo rispetto agli accadimenti dell'esistenza e saranno presumibilmente più orientati ad accettare gli eventi anche quando potrebbe intervenire efficacemente nel modificarli. Non solo, ma da un punto di vista delle relazioni interpersonali, alcuni autori sostengono che sia maggiormente adattivo possedere un locus di controllo interno piuttosto che esterno. Infatti si è visto come la percezione di essere prevalentemente controllati da persone potenti si accompagni spesso ad un sentimento di sfiducia negli altri, mentre, al contrario, un comportamento di attenzione e soccorso nei confronti degli altri sembra sia caratteristico degli individui con un locus di controllo interno.

Un’ulteriore distorsione relativa al controllo delle proprie decisioni si verifica nelle scelte intertemporali, ovvero scelte che manifestano una sistematica tendenza umana a sottovalutare gli esiti presenti rispetto a quelli futuri. Un esempio è la “preferenza miope” di Loewenstein e Thaler (1989). I due studiosi evidenziano come i soggetti sembrano più disposti ad aderire ai suggerimenti se vengono apportate a loro prove visivamente evidenti (es: i pazienti sono più propensi ad abbandonare una prolungata esposizione ai raggi solari nel momento in cui i medici sottolineano la possibilità di in estetismi cutanei piuttosto che cancro).
Ma in che modo le neuroscienze potrebbero modificare il modello che descrive le scelte intertemporali?
Nel libro “Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali” di F.Babiloni, V. M. Meroni e R. Soranzo, pubblicato nel 2007 dall’editore Springer, si è mostrato come gli esseri umani sembrino essere gli unici tra i viventi a preoccuparsi di fare sacrifici immediati tenendo presente le conseguenze future. Prima di tutto si afferma che la capacità di pensare alle conseguenze future è tanto importante che le preferenze temporali vengono messe in relazione con l’intelligenza. Secondariamente, molte persone sembrano effettuare scelte miopi quando si trovano sotto l’influenza di forti emozioni. Infine si potrebbe cercare di distinguere gli individui in base alla loro forza di volontà volta ad evitare tutti quei comportamenti guidati dall’instintività.
Un modello così delineato potrebbe aiutare a comprendere non solo l’impulsività ma anche casi limite come gli alcolisti che non riescono a fare a meno di bere e le persone così dette shopaholics che, anche incorrendo in ristrettezze economiche, non smettono di fare acquisti.
La Neurotica risulta essere proprio quella disciplina che attraverso esperimenti neuroscentifici si focalizza su microaspetti della razionalità dell’uomo, fornendo una visione fragile della natura umana oscillante tra diversi piani morali, razionali ed emozionali.
Nella contrapposizione tra razionalità ed emozioni non possiamo esimerci dal ricordare che quando si parla di controllo della sfera emozionale, non s’intende semplicemente evitare di “lasciarsi andare”, ma anche riuscire ad emozionarci un po’ di più, qualora tendessimo ad essere troppo cerebrali.
In luce a quanto è stato analizzato possiamo formulare un vero e proprio training personale di addestramento alla razionalità e alle emozioni ricercando un potenziamento delle nostre capacità. Quando ci accorgiamo di essere vittime delle emozioni potremmo cercare di spostarci sul razionale anche con dei semplici stratagemmi, concentrandosi per esempio su dei piccoli particolari, come dettagli o colori di un quadro, o perfino recitando delle tabelline numeriche.
Per diventare invece meno razionali, e spesso più piacevoli, occorre un lavoro preparatorio, che dà risultati meno immediati: bisogna imparare a rilassarsi, a concentrarsi sulle proprie sensazioni fisiche e mentali, ad abituarsi a provare piacere per le proprie percezioni.
Provare per credere!

Mariangela Lentini e Maria Corinna Traversa

sabato 7 gennaio 2012

The elder scrolls III: Morrowind



Ed eccomi di nuovo qui con una recensione di un gioco che ha sul groppone la bellezza di 9 anni. Con l’uscita del recentissimo e blasonato Skyrim, che è il quinto capitolo di questa serie,  di cui parlerò più avanti, ho pensato che meritasse una piccola rispolverata. Soprattutto alla luce di come è cambiata la serie in questi anni e del perché morrowind sia ancora giocatissimo e con una community di fan molto attiva.

Detto ciò questa potrebbe tranquillamente essere la recensione più breve della storia, bastano tre parole per dare una definizione esauriente di questo gioco: è un capolavoro.

Andiamo con ordine, per gli “eretici” che non hanno la più pallida idea di che cosa io stia parlando The Elder Scrolls è la saga di gdr (gioco di ruolo) fantasy più famosa nel panorama video ludico, è composta allo stato attuale di ben cinque capitoli: Arena (1994), Daggerfall (1996), Morrowind (2002), Oblivion (2006), Skyrim (2011). Per ulteriori informazioni sulla saga fatevi pure un giro qui : http://www.elderscrolls.com
 
Passiamo ora nello specifico a parlare di questo Morrowind. Bethesda softworks ha sempre avuto un idea abbastanza particolare di come vada fatto un gdr, invece che concentrarsi su una singola storia epica che trascini il giocatore dall’inizio alla fine preferisce creare un vero e proprio mondo di gioco free roaming in cui muoversi liberamente che dia una sensazione quanto più vicina all’immersione totale. Morrowind è sviluppato esattamente in questo senso. Come tutti gli Elder Scrolls comincia con un protagonista in manette. Questa volta ci hanno trasportato via nave fino alla lontana Vvardenfell, enorme isola vulcanica situata al centro della provincia imperiale di Morrowind  e patria d’origine dei Dunmer (gli elfi scuri). Qui veniamo inspiegabilmente rilasciati su ordine dell’imperatore Uriel Septim VII in persona. (per chi avesse giocato oblivion, si proprio lui.) Una volta rilasciati nella poco ridente cittadina di Seyda Neen la libertà che ci viene offerta è pressoché totale, possiamo letteralmente andare ovunque, parlare con i cittadini farci dare quest alla locanda, vendere o comprare oggetti all’emporio oppure andarcene semplicemente a zonzo fino a raggiungere la città più vicina. 

 
L’intera mappa che vedete qui sopra è interamente esplorabile e piena di quest da intraprendere e dungeon da depredare. Esiste una trama principale o una main quest se volete chiamarla cosi, e non è affatto male da seguire ma a discrezione del giocatore questi può anche tranquillamente ignorarla e dedicarsi a operazioni più remunerative per il suo personaggio.  Morrowind è una provincia in tumulto, si è mal adattata alla pax imperiale e sono ancora forti le tradizioni dunmer, nel particolare sull’isola di Vvardfendel governano tre grandi casate gli Hlaalu, i Redoran e i Tevlani. Il giocatore potrà unirsi a una di queste tre casate ognuna con la sua particolare filosofia e la sua propria questline. Inoltre sono presenti all’interno del mondo di gioco numerose fazioni grandi e piccole come le gilde imperiali dei guerrieri, dei maghi oppure dei ladri, o ancora l’associazione di assassini tradizionale di morrowind la morag tong e altre ancora. Se a tutto questo aggiungiamo l’esistenza di vari credi religiosi a cui ci si può unire e la possibilità di diventare un vampiro abbiamo un’idea abbastanza buona di quale sia l’enorme grado di libertà d’azione offerto da questo gioco. Cosa che viene ulteriormente ampliata dalle due espansioni ufficiali: Tribunal, che permette di visitare la capitale della provincia, Mournhold ; e Bloodmoon che ci porta nella ghiacciata isola di Solstheim. Insomma ce n’è veramente per tutti i gusti.

Ora veniamo al dunque, perché parlare di un gioco uscito nel 2003 adesso. Questo Morrowind è inanzitutto, a parere di chi scrive, il migliore della serie, sorpassa Oblivion su quasi tutti i fronti a parte la grafica e batte anche il neonato Skyrim in quanto non presenta la quantità allucinante di bug riscontrati in quest’ultimo pur mantenendo un mondo ricco di possibilità e una storia piuttosto interessante. Secondariamente Morrowind è forse il capitolo della saga con la community di modder più attiva.

Ma andiamo con ordine. Cos’è un mod? Beh la Bethesda Softworks ha una filosofia particolare per quanto riguarda i suoi giochi, tende a regalare assieme al videogame in questione, perlomeno sulla versione pc, un utility che permette di modificare il gioco in questione in quasi ogni sua parte, il che ha creato una vera e propria community sul web dedita a creare nuove quest, nuovi personaggi o restyling più o meno totali dei suoi giochi. Nel caso di Morrowind si possono trovare centinaia di questi mod sul web, mi permetto di indicarvene uno, che poi è il motivo per cui ho deciso di parlare di questo vecchio gioco ora. Si tratta di una collection di mod che migliorano la resa visiva del gioco messa insieme da un team italiano, i risultati sono sorprendenti.

 
Si è passati da questo.

 
A questo.

Posso dire che le immagini parlano da sole. Il mod in questione è un po’ macchinoso nella sua installazione ma lo trovate qui: http://morrowindoverhaul.rpgitalia.net/

Ci sarebbe molto altro da dire ma finirei per scrivere una decina di pagine di recensione ripiene di spoiler quindi l’unica cosa che posso dirvi è giocatevelo, con  l’esistenza di questo immane aggiornamento grafico non ci sono veramente più scuse per perdersi uno degli rpg che ha fatto la storia del suo genere.

Alla prossima. 


Paolo Gabbiani

giovedì 5 gennaio 2012

La Storia dell'Italia moderna di Giorgio Candeloro: gli sviluppi e i giudizi critici

Il seguente articolo rientra nella sezione “Discorsi Tesi”, il cui obiettivo è presentare in breve il risultato di una ricerca, appunto la tesi di laurea, per fornirvi interessanti spunti da seguire per saperne di più sul tema trattato: ovviamente i pezzi non hanno lo scopo di darvi un quadro esauriente (che sarebbe impossibile fornire in poche righe, dato che ci è voluta un'intera tesi) ma dare il là per vostre future ed eventuali ricerche. Ecco il discorso della laurea magistrale di Andrea Danile, maggio 2011. Buona lettura!

Questo lavoro si propone di analizzare la genesi, i riscontri critici ed il successo negli anni successivi della Storia dell'Italia moderna di Giorgio Candeloro, una maestosa opera composta da undici volumi rivolta e dedicata – come dichiarerà l'autore – a chiunque abbia intenzione di approfondire la storia del nostro paese dal Settecento fino all'anno 1950, al fine di capire al meglio la situazione del presente (si ricorda che l'autore realizza l'impresa tra gli anni 1956 e 1986): una fatica trentennale che non l'ha mai distolto dal suo obiettivo finale, nemmeno d'innanzi alla prematura morte della figlia (avvenuta durante la composizione del terzo volume), ma che anzi l'ha spronato a dare di più, aumentando la produzione dai sei inizialmente pianificati agli undici effettivamente realizzati.
Una fatica trentennale frutto di un illustrissimo esponente della scuola marxista – degno erede di Antonio Gramsci – che, prima di raggiungere l'apogeo con la sua opera ammiraglia, si è formato nell'ambiente fascista sotto la supervisione del suo maestro, Giovanni Gentile. L'ascesa intellettuale di questo grande storico, si compie nel ventennio che va dal 1931 al 1949, un lungo arco di tempo che vede l'ingresso nella sua vita di personaggi importanti come Gioacchino Volpe e come il già citato ministro dell'istruzione dell'epoca. E' importante prestare attenzione a tre figure importantissime, che hanno parecchio influenzato la sua crescita intellettuale, ovvero Joseph-Marie de Maistre (a cui Giorgio Candeloro dedicò la sua tesi di laurea), Paolo Paruta ed David Hume, nomi di punta dello “storicismo”, oltre a quella di Alexis de Tocqueville, verso cui il nostro storico del Risorgimento resterà a lungo fedele. Il suo operato si inserisce nel percorso delle “dottrine politiche nell'antichità”:interessante è il suo pensiero in merito al concetto di “classe politica” ed al rapporto tra il “modernismo” del liberalismo italiano e l'esigenza di un liberalismo “nuovo”. La sua vita intellettuale e non solo negli anni del dopoguerra, lo vedrà compiere scelte politiche e culturali non indifferenti, come l'abbandono della corrente neo-socialista – rea a suo modo di vedere di non aver adempiuto alle sue aspettative – in favore del comunismo – ideologia che poneva le basi, sempre secondo il suo pensiero, per una visione d'insieme alternativa a quella tradizionale.
Il suo lavoro è costituito da XI tomi: numerose furono ovviamente le recensioni sia sui quotidiani, sia sui periodici, sia in forma di saggi storiografici. Tra i nomi dei recensori è possibile trovare intellettuali come Raffaele Colapietra, Ernesto Ragionieri e Nicola Tranfaglia.
Inoltre con l'ausilio di interviste ed articoli estratti dai quotidiani del tempo, si può capire l'importanza della figura di Giorgio Candeloro e della sua maestosa opera: il successo della Storia negli anni successivi all'uscita dell'ultimo suo tassello ed il ricordo del suo autore dopo la morte (avvenuta tre anni dopo la redazione del medesimo), sembra permanere sempre più vivo ad oltre vent'anni dalla sua scomparsa persino, e a maggior ragione oggi che l'Italia compie i suoi 150 anni in quanto nazione unitaria. E allora “Auguri Italia”! Sicuramente anche da parte di Giorgio Candeloro.

Andrea Danile